Alcuni degli attacchi più fulminanti al sionismo sono venuti da ebrei che tuttavia mantennero una prospettiva sionista.
Fonte : English Version
Steve France – 13 dicembre 2020
Immagine di copertina: Martin Buber nella sua casa di Gerusalemme (immagine della Fondazione Letteraria Martin Buber)
Il nuovo libro di Daphna Levit, “Wrestling with Sionism: Jewish Voices of Dissent” (Lotta Contro il Sionismo: Voci Ebraiche Di Dissenso), offre una breve introduzione a 20 dei principali critici ebrei del sionismo politico sin dal suo inizio negli anni 1890. Il libro è un tesoro di taglienti espressioni antisioniste. A un livello più profondo, la presentazione di questi dissidenti come un insieme mostra quanto sia stato difficile, anche per individui così indipendenti, sfuggire completamente all’attrazione gravitazionale del sionismo. Ancora più in profondità, il libro mostra che, dopo più di un secolo, il sionismo non può essere salvato, l’idea di uno Stato ebraico deve essere abbandonata.
Alcuni degli attacchi più fulminanti al sionismo, infatti, sono venuti da ebrei che tuttavia mantennero una prospettiva sionista. Levit prende astutamente nota dei momenti di indecisione dei suoi soggetti, mostrandoci, ad esempio, che Martin Buber, un imponente filosofo esistenzialista e teologo, e Ahad Ha’am, che ha fortemente denunciato l’iniziale trattamento sionista degli arabi nativi, sono entrambi rimasti profondamente attratti dall’idea che il popolo ebraico si riunisca in Palestina. Anche i tradizionalisti ortodossi, che inizialmente avevano tutti un profondo e viscerale disgusto per l’idea di formare uno Stato ebraico in Palestina, quasi tutti alla fine hanno abbracciato una versione del sionismo, o almeno sono arrivati ad accettare favorevolmente l’ospitalità dello stato. (Levit non si concentra sulle “lotte” ortodosse contro il sionismo. Per quella storia, le migliori fonti probabilmente sono i libri dello storico dell’Università di Montreal Yakov Rabkin, che a sua volta è un ebreo ortodosso veramente antisionista.)
Daphna Levit è cresciuta in Israele negli anni ’50 e ’60, credendo in una ormai vana “speranza politica laica sionista”. Nel 2001, mentre la stretta contro la Seconda Intifada raggiungeva l’apice, ha lasciato Israele e ha trovato rifugio in Nuova Scozia, dove insegna e scrive. I pensatori che descrive spaziano da figure dell’importanza di Buber, Albert Einstein e Hannah Arendt, attraverso peculiari studiosi contemporanei, giornalisti, attivisti e avvocati. Tutti loro una volta credevano in un sionismo pieno di speranza; tutti resistettero alla sua oscurità; non tutti riuscirono a rinunciarvi completamente.
Nei suoi primi anni, quando il sionismo era in gran parte solo un’idea, attirava molti aspiranti intellettuali, nessuno più aspirante di Buber. Incrociando il razionalismo romantico della filosofia tedesca con la passione spirituale dell’assidismo, è andato ben oltre il semplice nazionalismo, la cui versione sionista condannò come ebrei solo chi cercò di “unirsi al branco dei lupi”. In quel modo c’era un terribile destino, ha avvertito. Se gli ebrei avessero perso l’opportunità di fare di Sion un nuovo santuario delle nazioni, una “grande edificazione della pace”, e invece avessero cercato semplicemente di avere una terra come gli altri avevano una terra, predisse che: “la terra sarebbe sprofondata sotto di loro”. Buber parlò con forza e coraggio della necessità di rispettare e vivere in pace con gli arabi. Tuttavia, come Levit nota in modo significativo, scrisse a Gandhi nel 1939, sulla scia infuocata della “Rivolta Araba” scatenata dai Britannici-Sionisti, che gli ebrei sionisti in Palestina non avevano mai smesso di “lottare per la realizzazione di una vera pace tra arabi ed ebrei”.
Una generazione prima di Buber, Ahad Ha’am abbandonò la sua educazione hassidica a Kiev per stabilirsi in Palestina. Anche lui voleva aiutare gli ebrei a preservare e a costruire sulle loro tradizioni morali e spirituali, scrive Levit, sebbene agisse da una prospettiva laica e umanista. Il padre del “sionismo culturale”, è menzionato più spesso oggi come l’uomo che riconobbe gli arabi nativi quando visitò gli insediamenti proto-sionisti in Palestina nel 1891, cinque anni prima che Herzl desse vita al sionismo politico nel suo libro “Lo Stato Ebraico”. Ah’am disse allora ai suoi lettori che la Palestina non era disabitata; il suo popolo non era selvaggio; e che i coloni ebrei li trattavano in modo crudele e ostile. L’inaccettabilità di tanta crudeltà e violenza era un tema costante. Eppure, non avrebbe mai potuto rinunciare alla sua convinzione che il progetto sionista fosse la grande opportunità per gli ebrei di sfuggire all’assimilazione e vivere il loro destino.
