La visione dell’ebraicità di Burg è più vicina a quella della maggior parte degli ebrei della diaspora, per i quali si tratta di un’identità religiosa separata dall’identità nazionale. Pochissimi ebrei di questo tipo, vedono la loro identità come legata ad Israele. La diaspora lascia spazio anche a un’identità ebraica laica che non contiene alcun elemento di religiosità, una caratteristica sempre più rara nell’odierno Israele.
Fonte:English Version
Richard Silverstein – 2 gennaio 2021
Non è un mistero che negli ultimi quattro anni sotto la presidenza Trump il suprematismo razziale è dilagato. Mentre in passato gli americani potevano sostenere che questa ideologia razzista esisteva solo ai margini della società, Trump ha dimostrato, usando le parole del vecchio serial radiofonico The Shadow, narrato da Orson Welles, “quale male si annida nel cuore degli uomini”, fin troppi uomini.
Decenni fa, prima della guerra del 1967, anche la supremazia giudaica si annidava ai margini della politica israeliana. Sebbene sia stata inculcata sin dalla fondazione del movimento sionista, fu solo dopo la vittoria israeliana in quella guerra che il paese è diventato del tutto uno stato etno-giudaico intriso di impulsi religioso-messianici.
Anche se c’è sempre stata una sinistra israeliana laica che si è opposta a tale razzismo, dopo la vittoria elettorale del Likud nel 1977, la sinistra si è gradualmente smarrita. Ora è praticamente scomparsa. L’unica eccezione è la Lista Congiunta, una fazione politica palestinese in gran parte israeliana (con un partito nella coalizione che include ebrei israeliani).
Avrum Burg è stato uno di quelli che furono l’avanguardia intellettuale di tale resistenza israeliana. Ebreo ortodosso, il cui padre ha guidato per decenni il partito religioso nazionale e ha prestato servizio in numerosi governi a guida Laburista, il giovane Burg era un tempo un alto dirigente del Partito Laburista, presidente della Knesset e capo dell’Agenzia Ebraica. Familiari stretti di Burg furono assassinati dai palestinesi durante le rivolte di Hebron del 1929.
Ma a differenza di altri della sinistra sionista, la politica di Burg si è adattata alle mutevoli circostanze e alla crescente radicalizzazione della società israeliana. Nel corso dei decenni, i suoi saggi hanno indicato la strada per un’analisi convincente e coraggiosa di ciò che è sbagliato nella nazione. Mentre i sionisti liberali sono costantemente vincolati dalla loro nostalgia per un’epoca remota (se mai è esistita) di moralità e tolleranza israeliana, Burg ha poco a che fare con questi diversivi.
In questo saggio del 2012, parlava della sua visione di un futuro Israele ammettendo che l’unico modo per rendersene conto sarebbe stato attraverso il boicottaggio e, un giorno, una soluzione a uno stato:
“Un ipotetico conflitto potrebbe anche presentare una soluzione simbolica. Come in Irlanda del Nord o in Sudafrica, dove i cittadini hanno smesso di uccidersi a vicenda, alla fine diventerà chiaro che molti israeliani non sono disposti a vivere in una democrazia etnica, non sono disposti a rinunciare alla possibilità di vivere in pace, non sono disposti ad essere patrioti passivi di un paese che espelle o epura le sue minoranze, che sono gli abitanti originari della terra.
Solo quel giorno, dopo tante angosce, boicottaggi e forse anche spargimenti di sangue, capiremo che l’unico modo per noi di essere d’accordo è una reale e solida democrazia. Una democrazia basata su una costituzione civile progressista; una democrazia che imponga la distinzione tra etnia e cittadinanza, tra sinagoga e stato; una democrazia che sostiene i valori di libertà e uguaglianza, sulla base della quale ogni singola persona che vive sotto la sovranità legittima e internazionalmente riconosciuta di Israele riceverà gli stessi diritti e tutele”.
Dal 2012 ha abbandonato l’idea di una soluzione a due stati in quanto non più praticabile e sostiene una soluzione a uno stato. A causa delle sue visioni “radicali”, si confina nel deserto, scrivendo libri forse più letti nella diaspora che nello stesso Israele. Sebbene non sia un senza patria, è un uomo che vive in un paese violentemente in contrasto con i suoi principi più profondi.
Se nessuno gli lancia pietre o dipinge epiteti sulla sua porta di casa è perché credono che non rappresenti più un pericolo per gli intenti nazionalisti di estrema destra. Ma le idee di Burg offrono un chiaro richiamo a una visione progressista di sinistra di ciò che Israele deve diventare.
Recentemente, ha lanciato una sfida alla legge razzista sullo Stato nazionale di Israele, che dichiara Israele un paese solo per ebrei. Sebbene definire Israele esclusivamente come uno Stato ebraico possa sembrare un’affermazione innocua per alcuni, è intrisa di supremazia giudaica. La legge chiarisce che i non ebrei possono aspettarsi poco o nulla dallo stato. Non è stato fatto per loro e si rifiuta di offrire loro la piena uguaglianza. Ha anche abolito qualsiasi normativa che suggerisse che i palestinesi potevano godere della parità con i cittadini ebrei.
L’attacco di Burg alla Legge sfida la sua definizione di ebraicità. Ovviamente Burg è ebreo, ma definisce la sua identità ebraica senza alcuna componente nazionalista. La legge israeliana attualmente definisce gli ebrei come una categoria sia religiosa che nazionale. Ma se la Corte Suprema ridefinisce la Legge come Burg cerca di fare, consentendo una designazione che non è né ebraica né araba, ma piuttosto “israeliana”, rappresenterà una minaccia significativa sia per la legge stessa, sia per la concezione israeliana della supremazia giudaica.
