Agosto 2015 – Romana Rubeo
Ci sono viaggi che fai perché la terra verso cui vuoi andare ti chiama. Perché ne hai sentito tanto parlare, perché improvvisamente è entrata nella tua vita in modo prepotente, perché lì vivono professionisti che stimi tanto o amici che hanno un pezzo del tuo cuore, o perché è lì che sono nate persone a cui hai imparato a voler bene.
È così che lo scorso agosto mi sono ritrovata su un volo per Tel Aviv, destinazione Palestina, con un itinerario un po’ improvvisato che si è andato formando man mano, tante idee nella testa e nessuno scopo preciso.
E invece è proprio questo il primo fattore da considerare quando si decide di visitare quei luoghi, per lo più, partendo da soli. A seconda della prospettiva di chi ve lo chiede, dovrete rispondere alla fatidica domanda, nelle sue precise varianti: “Perché proprio la Palestina?!”, chiedono le amiche preoccupate, che ti vorrebbero sotto una palma caraibica. “Vuoi riscoprire Dio?”, domandano pieni di speranza i più religiosi, convinti che per te la Terra Santa sia ormai l’ultima spiaggia. “Qual è lo scopo del suo viaggio?”, interrogano con fare inquisitorio gli addetti ai controlli dell’aeroporto.
E l’aeroporto è l’unico luogo che ti spaventa, mentre fai le valigie e nella tua testa riecheggiano i racconti di chi ci è già stato e si è sentito in dovere di darti i consigli più disparati: “Niente timbri sul passaporto!”; “Ho viaggiato con El Al e mi hanno tenuto per otto ore a interrogarmi prima di farmi imbarcare per Tel Aviv”; “Cavolo! Non hai preso Alitalia? E chi ti tutela, allora?”; “Tu nega tutto, TUTTO!”. Che poi, negare cosa? Che faccio traduzioni per la Palestina e che in questo conflitto so benissimo da che parte stare? Comunque, io so cosa dire: ho la fortuna di alloggiare in casa di amici, a Gerusalemme ovest, nella parte israeliana. Per me, la strada è spianata. Talmente spianata che quasi mi sento in colpa, per tutti i figli di quella terra che sono in diaspora, in Europa, diu cui conosco volti e storie, e a cui l’accesso è precluso perché “rappresentano un pericolo per la sicurezza”.
A Fiumicino, comunque, complice il ritardo della compagnia low cost che ho scelto e della mia tendenza a instaurare rapporti sociali con chiunque respiri e si trovi al mio fianco, conosco un sacco di gente. Il primo è Giacomo, un signore sulla settantina, molto simpatico: è accompagnato da sua moglie e non si fa una ragione del fatto che io viaggi da sola. A nulla valgono le rassicurazioni (“Dormirò da un’amica”, “Conosco gente del posto!”). Niente, lui, un aereo da sola a sua figlia non lo farebbe prendere, puntoebasta! Giacomo è uno degli italiani che ha scelto l’Aliyah: ha deciso, a un certo punto della sua vita, di stabilirsi nella terra di Israele. Orgoglioso, mi dice: “I miei figli sono andati a vivere lì con i bambini, non c’era lavoro in Italia, e noi li abbiamo seguiti”. Mi vengono in mente le statistiche del Prof. Della Pergola sui cittadini ebrei italiani che decidono di emigrare[1], lette qualche mese fa; gli chiedo cosa li abbia spinti a prendere una decisione così impegnativa. Mi fa capire che la crisi economica in Europa li spaventa, ancora più della leva obbligatoria. “E poi c’è tanta terra, lì, e ci sentiamo a casa!” La terra, l’agognata terra, che non è tanta, in realtà, che è contesa, che è occupata, rubata, depredata. La terra coltivata, la terra bruciata, la terra che un popolo piange e a cui non può tornare, quella dei libri di Pappé e dei romanzi di Susan Abulhawa, ecco: quella terra, magicamente, per Giacomo diventa, in modo quasi innocente, tanta, troppa, al punto che sarebbe uno spreco non trasferirsi.