Le lotte di Albert Einstein contro il sionismo erano più marginali rispetto al lavoro della sua vita. Levit ci mostra che amava la natura etica e intellettuale della sua eredità ebraica e avvertiva che era pericoloso e antitetico per gli ebrei sviluppare un “nazionalismo intrinseco”. Nondimeno, apprendiamo che nel 1947 la sua determinazione vacillò quando scrisse al primo ministro indiano, Jawaharlal Nehru, chiedendogli di sostenere la creazione di uno stato ebraico al momento della risoluzione sulla divisione delle Nazioni Unite. Nel 1948 tornò a criticare ferocemente il sionismo, unendosi a una lettera che paragonava lo stratega del terrorismo israeliano Menachem Begin (un futuro primo ministro israeliano) a un nazista. Levit osserva malinconicamente che il mito secondo cui Einstein sosteneva completamente Israele è nato “il giorno dopo la sua morte nel suo necrologio sul New York Times”.
Un aspetto affascinante del libro di Levit è come mette in luce le profonde ambiguità all’interno dello stesso sionismo. Nella sua descrizione del fondatore del sionismo, l’irrequieto e frustrato Theodor Herzl, vediamo che le linee di frattura risalgono alla sua ambiguità irrisolta nei confronti degli ebrei e dell’ebraicità. Nel secolo precedente tale ambiguità aveva afflitto molti ebrei europei di rara “emancipazione” e integrazione, incentivando l’orrenda ascesa di un moderno antisemitismo razziale. Per Herzl, l’ambiguità è diventata il terreno fertile della fantasia utopica che ha creato in “Lo Stato Ebraico” e nel suo romanzo “L’Antica-Nuova Terra” per risolvere magicamente la “questione ebraica”. Un assimilazionista convinto con poca predisposizione al giudaismo o alla tradizione ebraica, aveva improvvisamente sentito il peso e la minaccia del nuovo antisemitismo e aveva iniziato a predicare il sionismo politico, che si fondava su una convinzione diffusa nella centralità dei destini nazionali e sulla vasta superiorità della civiltà occidentale. Immediatamente, la sua idea divenne un movimento, ospitando uno storico Congresso Sionista Mondiale l’anno successivo, nel 1897. Sette anni dopo, Herzl morì all’età di 44 anni, ma il movimento divenne una politica britannica (1917), una Nakba senza fine (1948), “la bella piccola Israele” (1949-1967), una perenne crisi globale e un’ossessione americana.
I restanti critici elencati da Levit si scontrarono tutti con la realtà del sionismo del loro tempo. Come i precedenti dissidenti, anche alcuni di loro nell’insieme vi hanno contribuito con le proprie ambiguità. Due pensatori politici, tuttavia, Hannah Arendt, e una generazione dopo, Tikva Honig-Parnass, non hanno dato tregua al sionismo.
Hannah Arendt, che morì nel 1975, fornisce l’analisi più profonda dell’incoerenza del sionismo e la conseguente certezza della sua eventuale implosione. E così, ovviamente, era, e rimane, la più altamente evitata dagli israeliani.
Era interessata a comprendere i fatti della storia ebraica europea in relazione ai non ebrei tra i quali vivevano, specialmente i tedeschi. Si è prestata al compito con un atteggiamento rigorosamente spassionato, sebbene sia stato il pauroso culmine dell’antisemitismo razziale nella sua nativa Germania a spingerla ad affrontare l’argomento e a indagare sulle precise cause storiche dell’odio verso gli ebrei. Non giustificando in alcun modo l’odio, Hannah Arendt notò la rilevanza degli ebrei che spesso si segregano moralmente, culturalmente e linguisticamente, dice Levit, “al fine di preservare la propria identità, non condizionata da influenze esterne”. Più precisamente, secondo Levit, Hannah Arendt riconobbe la “tradizione ebraica di un antagonismo spesso violento con cristiani e gentili”.
Niente di tutto questo piacque ai sionisti, ma furono gli articoli di Arendt sul New Yorker sul processo di Israele a Gerusalemme del pianificatore dell’Olocausto nazista Adolph Eichmann nel 1961 che portò a quella che Levit chiama la “scomunica virtuale in Israele” di Hannah Arendt. I suoi resoconti, e il libro che ne è nato, hanno criticato gli aspetti propagandistici nella conduzione del “processo farsa” ed analizzato la cooperazione immorale di alcuni leader ebrei con i nazisti nell’attuazione della “soluzione finale”.
La blasfemia della Arendt contro i sacrosanti principi del sionismo è illustrata dal racconto del suo litigio con il suo vecchio amico Gershom Scholem, un eminente studioso israeliano di misticismo ebraico. Questi la accusò pubblicamente di non amare il popolo ebraico. La nota risposta fu: “Hai perfettamente ragione, non sono mossa da nessun ‘amore’ di questo tipo. Non ho mai “amato” in vita mia nessun popolo o società, né il popolo tedesco, né i francesi, né gli americani, né la classe operaia o qualcosa di simile. Amo davvero “solo” i miei amici e l’unico tipo di amore che conosco e in cui credo è l’amore per le persone. Non amo gli ebrei, né credo in loro: semplicemente appartengo a loro come una cosa scontata, al di là di ogni controversia o discussione.”
