Sfidando le minacce e la violenza, la comunità queer tunisina assume un ruolo centrale nelle proteste antigovernative

“Non puoi separare l’essere un manifestante dall’essere un attivista queer. Le mie ragioni per essere lì erano tanto per ciò che accade nelle città e nei distretti emarginati, quanto per la mia identità”

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Simon Speakman Cordall – 25 febbraio 2021

Immagine di copertina: Manifestanti antigovernativi tunisini all’inizio di questo mese per le strade di Tunisi (EPA)

La Tunisia non è certo estranea alle proteste. Dalle manifestazioni di massa che nel 2011 rovesciarono l’autocrate  Zine El Abidine Ben Ali ad oggi, i disordini di massa sono diventati un appuntamento quasi annuale della vita di strada tunisina.

Quest’anno è stato leggermente diverso. Di fronte a una marea crescente di movimenti sociali che chiedono sviluppo economico, posti di lavoro e la fine della stagnazione finanziaria che ha perseguitato il paese per oltre un decennio, il governo ha annunciato un blocco strategico di quattro giorni per il coronavirus che ha coinciso, guarda caso, con il decimo anniversario della rivoluzione.

Se la strategia aveva lo scopo di calmare l’umore, ha avuto l’effetto contrario.

Sono esplose le proteste, che si sono estese dalle regioni rurali settentrionali della Siliana alle città trascurate e colpite dalla povertà dell’interno del paese e ai sobborghi emarginati delle grandi città.

Con schiacciante regolarità, i giovani disoccupati ai confini della città sono scesi  in strada impegnati  in brutali battaglie notturne contro gli schieramenti della polizia.

Inevitabilmente, le proteste si sono estese ai centri cittadini, dove diversi gruppi di giovani attivisti sono scesi in piazza per manifestare contro la violenza della polizia e l’inattività del governo di fronte alla lenta discesa del Paese verso la miseria.

Giovani in grado di ricordare a malapena i tempi prima della rivoluzione sono scesi in piazza portando bandiere con falce e martello dell’Unione Sovietica, chiedendo la legalizzazione della marijuana e, all’interno di un paese dichiaratamente conservatore, proclamando la presenza provocatoria  della minoranza queer tra i manifestanti.

Il contraccolpo contro tutti, ma soprattutto contro la comunità queer, è stato brutale.

Mentre in Tunisia l’omosessualità in sé non è illegale, la sodomia lo è. Una legge coloniale francese nel codice penale tunisino risalente al 1913 criminalizza l’atto tra adulti consenzienti. Un altro articolo, che proibisce “gli oltraggi contro la decenza pubblica”, è stato utilizzato per perseguire anche la comunità transgender tunisina.

L’applicazione di entrambi gli articoli è stata utilizzata dalle forze di polizia del paese, che hanno continuato a  usarli per perseguitare la comunità LGBTQI + tunisina, utilizzando anche test anali come prova dell’attività sessuale tra maschi. .

L’attivista queer di 26 anni Mohammad, che ha preso parte alle proteste, parla delle molestie subite dopo le manifestazioni. Riferisce di  minacce telefoniche da numeri sconosciuti che l’app True Caller ha poi ricondotto al ministro dell’Interno del Paese.

“Non puoi separare l’essere un manifestante dall’essere un attivista queer. Le mie ragioni per essere lì erano tanto per ciò che accade nelle città e nei distretti emarginati, quanto per la mia identità”, ha detto al traduttore, riferendosi alla sua sessualità non binaria.

Mohammad è cresciuto in un piccolo villaggio nella regione montuosa vicino a el Kef, al confine con l’Algeria.

“Da bambino non ero consapevole della mia sessualità. Ero in casa delle mie zie, con le quali mi vestivo, parlavo e ballavo”, ha detto. ” Iniziai  a diventare consapevole della mia diversità durante la pubertà. Sentivo di non poter essere né come gli uomini, né come le donne, quindi andavo alla moschea e pregavo”.

Andare alla moschea non significava solo cercare risposte attraverso la preghiera. Si trattava anche di trovare un posto isolato per pensare e cercare modi per non farsi notare  nel piccolo e conservatore villaggio.

“Era un posto in cui nessuno mi  guardava e potevo esercitarmi a parlare con una voce più mascolina”, ha detto Mohammad. Allo stesso modo, “Quando tornavo da scuola, allungavo il percorso, così potevo esercitarmi a camminare come un maschio, mettendo le mani in tasca per controllare i miei gesti”.