Poi conosco un ragazzo di Tel Aviv, è giovane, ha girato l’Italia, sembra amichevole, ma prende a farmi un interrogatorio in piena regola: “Conosci arabi? Perché vai in Israele? Che ne pensi del conflitto israelo-palestinese?” E sciorina una serie di luoghi comuni beceri e razzisti sugli arabi: “Cercheranno di fregarti, attenta ai loro tassisti, noi diamo loro tutte le opportunità e loro ci rispondono con i razzi”. Io non polemizzo, spero solo che la selezione casuale del posto non si sia accanita contro di me al punto da farlo capitare sul sedile accanto al mio.
Allo sbarco, mi attende un autista israeliano; mentre mi porta a Gerusalemme, di notte, mi indica il muro e mi parla della portentosa app Waze (è un’ossessione di tutti, in realtà, non so come si facesse a guidare, prima, da queste parti). Ha un volto simpatico e parlando del muro, mi sembra che provi un po’ di dispiacere, misto a vergogna.
La mattina dopo, quella che di notte mi era sembrata una città come le altre, esplode di luci, colori, suoni, profumi. Ci sono quei luoghi comuni a cui ti devi piegare, inchinare: uno di questi è che Gerusalemme è unica, che ti entra dentro, fino alla fibra più nascosta, che ti scuote la vista e i sensi, che dopo averla vista e vissuta non sarai più lo stesso.
Si può decidere di entrare nelle antiche mura con tanti sentimenti e approcci diversi, ma presto, la bellezza e la “maraviglia” sveleranno il fragile equilibrio delle divisioni. Ci sono confini invisibili che separano mondi, storie, culture, individui; divari incolmabili che il viaggiatore fa fatica a cogliere. Il primo giorno, non riuscivo neanche a capire quali fossero i diversi quartieri; poi pian piano, mentre perdersi in quel labirinto diventava una piacevole abitudine, le linee di confine si sono fatte palesi ai miei occhi. Sono entrata in tanti negozi, ho parlato con molte persone, ho bevuto i caffè più buoni del mondo (tutti rigorosamente offerti, visto che non ero capace a trattare sul prezzo e pagavo sempre la cifra richiesta, davanti al loro sguardo compassionevole). Ho mangiato knafeh in quantità siderali, perché il pasticcere si era un po’ affezionato a questa “italian girl” che tutti i giorni passava di lì e non si tirava mai indietro davanti al cibo. Ho conosciuto tassisti, commercianti, guide improvvisate, ristoratori. E nelle parole di molti, con la morte nel cuore, ho sentito un po’ il senso della resa. Vivere nei confini di uno Stato che pratica l’apartheid in modo sistematico, attraverso la soppressione dei diritti di una parte dei suoi cittadini, ma anche attraverso la negazione della loro storia, della loro identità, sfocia in alcuni casi in un comprensibile abbandono della volontà di resistere. Tutte le cifre, le percentuali, i sondaggi secondo cui, nella città di Gerusalemme, oltre la metà dei Palestinesi vorrebbe, “semplicemente”, ottenere la cittadinanza israeliana per godere di uguali diritti, qui diventano una realtà[2]; sono la voce di un negoziante del suk che espone merce che si richiama a simbologie diverse, opposte, e che alla tua domanda: “C’è un po’ di confusione ideologica, non credi?”, ti guarda e risponde: “Io non mi occupo di politica, ho cinque figli”.
“Certo che sono forte, ho fatto la Resistenza”, diceva mio nonno. Resistere è roba per uomini forti, e dalla poltrona di casa mia mi chiedo, adesso, da che parte starei se fossi io a vivere in una città in cui non tutti sono miei concittadini; in cui il semplice fatto di essere nato dalla parte “sbagliata” mi priva di semplici diritti; in cui uno Stato occupante, che ha fretta di sbarazzarsi di quelli come me, prova a comprare la mia dignità, a cancellare la mia storia, a costo di costruire sui monumenti e sui luoghi simbolici che la ricordano. Ma è proprio qui che i miei amici che vivono in Palestina e che lottano ogni giorno, o anche quelli che vivono in un esilio forzato e che non smettono mai di pensare alla loro terra amata, diventano ancora più eroici; è in loro che mi riconosco, negli uomini e nelle donne che stanno difendendo al Aqsa in questi giorni.