Inoltre, Burg ha abbracciato idee simili a quelle che ho esposto nel mio recente saggio sulla confusione tra giudaismo e sionismo. La ragione per cui qui uso il termine supremazia “giudaica” piuttosto che supremazia “ebraica”, e che viene chiarita in quel saggio, è che rifiuto la definizione di ebraicità offerta dallo stato colonialista israeliano. Respingo l’idea che Dio nella Torah abbia concesso agli ebrei la superiorità sui non ebrei nativi. Che i nostri rabbini nel corso dei secoli abbiano immaginato un giudaismo che avalla la pulizia etnica, la profanazione dei luoghi santi non ebraici e un esercito ebraico la cui missione è quella di uccidere i non ebrei.
La visione dell’ebraicità di Burg è più vicina a quella della maggior parte degli ebrei della diaspora, per i quali si tratta di un’identità religiosa separata dall’identità nazionale. Pochissimi ebrei di questo tipo, eccetto quelli come Sheldon Adelson, vedono la loro identità come legata ad Israele. Sono americani o inglesi o francesi, quindi ebrei. La diaspora lascia spazio anche a un’identità ebraica laica che non contiene alcun elemento di religiosità, una caratteristica sempre più rara nell’odierno Israele.
Le idee di Burg colpiscono il cuore del sionismo di oggi, che sostiene che gli ebrei sono superiori ai non ebrei e che Israele deve essere un’etno-teocrazia. Ecco perché, anche se ha accettato di coprire la sua causa, il quotidiano sionista liberale Haaretz ha tradito il suo disagio per le idee radicali di Burg. Il titolo affermava falsamente che l’obiettivo di Burg era quello di ottenere il permesso statale di “dissociarsi dall’ebraismo”. Questo non è affatto il suo obiettivo. Il suo scopo è rifiutare la definizione ufficiale di ebraicità dello stato. Queste sono due cose molto diverse. Questa nozione suggerita nell’articolo è che lo stato israeliano è il legittimo detentore dell’ebraicità e che Burg ha bisogno del suo permesso per ritirarsi da tale identità. Ma non sta affatto rifiutando il giudaismo. Piuttosto sta rifiutando il diritto dello Stato di definire la sua identità religiosa.
L’articolo afferma inoltre che le idee sposate nella causa sono un “atto straordinario, che sembra lontano anni luce dalla maggior parte della ben nota attività pubblica di Burg”. Affatto. Se il giornalista avesse letto qualcuno dei suoi saggi negli ultimi vent’anni, avrebbe capito che questa causa deriva direttamente dalle idee che ha sviluppato in tutto quel tempo.
Offrire ulteriori prove della condiscendenza di Haaretz nei confronti delle opinioni di Burg è l’affermazione che ha fatto un”viaggio ai margini della sinistra”. Non è affatto vero. Forse ha fatto un viaggio ai margini (e oltre) della sinistra sionista. Ma non è tutto ciò che c’è nella politica israeliana. Infatti, nel 2015, ha annunciato di essere entrato a far parte di Hadash, l’ex Partito Comunista Israeliano, la cui composizione comprende sia ebrei che palestinesi.
Solo un giornalista pieno di privilegi sionisti liberali definirebbe la politica israeliana in un ambito così ristretto. E questa è davvero la tragedia di Israele: che la conquista di tutte le leve del potere politico e militare da parte dei giudeo-suprematisti ha spinto fuori dall’arena gli israeliani che non si conformano al consenso nazionalista. Sia i sionisti liberali che i coloni sono colpevoli di tale cancellazione.
Ecco un altro passaggio estratto dall’articolo di Haaretz, che parla di Burg come di una specie rara ed esotica a rischio di estinzione:
“Le posizioni che sposa oggi sono considerate radicali dalla maggior parte dell’opinione pubblica israeliana, compresi quelli che si definiscono di sinistra”.
Ancora una volta, questo è falso. Ciò che il giornalista intende dire è che sono “radicali” in termini del suo sionismo liberale e di quello della sinistra sionista. Ma Burg (e io) rifiutiamo le premesse della sinistra sionista. Quando penso a quest’ultimo, mi evoca il testo della canzone di Peggy Lee, “Is That All There Is? (E tutto qui?)” Chiaramente non lo è. Chiaramente, la sinistra sionista non ha il coraggio o l’ampiezza di vedute per vedere, come fa Burg, che Israele deve diventare qualcosa di più e diverso da quello che è ora. Durante l’intervista, il giornalista accusa Burg di essere caduto nella trappola tesa dai nazionalisti israeliani come Netanyahu, che dicono che la sinistra ha dimenticato cosa significa essere un ebreo”, e che Burg sta dicendo “Non voglio essere un ebreo. “Ancora una volta, questa è una distorsione delle sue opinioni. Sta dicendo che non sarà la versione Netanyahu di un ebreo. E che una tale definizione di ebraicità è un falso dogma.
Richard Silverstein è un blogger a tempo pieno che si definisce un “sionista progressista critico” che sostiene un “ritiro israeliano ai confini pre-67 e un accordo di pace garantito a livello internazionale con i palestinesi”. Ha anche creato l’ormai defunto Israel Palestine Forum, un forum progressista dedicato alla discussione del conflitto israelo-palestinese. Ha spesso intervistato su Iranian Press TV e ha contribuito con saggi ad Al Jazeera, The Huffington Post, The Guardian, Haaretz, The Jewish Daily Forward, Los Angeles Times, Tikkun, Truthout, The American Conservative, Middle East Eye e Al-Araby Al-Jadeed.
Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org
Interessantissimo. Condivido toto corde. Grazie