Quando l’icona sionista Golda Meir disse ad Arendt che non credeva in Dio ma nel popolo ebraico, Arendt, un’atea, sottolineò duramente che la grandezza del popolo ebraico proveniva dall’essere un popolo che credeva in Dio. Il suo libro seminale del 1963, “Eichmann a Gerusalemme: La banalità del male”, non è stato tradotto in ebraico per 36 anni.
Tikva Honig-Parnass è nata durante il Mandato Palestine Britannico. Lei, come Arendt, ha insistito categoricamente nel considerare il popolo ebraico non più importante degli altri, in particolare del popolo Palestinese. A differenza di Arendt, tuttavia, lei, appartenente alla generazione del ’48, afferma che era stato condotto un “lavaggio del cervello” per portare a termine la “distruzione colonialista, nazionalista, tribale, ipocrita” degli abitanti nativi, ignari di qualsiasi nozione di diritto umano. Il giorno dopo in cui le Nazioni Unite approvarono un piano per dividere la Palestina del mandato britannico, nel 1947, Honig-Parnass abbandonò l’università per unirsi alla guerra contro i palestinesi, prestando servizio in un’unità di Palmach che ripulì etnicamente diversi villaggi.
Dopo la guerra, divenne socialista e iniziò ad allontanarsi costantemente dal sionismo, che arrivò a definire una “versione nazionalista del socialismo”. Nel 1960, era un’antisionista e co-fondò il piccolo, ma molto attivo, partito antisionista Matzpen. Il suo capolavoro, “Falsi Profeti di Pace”, del 2011, espone con perizia l’inconsistenza del sionismo liberale. Ma il suo lavoro più sorprendente e sovversivo è forse “Riflessioni di Una Figlia della Generazione del ’48” del 1998. In esso ha analizzato “l’estrema disumanizzazione” della sua mente sottoposta al lavaggio del cervello durante la Nakba. L’articolo cita una lettera agghiacciante che scrisse a sua madre nell’ottobre 1948. La lettera pone il problema riscontrato negli ebrei “che non sanno di essere colonizzatori”. La giovane purificatrice etnica racconta alla madre di due veterani americani della seconda guerra mondiale nella sua unità: “Quando videro tutte le donne e i bambini arabi tornare ai loro villaggi affamati di pane, si rabbonirono ed ebbero pietà di loro, e la sera cominciarono a gridare che se questo nuovo stato non poteva prendersi cura dei suoi abitanti arabi, allora non aveva il diritto di esistere. La sua America, con i suoi sionisti idealisti, a volte è irritante. Tutto il loro approccio filantropico alla vita e al mondo si esprime anche nel loro atteggiamento nei confronti del sionismo”. In altre parole, non hanno capito che la pulizia etnica era il fine ultimo.
Aggiornando la “cronologia del suo elenco”, Levit profila, tra gli altri, lo storico Ilan Pappe e l’editorialista di Ha’aretz Gideon Levy, entrambi i quali sostengono che l’unica via d’uscita dalla catastrofe umanitaria del sionismo è abbracciare la democrazia liberale così come esiste nella maggior parte dei paesi sviluppati del mondo. In Palestina-Israele questa soluzione si chiama Stato Democratico Unico, e significa che ebrei e palestinesi debbano vivere insieme come pari.
Levit avrebbe potuto includere molti più dissidenti nel suo libro, compresi molti giovani brillanti esponenti. In effetti, il dissenso ebraico è più forte che mai.
Tra i nuovi arrivati spicca Peter Beinart, anche se fino a quest’estate era un virtuoso dell’ambiguità liberale sionista. Beinart riprende la devozione di alcuni dei principali critici alle tradizioni ebraiche e le aspirazioni profondamente positive per la comunità ebraica. Inoltre, ha stabilito una semplice regola per tenere sotto controllo l’attrattiva del sionismo: si rifiuta di partecipare a qualsiasi dibattito pubblico su Israele se non c’è almeno un palestinese coinvolto. Questa regola affronta il peccato originale e assillante del sionismo, che è pensare o agire come se lo Stato di Israele potesse mai moralmente esistere, o essere legittimamente immaginato, senza il coinvolgimento volontario dei palestinesi. Se solo i primi critici fossero stati così saggi.
Oggi l’idea stessa di un sionismo umano e pieno di speranza è sorpassata. Ma l’ultima frase di Levit indica la via da seguire, consigliando a “ogni sionista” di leggere Mahmoud Darwish e Edward Said, due palestinesi che le hanno aperto gli occhi. Il loro indomabile umanesimo può riempire il vuoto lasciato dal fallimento del sogno di Herzl, e aiutare entrambi i popoli a muoversi verso una visione più nobile.
Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org