La visita alla Spianata delle Moschee (Al Haram Al Qudsi Al Sharif per gli arabi, il Monte del Tempio per gli Ebrei), è una tappa obbligata per chi visita Gerusalemme. È lì che sorgono la meravigliosa Cupola della Roccia e la Moschea di Al Aqsa, terzo sito sacro per l’Islam. Sono arrivata molto presto, intorno alle sette del mattino, nella Piazza del Muro Occidentale, di fronte alla passerella rialzata da cui accedono i turisti e mi sono messa in fila per superare i controlli dei militari israeliani, all’ingresso. Davanti a me, c’erano una ventina di coloni: si accalcano lì tutti i giorni, provano a entrare, dicono di voler pregare, in realtà l’intento provocatorio è palese. In quell’occasione, sono stati respinti, ma non è sempre così e spesso la situazione degenera, come sta accadendo in questi giorni. Pensare che quel luogo sospeso nel tempo, quello del silenzio, della luce pallida del mattino, dei tappetini da preghiera sparsi a terra, degli uomini che pregano al sole, degli anziani con la kefiah che parlano sulle scalinate, dei bimbi che giocano a biglie mentre un gatto dorme ai loro piedi, possa tramutarsi in inferno, sembra quasi impossibile. Insieme al Monte degli Ulivi, su cui ero salita a piedi al tramonto il giorno prima, è il posto che mi ha trasmesso il più forte senso di spiritualità, in questo viaggio. In entrambi, non ho trovato ostentazione della fede, ma quanto di più vicino all’idea di Dio io riesca a immaginare.
Mentre scrivo, mi arrivano immagini terribili. Gli scontri, che non sono certo una novità, stavolta si inseriscono nella crociata israeliana tesa a demonizzare i “pericolosissimi” lanciatori di pietre. Tutto questo non è casuale, c’è un progetto preciso, puntuale, come spiegato su Nena News e sul Manifesto da Michele Giorgio già a fine luglio.[3] La ricostruzione del mitico tempio, un tempo “folle idea” di qualche gruppo isolato, oggi diventa “dovere morale degli ebrei” e parte dell’agenda politica del Governo Netanyahu. Le conseguenze sarebbero, non c’è neanche bisogno di dirlo, devastanti.
Come devastante è stato, per me, l’impatto con Hebron.
Hebron (Al Khalil in arabo) è la seconda città più grande nei territori palestinesi; ci sono arrivata con una guida d’eccezione a bordo di un taxi con targa gialla (palestinese, quelle verdi sono israeliane), partendo da Betlemme. Erroneamente, la immaginavo più piccola, forse perché avevo visto delle foto fuorvianti. Invece è sede di un’università, vari poli commerciali e piccole industrie e laboratori artigianali che si sviluppano lungo il fianco della collina. Scendiamo dal taxi alla rotonda all’ingresso, a poche centinaia di metri dalla strada che conduce verso la Grotta dei Patriarchi, sito sacro sia per i Musulmani (sulla sinistra sorge la meravigliosa Moschea di Al Ibrahim), che per gli Ebrei (sulla destra c’è la sinagoga).
La strada, però, non è una via come le altre. Si tratta della tristemente famosa Shuhada Street, un tempo cuore della città, oggi completamente deserta: sentivo l’eco dei miei passi rimbombare mentre cercavo di capire fino in fondo lo scenario che mi si presentava davanti, mentre tentavo di fare ordine nei miei pensieri confusi, nel groviglio di emozioni che stavo provando; le uniche persone che abbiamo incrociato sono stati i militari armati fino ai denti, che presidiano i vari checkpoint. Dal 1994, anno della strage ad opera dell’estremista israeliano Baruch Anwar, l’accesso è vietato ai veicoli palestinesi; dal 2000, viene impedito persino il passaggio ai pedoni. Chiaramente, il tutto in nome della “dea sicurezza”, qui invocata compulsivamente per giustificare anche la più assurda e terrificante delle azioni. Ci sono insediamenti dei coloni troppo vicini? Si teme per la loro incolumità? Allora, i Palestinesi non possono vivere lì. I pochissimi arabi rimasti sono stati letteralmente murati in casa, le loro porte sigillate; per uscire, sono costretti a passare dal tetto.
