29 ottobre 2015 – Luisa Morgantini
Il ministro della Difesa israeliano, Moshe Ya’alon, è in partenza per Washington dove incasserà, oltre ai 3,1 miliardi di dollari già messi in bilancio dal governo statunitense, un ulteriore aiuto in armi di 1 miliardo di dollari, mentre il programma di aiuti ai palestinesi subirà un calo già annunciato pari a 80 milioni di dollari.
Israele, malgrado le reiterate violazioni dei diritti umani e della legalità internazionale viene sempre giustificata e compensata dai suoi più fedeli alleati, gli Stati Uniti.
Un accordo come quello raggiunto ad Amman tra il Re di Giordania, il segretario del Dipartimento di Stato John Kerry e il premier Netanyahu, è una nuova trappola per i palestinesi: Kerry vuole solo tentare di fermare la rivolta.
Lettere morte sono gli appelli della leadership palestinese alla comunità internazionale per la protezione delle moschee e della popolazione dei territori occupati, per il blocco della colonizzazione e della violenza dei coloni così come per la fine dell’occupazione israeliana.
Le dichiarazioni di Kerry vanno tutte nella direzione di responsabilizzare il presidente Mahmoud Abbas per non essere in grado di far cessare la rivolta, scoppiata in modo totalmente spontaneo, con l’effetto a catena dei tentativi di accoltellamento adottati da giovani palestinesi, azioni individuali alle quali Israele risponde come al solito con punizioni collettive e rappresaglie, demolendo le case delle famiglie degli attentatori o presunti tali, non restituendo per la sepoltura i corpi degli assassinati, imponendo blocchi, costruendo muri anche dentro Gerusalemme Est, arrestando nel solo mese di ottobre circa 1.200 persone. Coloni, soldati e polizia israeliani compiono esecuzioni sommarie e con premeditazione uccidono giovani che dai video e dalle dichiarazioni di testimoni oculari non erano armati neppure di coltelli. Sono già 61 (18 solo ad Hebron) i palestinesi uccisi in questo mese di ottobre, tra loro bambini e donne. E Netanyahu, dopo l’accordo di Amman, propone di revocare la residenza a più di 100mila palestinesi che, non per loro scelta, vivono al di là del muro e continua a dare il via all’ampliamento di colonie illegali come quella di Itamar. Mentre da Israele, Kerry, si accontenta di un accordo che riguarda la gestione della Spianata delle moschee e la garanzia (alla quale nessuno crede) che il governo israeliano non ne muterà lo status proibendo quindi agli ebrei ortodossi di recarsi a pregare all’interno della moschea e permettendo solo le visite nel complesso di al-Aqsa.
Questi non sono però “turisti” curiosi di visitare uno dei luoghi più belli del mondo, bensì nazionalisti religiosi che sulla moschea vogliono ricostruire il tempio, a loro dire distrutto dai romani, e con esso stabilire la sovranità ebraica sull’area. Nello stesso tempo il ministro Gilad Erdan ha predisposto gli orari di visita al complesso della moschea, con divieto di entrata ai musulmani dalle ore 7.30 alle 9.30: orari che fino a poco tempo fa erano predisposti solo dal Wafq, l’autorità islamica preposta. Già questo è un mutamento dello status quo, così come l’installazione di telecamere controllate dagli israeliani.
Non batte un colpo né l’Onu né l’Unione Europea che con le loro vacuità e non affrontando il nodo della questione per cui questa nuova rivolta è scoppiata – l’occupazione militare israeliana che dura ormai dal 1967 – si rendono complici di Usa e Israele.
Questa rivolta vede protagonisti giovani che non sono legati a forze politiche organizzate, ormai in crisi e screditate, che comunicano con il mondo attraverso i social network ma che, dalla Cisgiordania, non possono neppure arrivare al mare o andare a Gerusalemme o, nel caso di Gaza, non possono uscire né verso l’Egitto né verso la Cisgiordania. Giovani che non hanno mai vissuto un giorno di libertà, umiliati quotidianamente dal controllo militare israeliano, dalla disoccupazione, dall’ingiustizia aberrante di vedere la propria casa o quella dei propri vicini o parenti demolita, dall’avere padri, fratelli, amici rinchiusi nelle carceri israeliane, dal vedere o subire i massacri compiuti a Gaza nella totale impunità.
Bisognerebbe conoscere e dare voce alla storia personale di ciascuna di queste ragazze e di ciascuno di questi ragazzi ed analizzare i motivi che spingono ad impugnare un coltello. Azioni da condannare certo, ma non per questo li chiamerei terroristi. I media hanno adottato la propaganda e i pregiudizi sui palestinesi “terroristi” e così i coloni, che sono illegali, vengono presentati come israeliani che si difendono – quando invece ammazzano, bruciano, linciano – e dei giovani palestinesi giustiziati a freddo si dice solo che sono stati “neutralizzati”.