Mohammad ha tentato di uccidersi tre volte.

Tuttavia, mentre Mohammad ha voluto sottolineare che le cose sono migliorate da quando è apparso di recente in televisione per denunciare la brutalità della polizia, per altri, come l’attivista Rania Amdouni – che non era disponibile per l’intervista – le cose sono peggiorate. Dopo essersi affermata come una presenza di spicco durante le proteste di strada in Tunisia, il contraccolpo online che ha subito si è manifestato in un linciaggio elettronico.

Oltre a fare riferimento al caso di Rania, un rapporto di HRW pubblicato questa settimana ha citato l’uso delle proteste da parte della polizia come copertura per la repressione sistematica contro la comunità queer tunisina. Oltre alle minacce di stupro e di morte, gli agenti sono accusati di aver usato il doxing * verso i manifestanti queer identificati durante le proteste e di averli molestati sui social media.

La presenza della comunità queer tunisina durante questo ultimo round di manifestazioni è tanto insolita quanto  preannunciata da molto tempo. Dopo la rivoluzione sono emerse diverse associazioni LGBTQI +,  che col passare del tempo hanno assunto una voce sempre più  ferma e vocale all’interno della società tunisina, con un candidato apertamente gay in corsa per la presidenza nel 2019.

Tuttavia, con l’aumentare della fiducia dei queer, sono cresciute anche le forze del conservatorismo. In parlamento, gli autoproclamati “Democratici musulmani”, Ennahda, detengono la maggioranza. Altrove, in molti dei quartieri più poveri del Paese, i giovani parlano ancora apertamente di  andare in Siria per difendere quella che vedono come la loro fede.

Ad alimentare tutto ciò è la corrente sotterranea della povertà che, aggravata dal Coronavirus, ha portato a una pandemia di disperazione. L’anno scorso, mentre in Parlamento  le fazioni politiche litigavano, un numero record di tunisini  ha preso il mare ed è emigrato clandestinamente in Europa.

Prima della pandemia, la disoccupazione si aggirava intorno al 15%. Tuttavia, tra i giovani di età compresa tra i 15 ei 24 anni la cifra sale al 36%. Con i prezzi in aumento e il valore della valuta nazionale che si deteriora ogni anno, la povertà e la fame per molti sono ormai una realtà.

Nonostante la loro vulnerabilità alle aggressioni e alle persecuzioni ufficiali, organizzazioni come Damj, che si batte per i diritti della comunità queer tunisina, tracciano una linea diretta tra la loro causa e quelle dei sottorappresentati ed emarginati della Tunisia, compresi i giovani arrabbiati della periferia.

Per Saif Ayadi, un coordinatore di Damj, la rivoluzione appartiene a loro tanto quanto a chiunque altro. Sedendosi negli uffici di Damj, in una stradina secondaria vicino al centro della città, ha fatto riferimento a uno degli slogan della rivoluzione, “lavoro, libertà e dignità nazionale”.

Manifestanti a Tunisi (EPA)

“La questione  principale  rivendicata durante le proteste è il lavoro, spesso precluso alle persone queer; la libertà: noi come comunità dobbiamo poter esprimere noi stessi ; la dignità nazionale: dopotutto, siamo tunisini. Amiamo questo paese”, ha detto..

“L’omofobia è arrivata in Tunisia nel 1913, con i francesi”, ha spiegato il collega di Saif, Hamza Nasri Jridi, “C’è una forma di convivenza tunisina che è molto diversa da quella in Europa”, ha detto, riferendosi ai limiti delle esperienze condivise tra le minoranze sessuali tunisine e occidentali.

“Apparteniamo a una comunità queer del terzo mondo. C’è una divisione tra il nord e il sud del mondo. Ecco perché i nostri problemi sono più simili a quelli del Venezuela o di Cuba”.

Almeno per ora, le proteste tunisine sembrano essere finite. Tuttavia, con la pandemia che schiaccia ulteriormente l’economia e il numero di posti di lavoro, pochi dubitano che torneranno.

Quando lo faranno, Damj e la comunità queer tunisina prenderanno ancora una volta il loro posto nei centri cittadini, davanti  agli schieramenti della polizia.

 

* Il termine doxing, o doxxing, si riferisce alla pratica di cercare e diffondere pubblicamente online informazioni personali e private (come ad es. nome e cognome, indirizzo, numero di telefono etc.) o altri dati sensibili riguardanti una persona, di solito con intento malevolo.

 

Trad: Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali”  – Invictapalestina.org