La verità è che Hebron è la rappresentazione plastica, così evidente da essere quasi stilizzata, dell’apartheid, del razzismo, della discriminazione. Il territorio è spaccato a metà: H1, governato dall’Autorità Palestinese, e H2, sotto il controllo dell’esercito israeliano. Questo non disturba la comunità internazionale, come accadde in passato per altre famose divisioni, ma il succo non cambia: i Palestinesi “incastrati” nella Hebron 2 sono reclusi, prigionieri, a cui è negato ogni diritto alla mobilità, all’azione, alla vita. Gli altri, hanno deciso di lasciare per sempre questa strada, la loro strada, per cercare di sopravvivere. Dopo la visita alla moschea e alla sinagoga, ci inoltriamo lungo la stretta stradina del suk, molto lontano dall’immagine classica associata a un suk arabo. Non c’è rumore qui, non ci sono persone ovunque, c’è poca gente, i commercianti ti implorano di comprare, per essere il primo cliente della giornata. Solo i profumi sono sempre quelli: le spezie, il caffè, la frutta esposta in strada. Ho alzato gli occhi, ma al posto del cielo, ho visto una rete metallica: sembra un incubo, oppure un brutto film, di quelli in bianco e nero che ti lasciano un’angoscia dentro, e per quanto cerchi di seguire le immagini, sembra sempre sfuggirti il senso. La rete serve a trattenere le pietre, gli oggetti e i rifiuti che i coloni che abitano al primo piano lanciano di continuo. Penso alla scritta che avevo letto all’ingresso della città fantasma, in cui la comunità ebraica si auto-definiva “dedita ai princìpi della Torah, pia, caritatevole e cortese”. Mi spunta un sorriso amaro agli angoli della bocca. Per oggi è tanto, troppo: toccare con mano l’ingiustizia ti lascia addosso quel fastidioso senso di impotenza e rabbia e dolore; ho un sapore acre nella bocca che neanche l’eccezionale caffè aromatizzato al cardamomo che ci hanno offerto in centro e la fenomenale shawarma che abbiamo mangiato per pranzo sono riusciti a mandare via.
Sono tornata, dalla Palestina, già da un mese. E solo adesso mi rendo conto di quanto profondamente mi abbia toccato questo viaggio, solo adesso che ho provato a mettere nero su bianco le sensazioni; adesso che le immagini che ho visto, le parole che ho ascoltato, le storie che ho respirato non sono più avvolte dall’inebriante profumo di spezie orientali; adesso che sono un ricordo, unito alla voglia di tornare, per capire di più, per afferrare quello che è sfuggito.
Certo che oggi, leggere le notizie dal divano di casa mia ha tutto un altro significato. Vedere il cuore della Città Vecchia sotto assedio, riconoscere Shuhada Street nelle immagini di una diciottenne impaurita barbaramente uccisa a un checkpoint, non è più un’esperienza solo razionale.
C’è una rabbia, una rabbia feroce, che nasce nel ricordo di quella terra bellissima, accogliente e calorosa, completamente straziata da un’occupazione violenta e feroce. E le considerazioni sono tante: da una parte, la tridimensionalità che i suoi abitanti assumono. Non più solo un popolo in lotta, disposto a resistere con ogni mezzo, ma a volte solo individui stanchi e sfiancati, che sognano di emigrare o semplicemente di sopravvivere.
Ci sono tanti modi per arrendersi e, al di fuori della visione romantica e granitica che si può avere dall’esterno, molti palestinesi lo hanno fatto: chi nei modi che ho raccontato, chi smettendo di credere nella politica (e quindi nella salvezza terrena) e affidandosi solo alla speranza ultraterrena. D’altra parte, è proprio nell’insostenibilità delle condizioni di vita che sono costretti a sopportare che si sviluppano, in molti casi, i germi del fondamentalismo, come ricorda Abdalhadi Alijla in un articolo recente, analizzando lo specifico caso della Striscia di Gaza. [4]
Resto, oggi, ancora più incredula di fronte a tanta indifferenza nei confronti del destino della Palestina: da parte del mondo arabo, dell’Europa, degli attori internazionali che fanno a gara per fare sfoggio di attenzione nei confronti dei diritti umani e civili e che poi, nella migliore delle ipotesi, si dichiarano equidistanti nei confronti del conflitto israelo-palestinese.
