È difficile ascoltare lo Stato che ha la responsabilità per il destino dei bambini a Deheisheh, per il loro essere rifugiati e per la loro incarcerazione, lamentarsi solo del proprio destino. I bambini di Deheisheh possono solo sognare di vivere in un lockdown israeliano.
Fonte: English Version
Gideon Levy – 13 febbraio 2021
Immagine di copertina: lingresso del campo di Deheisheh , vicino Betlemme 2019.Credit: Reem Jarrar
Un nuovo allarme si sta diffondendo nel paese, quello per i bambini in lockdown, espresso ad alta voce dai genitori. Ravit Hecht ne scrive con moderazione su questa pagina, il giorno dopo in cui Uri Misgav (che scrive in ebraico) ha leggermente esagerato. Ciascuno funge da portavoce per molti genitori, esprimendo un disagio che non dovrebbe essere preso alla leggera, soprattutto non da persone che non hanno figli a casa. Yaacov Hecht ha detto: “Questa mancanza ci accompagnerà per gli anni a venire, come i bambini e i loro genitori furono abbandonati durante la pandemia”.
Il Consiglio Regionale di Misgav si è spinto drammaticamente oltre, sostenendo che non solo lo Stato li ha abbandonati, ma il governo li sta anche angosciando. “Dopo le vittime, le persone attaccate ai respiratori e quelli che sono andati in bancarotta, i bambini e i loro genitori sono le vere vittime della disfatta sociale da coronavirus in Israele”. Non è abbastanza secondo voi? Abbondiamo, con il permesso del Primo Ministro, naturalmente: “Sono la vera carne da macello di Benjamin Netanyahu e del suo governo. Sono senza futuro; per loro, il lockdown è eterno.”
Mi ricorda una commediola della serie televisiva satirica Eretz Nehederet (“Un paese meraviglioso”, trasmesso il 10 luglio 2020): “Credeteci, non è facile. Siamo cinque persone rinchiuse in 7.000 metri quadrati, non c’è la facciamo più, stiamo soffocando. Non siamo tipi da quarantena. Siamo persone fatte per stare all’aria aperta.”
Gli israeliani sono davvero persone fatte per stare all’aperto, e trovano l’isolamento insopportabile, chi non lo è?, ma a differenza delle persone della maggior parte delle altre nazioni, gli israeliani dovrebbero fermarsi un attimo a pensare prima di osare lamentarsi del lockdown, dei bambini senza futuro, degli adolescenti che servono come carne da macello e di una generazione senza futuro, per cui il lockdown non finisce mai. Un po’ di commisurazione, un po’ di pudore, un po’ di rincrescimento e soprattutto un pizzico di consapevolezza non guasterebbe qui. È vero che la sofferenza è sofferenza, e la gente pensa prima di tutto a se stessa e ai propri figli, ma da una società che sta causando danni così orribili a generazioni di bambini ignorando i fatti e mantenendo il suo silenzio si può esigere un po’ di umiltà e integrità prima di indulgere nell’autocommiserazione e nel lamento.
A proposito di lamenti, forse le denunce andrebbero rivolte al sistema scolastico, proprio quando le scuole riapriranno. Che cosa insegnano, e principalmente, cosa non insegnano? C’è così tanta inconsapevolezza lì, insieme all’indottrinamento, ma ci si lamenta meno di questo. Le scuole israeliane servono principalmente come balia, assistenza all’infanzia per i genitori che lavorano.
Israele ha uno spazio, da cui il lockdown vissuto dagli israeliani assomiglia al lusso della famiglia in quella commediola satirica. Ecco perché le loro lamentele non sembrano meno ridicole di quelle della famiglia Tortelim, nella commedia. Non è che i genitori israeliani dovrebbero guardare costantemente a Deheisheh, un campo profughi palestinese vicino a Betlemme, e trarre conforto dal confronto. Ovviamente no. Non è che non possiamo lamentarci dell’impatto disastroso del lockdown sui nostri figli. Possiamo e dobbiamo lamentarci. Ma Deheisheh non è un campo profughi in Myanmar; è un campo profughi sotto il dominio israeliano, a mezz’ora di macchina dalla sua capitale e un’ora dal centro del paese, ed è stato creato da Israele.
È difficile ascoltare lo Stato che ha la responsabilità per il destino dei bambini a Deheisheh, per il loro essere rifugiati e per la loro incarcerazione, lamentarsi solo del proprio destino. I bambini di Deheisheh possono solo sognare di vivere in un lockdown israeliano. Ci sono bambini che non hanno mai visto il mare, nonostante vivano a solo un’ora di macchina, che non hanno mai visto un prato, che non sono mai stati in un altro paese e non lo faranno mai. Questi sono bambini che vedono i loro genitori e fratelli strappati dai loro letti nel cuore della notte, con alcuni di loro arrestati occasionalmente. Ci sono giovani che si laureano all’università, solo per finire come stuccatori in Israele, se sono fortunati; ragazzi che, anche quando la scuola è aperta, non hanno un posto dove andare nel pomeriggio, quando le lezioni sono finite. Questi sono i figli di Deheisheh.
Qualche settimana fa, nel pieno della pandemia, mentre mi recavo al campo profughi di al-Arroub, ho chiesto che il mio incontro si tenesse all’aperto, per non rischiare il contagio. In questo grande campo sovraffollato non c’era un solo posto all’aperto dove poterci sedere. Questa è la realtà in al-Arroub, e noi israeliani ne siamo responsabili. Quando parliamo, con la tipica esagerazione, dei nostri figli oggi che sono generazioni perdute e carne da macello, non abbiamo il diritto di dimenticare questo fatto nemmeno per un solo momento.
Gideon Levy è editorialista di Haaretz e membro del comitato editoriale del giornale. Levy è entrato in Haaretz nel 1982 e ha trascorso quattro anni come vicedirettore del giornale. Ha ricevuto il premio giornalistico Euro-Med per il 2008; il premio libertà di Lipsia nel 2001; il premio dell’Unione dei giornalisti israeliani nel 1997; e il premio dell’Associazione dei Diritti Umani in Israele per il 1996. Il suo nuovo libro, La punizione di Gaza, è stato pubblicato da Verso.
Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org