Pochi giorni fa, mentre insieme ad altri israeliani ed internazionali con la sua presenza aiutava i palestinesi nella raccolta delle olive, il rabbino Arik Ascherman, dell’associazione Rabbis for Human Rights, è stato aggredito con un coltello da un colono. È tutto documentato, ma nessuno ne parla. Sono davvero rare le eccezioni di chi cerca di capire le ragioni di questa sollevazione, nessuno che dica che le rivolte continueranno a scoppiare fino a quando ci sarà l’occupazione militare, che la repressione potrà fermarle per qualche tempo ma che inevitabilmente riesploderanno.
Israele è un Paese malato, che va salvato da se stesso, permeato com’è di razzismo non solo verso i palestinesi ma, al proprio interno, verso i falascia, gli africani, le minoranze. L’incitamento al razzismo è nelle parole e nei fatti di rabbini, politici, cittadini. Il giornalista israeliano David Sheen da più di cinque anni documenta e testimonia della crescita di una destra nazionalista, annoverando al suo interno anche il ministro Naftali Bennet che si vanta di aver ucciso molti arabi.
Il governo di Netanyahu pullula di coloni e di nazionalisti religiosi. Nel tentativo di demonizzare i palestinesi il primo ministro è arrivato persino a sostenere che non fosse Hitler a volere lo sterminio degli ebrei bensì Amin al-Husseini, ex Mufti di Gerusalemme. Lo scrittore Amos Oz, di fronte ai continui attacchi dei coloni e all’assassinio, lo scorso anno, del giovane Mohammed Abu Khdeir al quale hanno fatto inghiottire benzina per poi dargli fuoco, sostiene che «non bisogna nascondere la verità: anche in Israele ci sono gruppi neo-nazisti come in Europa, la sola differenza è che in Israele sono sostenuti dal governo».
Le poche forze di sinistra che esistono ancora in Israele sono sottoposte a campagne denigratorie e additate come traditrici: è il caso di Meretz e dei parlamentari della lista unitaria che comprende le diverse formazioni arabe e il partito Hadash, minacciati costantemente di espulsione dalla Knesset.
La rivolta dei giovani palestinesi non è solo per al-Aqsa: è per la dignità, per la libertà. Non è solo la rivolta dei coltelli: da giorni e giorni, nei villaggi e ai check point, i giovani cercano di farsi varco per le strade per affermare il loro diritto a passare liberamente sulla loro terra, andando incontro a repressione ed arresti. Ancora pietre contro soldati armati che hanno l’ordine di sparare e uccidere, soldati nelle cui fila c’è un 40% di coloni, giovani anch’essi convinti che quella terra sia loro, per diritto divino, e spietati verso i palestinesi.
In questa situazione i comitati popolari per la resistenza nonviolenta, che dal 2004 resistono al muro e all’occupazione – subendo incarcerazioni arbitrarie e contando feriti e morti a causa dei proiettili sparati dai soldati –, tentano di unire le forze e chiedono ai dirigenti palestinesi di definire una linea comune di condotta e di non muoversi solo sul piano della diplomazia internazionale. La maggioranza della popolazione è però bloccata dalla paura, dall’angoscia di veder uscire i propri figli e non vederli tornare, dal terrore di rivedere le distruzioni avvenute a Gaza e in Cisgiordania nel 2002, quando tutti vivevano sotto coprifuoco e il campo profughi di Jenin fu raso al suolo, dalla delusione degli accordi di Oslo che hanno prodotto una maggiore colonizzazione del territorio palestinese… se fino al 1991, i palestinesi potevano andare a vedere il mare a Tel Aviv, oggi non possono neppure andare a Gerusalemme o al mare di Gaza.
Non c’è speranza? Non ci sono possibilità di uscire da questa ingiustizia? In realtà sarebbe semplice, basterebbe coerenza tra le dichiarazioni e i fatti, basterebbe cominciare a dire ad Israele: fermati!
Non lasciare Israele impunito ma far pagare il prezzo delle violazioni della legalità internazionale adottando, come si fece per il Sudafrica, una politica di sanzioni.
E noi, società civile, dovremmo mobilitarci, agire sui nostri governi, dare voce a quei palestinesi ed israeliani che insieme dicono che l’occupazione militare uccide tutte e tutti e che credono che la democrazia, la dignità, la libertà sia per tutti e tutte.
Luisa Morgantini, già vice presidente del Parlamento europeo (www.assopacepalestina.org)
fonte: http://www.adista.it/articolo/55604