E non è un caso, a mio parere, che, in occidente, questa rimozione del conflitto sorga al tramontare della sinistra politica europea come campo organizzato delle classi subalterne. Quando la sinistra non si fa più portatrice di un autonomo pensiero critico sulla storia e sul mondo, essa diventa incapace di vedere. Ecco così che l’opposizione all’occupazione israeliana assume la forma e i toni di una petitio principii dal carattere umanitario, che quindi si può tirare fuori solo nei momenti più tragici dell’emergenza e della massima visibilità mediatica (come in occasione delle operazioni militari condotte da Israele). Bisognerebbe, a mio avviso, ritornare ad esprimere un punto di vista autonomo e considerare il Sionismo come uno strumento dell’imperialismo capitalista in Medio Oriente, come un avamposto per la politica di potenza occidentale in grado di tenere sotto scacco l’intera regione, e che ha trovato nello stato di Israele la compiuta realizzazione della sua ragione storica.
Resto attonita, poi, nel leggere i resoconti della stampa mainstream, che spesso forniscono la versione ufficiale israeliana prima ancora di verificarne l’autenticità e la verosimiglianza, come nel caso della recente uccisione di Hadil Hashlamoun, contribuendo anche a diffondere quel sentimento di islamofobia ormai dominante. La diciottenne, terrorizzata e con la sua borsa dell’università, era “colpevole” anche di indossare un niqab, e trasformarla da vittima a carnefice nell’immaginario collettivo è stata un’operazione così veloce e indolore che ho faticato a trattenere le lacrime per un pomeriggio intero.
Quel senso di impotenza e rabbia e dolore è amplificato, come in quel giorno a Hebron, come quando sai di essere così piccolo e insignificante che un po’ ti manca il “senso del vero” di gucciniana memoria, che forse hai trovato lassù, sul Monte degli Ulivi, o camminando sulla Spianata delle Moschee alla luce pallida del mattino.
[1] http://www.kolot.it/2014/12/15/il-piccolo-esodo-degli-ebrei-italiani/
[2] http://www.washingtoninstitute.org/policy-analysis/view/half-of-jerusalems-palestinians-would-prefer-israeli-to-palestinian-citizen
[3] http://nena-news.it/il-terzo-tempio-preme-sulle-moschee-di-gerusalemme/
[4] https://www.opendemocracy.net/arab-awakening/abdalhadi-alijla/islamic-state’s-arrival-in-gaza (Trad. italiana http://nena-news.it/da-jaljalat-a-daesh-il-fondamentalismo-come-frutto-dellisolamento-a-gaza/)
Commento citando alcuni tuoi passaggi che mi hanno scosso e fatto sorridere o attristare. Pensare e riflettere.
Grazie per questi scorci di verità, luoghi e vita quotidiana.
Grazie per i tuoi modi gentili.
Grazie Romana
“Ha un volto simpatico e parlando del muro, mi sembra che provi un po’ di dispiacere, misto a vergogna.”
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“E nelle parole di molti, con la morte nel cuore, ho sentito un po’ il senso della resa. Vivere nei confini di uno Stato che pratica l’apartheid in modo sistematico”
[…]
“ma presto, la bellezza e la “maraviglia” sveleranno il fragile equilibrio delle divisioni.”
[…]
“Io non mi occupo di politica, ho cinque figli”
[…]
“dei bimbi che giocano a biglie mentre un gatto dorme ai loro piedi, possa tramutarsi in inferno, sembra quasi impossibile”
[…]
“In entrambi, non ho trovato ostentazione della fede, ma quanto di più vicino all’idea di Dio io riesca a immaginare.”
[…]
“con targa gialla (palestinese, quelle verdi sono israeliane)”
[…]
“pochissimi arabi rimasti sono stati letteralmente murati in casa, le loro porte sigillate; per uscire, sono costretti a passare dal tetto.”
Ancora grazie Romana