EDIZIONE DEL Manifesto 06.09.2015
Bombe atomiche. Venerdì sera su “Canale 2” l’ex tecnico della centrale di Dimona, che nel 1986 rivelò al “Sunday Times” i segreti del nucleare israeliano, dopo 29 anni ha potuto di nuovo denunciare pubblicamente i pericoli legati alle armi di distruzione di massa in possesso del suo Paese. Perchè governo e servizi segreti lo hanno lasciato parlare?
È facile incontrare casualmente Mordechai Vanunu per le strade di Gerusalemme Est, la zona palestinese della città, dove l’ex tecnico della centrale di Dimona vive da quando fu liberato nel 2004, dopo 18 anni trascorsi nella prigione di Shikma (11 dei quali in isolamento totale), per aver rivelato nel 1986 i segreti dell’atomica israeliana al giornale britannico Sunday Times. L’ultima volta è stata il mese scorso, dalle parti di via Salah Edin. «Hello» (Vanunu dal 1986 si esprime solo in inglese, non usa più l’ebraico), qualche battuta veloce sulle cose che cerca di fare, sul suo desiderio di abbandonare Israele, un sorriso sobrio a commento del suo recente matrimonio con una docente universitaria norvegese, Kristin Joachimsen, e un «goodbye». Tutto qui. In pubblico si comporta così con tutti. Vanunu — che per i servizi segreti israeliani resta detentore di importanti segreti di stato, anche se vecchi di 30 anni — non può parlare ai cittadini stranieri, in particolare ai giornalisti. È una delle tante restrizioni stabilite dai giudici al momento della scarcerazione. Non può riferire particolari, anche agli israeliani, del lavoro che svolgeva Dimona. Violando queste disposizioni il tecnico nucleare si espone all’arresto e alla detenzione, anche per mesi. Gli stranieri invece all’espulsione immediata da Israele. Per questo motivo ha fatto scalpore l’intervista con l’ex tecnico nucleare di Dimona trasmessa venerdì in prima serata dalla rete televisiva israeliana Canale 2.
È stato un evento eccezionale. Nonostante domande e risposte non siano sempre andate sugli aspetti più interessanti delle rivelazioni fatte 30 anni fa da Vanunu — le finalità della produzione di plutonio per ordigni atomici nella centrale di Dimona -, l’uomo che gran parte del Paese considera un “traditore” ha potuto ugualmente parlare del programma atomico segreto israeliano e condannarlo. Israele non ha firmato il Trattato di non-proliferazione nucleare e non ha mai ammesso (e neanche smentito) di possedere bombe atomiche (tra 100 e 200 secondo esperti internazionali). Da decenni Israele mantiene la cosiddetta «ambiguità nucleare». L’interrogativo perciò è d’obbligo. Perchè i servizi segreti e il governo hanno dato il via libera all’intervista in un momento delicato, in cui il premier Netanyahu è impegnato in uno scontro accesso con gli alleati americani per il via libera che è stato dato a Vienna al programma atomico dell’Iran? Il racconto di Vanunu a Canale 2 in apparenza è controproducente per gli interessi israeliani. Forse Netanyahu, lasciando parlare il “traditore”, ha voluto mandare un messaggio all’esterno. Ad esempio avvertire Tehran di non dimenticare che Israele le bombe le possiede già e potrebbe usarle se necessario. Ma le spiegazioni probabilmente sono più di una.
Vanunu venerdì sera ha raccontato il processo graduale che lo portò nei nove anni di lavoro a Dimona alla decisione, anzi «all’obbligo», come ama dire lui, di rivelare «ai cittadini di Israele, del Medio Oriente e del mondo», la natura della «polveriera» di Dimona. «Ho visto quello che stavano producendo e il suo significato», ha detto. Ha aggiunto di aver portato nella struttura una normale macchina fotografica, «una Pentax», e di aver scattato segretamente 58 foto, nascondendola poi nel suo zaino che gli uomini della sicurezza non controllavano più perchè la sua era una presenza abituale. Ha negato di aver fatto le sue rivelazioni in cambio di un compenso da parte del Sunday Times e ha ripetuto più volte che il nucleare è un pericolo, un’arma terribile, per tutti, anche per Israele e non soltanto per i suoi nemici. Ha infine ribadito di voler andare via, per ricongiungersi a suo moglie.
Vanunu, 60 anni, membro di una famiglia religiosa ortodossa, giunse dal Marocco quando era ancora bambino. Cominciò a formarsi una coscienza politica soltanto all’inizio degli anni Ottanta. In precedenza aveva svolto con diligenza il suo lavoro nella centrale di Dimona, costruita ufficialmente per la produzione di energia elettrica ma che il laburista Shimon Peres con l’aiuto del padre della atomica francese Francis Perrin, trasformò in un centro segreto. Vanunu cominciò a riflettere su ciò che avveniva a Dimona quando fu trasferito nel Machon 2, un complesso di sei piani sotterranei della centrale atomica dove venivano prodotti annualmente una quarantina di kg di plutonio. Nel 1985 Vanunu venne costretto a dimettersi per «instabilità psichica». Con uno zaino pieno di informazioni partì per l’Australia dove si mise in contatto con il Sunday Times. Giunto a Londra nell’agosto del 1986, si recò al giornale riferendo per due intere settimane i suoi segreti. Il direttore del giornale però esitò a pubblicare il racconto. Sospettava che Vanunu fosse un agente del Mossad che, per conto del suo governo, intendeva far sapere ai paesi arabi che Israele è in possesso di un arsenale nucleare in grado di incenerire l’intero Medio Oriente. Il servizio giornalistico verrà pubblicato solo il 5 ottobre, quando si seppe della scomparsa dell’israeliano.
Vanunu cadde in una trappola preparata alla fine dell’estate da una donna affascinante, Cindy, al secolo Cheryl Ben Tov, un’agente del Mossad per la quale perse la testa. Il sequestro non avvenne a Londra (i britannici non vollero) ma Roma (sempre disponibile) dove Cindy lo attirò proponendogli un weekend romantico, come Gregory Peck e Audrey Hepburn. Invece appena arrivato in Italia, gli agenti del Mossad lo rapirono e lo portarono in un appartamento nella periferia della capitale, poi lo trasferirono a La Spezia e, imbarcandolo sul mercantile israeliano Tapuz, lo rispedirono (in una cassa) in Israele. Vanunu si rivide in pubblico il 7 ottobre, solo per qualche attimo, a Gerusalemme, durante il processo per direttissima, quando con uno stratagemma — scrivendo sul palmo della mano che mostrò ai fotografi fuori dall’aula — fece sapere di aver raggiunto Roma il 30 settembre con il volo 504 della British Airways e di essere stato rapito. L’altra sera ha ammesso di non aver capito, anche dopo il rapimento, che Cindy era stata la protagonista del piano del Mossad e di averlo compreso solo dopo parecchi giorni mentre navigavano verso il porto di Haifa.
L’Italia, come fa spesso quando agisce il Mossad, finse di non accorgersi della violazione della sua sovranità territoriale e del rapimento a Roma. Le indagini avviate dal sostituto procuratore Domenico Sica non portarono a nulla, nessuno aveva visto e sentito. Vanunu per anni ha chiesto invano un intervento delle autorità italiane su Israele. Roma non ha mai risposto ai suoi appelli.