Sama’a è finalmente libera. Ma i palestinesi restano un popolo imprigionato. Se abbiamo a cuore questa causa, che ogni giorno ci sia una Sama’a per cui chiederne la libertà.
Domenica 3 Gennaio 2021 – Dalla Pagina Facebook di Roberto Prinzi
La liberazione qualche ore fa della nota dj palestinese Sama’a è una bella notizia: la ragazza non aveva fatto nulla d’illegale – aveva avuto l’autorizzazione per filmare il video della festa dal ministero del turismo palestinese – ed è stata arrestata arbitrariamente dalla corrotta e collaborazionista Autorità Palestinese (Ap).
Schierarsi con Sama’a è stato un dovere non solo per lei, ma per i tanti palestinesi vittime della repressione dell’Ap e che hanno chiesto a gran voce la sua liberazione. Questa è una premessa doverosa.
Così come è doveroso notare che mentre Israele incassa mediaticamente il successo della sua campagna vaccinale – finora la più riuscita al mondo per percentuale di popolazione – la dirigenza palestinese in Cisgiordania inciampa in una ennesima figura barbina che non fa altro che restituire all’estero e ai suoi nemici una pessima immagine del mondo palestinese.
Nella vicenda Sama’a c’erano tutti gli elementi per attirare le antenne e penne dei nemici dei palestinesi: la mancanza di libertà dei palestinesi (ovviamente per colpa dei palestinesi, no per Israele); il loro essere primitivi (arrestano perfino una dj, “donna libera che ha superato i tabù della sua cultura”) e in definitiva fanatici religiosi per gli attacchi che questa donna ha ricevuto. Messi insieme questi 3 elementi viene fuori il solito miscuglio di orientalismo e razzismo. Sostanzialmente ci stanno dicendo, neanche troppo velatamente, quanto i palestinesi siano arretrati.
Tuttavia, dobbiamo andare oltre a questi due punti e chiederci da cittadini del cosiddetto Occidente perché questa storia di ingiustizia ha destato improvvisamente molto interesse in tanti in una fase storica dove la Palestina non se la fila ormai nessuno. E’ un punto su cui ragionare per poter riportare al centro la causa palestinese come ci chiedono i palestinesi. Le ingiustizie in terra di Palestina infatti avvengono ogni giorno: tra omicidi israeliani, raid notturni dell’esercito, bombardamenti su Gaza (“di risposta” dice Tel Aviv).
Gli arresti dell’Ap avvengono da anni contro attivisti: la legge della Cyber Crime Law di qualche anno fa ha forse solo peggiorato un quadro già mortificante. Donne valorose combattono per la difesa della loro terra ogni giorno: hanno età diverse, resistono chi più o chi meno con i mezzi a loro disposizione, hanno capelli sciolti o velati. Eppure la loro resistenza non attira i palati dei nostri giornalisti e, ahimé, di molti attivisti. Soprattutto se sono velate o portano con loro una certa o presunta vicinanza religiosa: Dio ce ne scampi!
Due anni fa Israele arrestò un gruppo di musicisti perché “vicini ad Hamas” e perché “rei” di aver intonato “canzoni di resistenza”. Nessuno da noi parlò di “Free Palestinian musicians!”. Né Repubblica dedicò un articolo come invece fa ora. Combinazione? No.
Sama’a piace subito e attira l’attenzione perché è come “noi”. Il video che stava realizzando e per cui è stata arrestata è emblematico: era diretto ad una rete che avrebbe dovuto dare un’immagine della Palestina all’estero simile alla nostra così da vendere meglio nel nostro mondo civilizzato: donne “libere” che suonano musica (ovviamente non prettamente palestinese… quella sai che palle..), ovviamente senza veli, ragazzi vestiti come noi occidentali che bevono alcol. Una immagine che racconta una piccola porzione di quella terra, direbbero molti palestinesi insignificante perché nettamente minoritaria e non “asli”, originale.
Eppure si sceglie di vendere quella. Scegliere poi quel sito religioso-turistico in cui filmare resta una scelta poco felice, ma forse rientra in quell’idea di laicismo (leggi anti-Islam) che conquista tutti, anche a sinistra. E’ l’immagine che vogliamo noi di quei “territori lontani”, così da portarli più vicini alle nostre chiavi interpretative. E’ il Vicino Oriente che si può vendere, quello che possiamo cogliere perché è stato tradotto nella nostra lingua dei segni e suoni. Perfino nella nostra presunta a-religiosità.
La storia di Sama’a ci mostra con tutta evidenza i limiti dell’occidentalizzazione della causa palestinese che da anni denunciano i palestinesi.
Una trasformazione che è anche nel linguaggio, nella scelta dei termini e finanche nella modalità delle azioni di resistenza che vogliamo loro imporre. Vogliono la nostra solidarietà? Bene: ci ascoltino alla lettera. Perfino nella forma di lotta da scagliare contro la forza occupante che deve essere “non violenta”. In questi diktat, velati o meno, c’è una forma di colonialismo mascherato da amicizia e solidarietà in cui molti attivisti ancora incorrono qui da noi.
Sama’a è finalmente libera. Ma i palestinesi restano un popolo imprigionato. Se abbiamo a cuore questa causa, che ogni giorno ci sia una Sama’a per cui chiederne la libertà. Se abbiamo a cuore la musica, che si difendi anche il suono dell’Oud e non solo la musica che possiamo ritrovare a Milano, Londra e New York. E’ una prerogativa importante soprattutto quando Israele prova a rivendicare come “suoi” molti elementi del ricco patrimonio arabo-palestinese. Che si difendi l’intero turath (patrimonio) palestinese. E si parta dai tanti attivisti che difendono la loro terra e che sono vittime di occupazione israeliana, delle complicità occidentali, di Autorità palestinese e anche di Hamas. Si parli con la stessa forza delle donne con i veli che non sono Sama’a, ma che anche loro contribuiscono davvero alla resistenza e alla permanenza di quel popolo sulla loro terra.
Se l’inerzia della politica è tutta da parte israeliana, la lotta per la Palestina è sempre più una battaglia culturale: rivendicare il made in Palestine è tra le più nobili campagne pro-Palestina che tutti noi possiamo portare avanti. Soprattutto quando i suoi detrattori li riproducono come “primitivi” come anche la vicenda di Sama’a ci ha in qualche modo dimostrato.