“Se solo avessi visto i corpi per strada, se solo avessi visto i corpi. Piccoli bambini senza scarpe che camminavano nel caos piangendo.”
Fonte: english version
Miko Peled – 22 febbraio 2021
Foto di copertina: Una giovane donna palestinese dipinge un murale per commemorare il primo anniversario della sanguinosa repressione di Israele contro Gaza, a Gaza City, il 29 dicembre 2009. Il testo arabo recita “Gaza”, Hatem Moussa | AP
Nel suo libro “Palestinian Women, Narrative Histories and Gendered Memory” (Donne Palestinesi, Storie Narrate e Memoria di Genere), pubblicato nel 2011 da Zed Books, la dottoressa Fatma Kassem scrive: “Le donne palestinesi che vivono in Israele sono state completamente escluse dalla realizzazione dell’identità nazionale palestinese”.
Nel tentativo di coinvolgerle, anche se per un momento, ha condotto interviste a 20 donne palestinesi che avevano vissuto gli orrori del 1948. Si trattava di donne che attualmente, o al momento delle interviste, vivevano a Lyd e Ramleh, due città palestinesi che furono occupate nel 1948 e sottoposte ad atrocità da parte delle milizie sioniste e successivamente ad orribili abusi e discriminazioni da parte del governo di Israele.
Le città di Lyd e Ramleh, che si trovavano a pochi chilometri a sud-est della città di Yaffa, erano, come Yaffa, città palestinesi a tutti gli effetti prima del 1948, ciascuna con una popolazione di circa 20.000 abitanti. Nell’estate del 1948, le due città furono sottoposte a una massiccia e violenta campagna di pulizia etnica. Le donne intervistate dalla dottoressa Kassem hanno tutte vissuto quell’orrore e ora, dopo tutti questi anni, è stato loro chiesto di raccontare le loro storie.
Certo, solo di recente sono venuto a conoscenza di questo libro, che è tratto dalle storie di queste “donne palestinesi comuni” che rappresentano quello che la dottoressa Kassem chiama l’anello più debole della popolazione. Alcune di loro erano originarie di Lyd e Ramleh, altre finirono lì come sfollate interne. Di solito iniziano le loro storie con “Vengo da qui” o “Non sono di qui”; in entrambi i casi, la frase successiva descrive come il loro mondo fu distrutto e trasformato per sempre quando “i sionisti invasero e presero il paese”.
La dottoressa Kassem scrive che raccontando le storie di queste 20 donne sopravvissute alla Nakba del 1948 cerca di far sì che coloro che sono responsabili “si assumano la responsabilità di queste atroci storie”.
La cucina e il soggiorno
La dottoressa Kassem ha dedicato il primo capitolo alle sue storie di famiglia. Scrive che molto prima che i nuovi storici israeliani iniziassero a denunciare le atrocità commesse dalle brigate sioniste nel 1948, “avevo già sentito queste storie molte volte nella nostra casa di famiglia”.
Suo padre, ha detto, era solito raccontare le storie nel soggiorno: “Il soggiorno rappresentava lo spazio comune della casa dove un gruppo molto diversificato di persone avrebbe presenziato”. Invece sua madre le raccontava le storie in cucina, “un luogo appartato con un numero molto più ristretto di frequentatori, solo familiari stretti”.
Fuggire per sopravvivere
“Siamo fuggite”, dicono una dopo l’altra, raccontando storie strazianti di fuga dalla violenza da parte dell’esercito israeliano. Una descrive il portare un bambino per chilometri a piedi per fuggire dagli aerei da guerra israeliani.
“In uno stato di guerra le persone lasciano luoghi insicuri e pericolosi nell’interesse razionale di preservare la loro sicurezza”, afferma giustamente Kassem. Tuttavia, quando le persone lo fanno, hanno il diritto di tornare alle loro case. Tuttavia il nuovo Stato di Israele non lo ha permesso. A coloro che sono fuggiti non è ancora permesso di tornare e, di fatto, i palestinesi che hanno tentato di tornare sono stati classificati come clandestini e sono stati arrestati o fucilati a vista.
Le donne hanno anche descritto molto dettagliatamente le case in cui avevano vissuto prima del 1948. Una volta che Israele ebbe preso il controllo, le loro case furono demolite o divennero proprietà di Amidar, una società immobiliare di proprietà del governo israeliano.
Nel 1948, il senso di sicurezza e protezione delle donne fu distrutto insieme a quello delle loro comunità e di fatto di tutta la Palestina. Eppure, contro ogni previsione, queste donne sono riuscite nell’eroico compito di rimanere nella loro patria natale, la Palestina. Hanno costruito case e cresciuto famiglie, anche se in condizioni estremamente dure, e lo hanno fatto in spregio ai sionisti che rivendicavano la loro terra.
Ricordando i corpi
“Se solo avessi visto i corpi per strada, se solo avessi visto i corpi. Bambini piccoli senza scarpe che camminano nel caos piangendo.” Diverse donne nel libro menzionano le “strade della morte”, strade sulle quali innumerevoli palestinesi sono morti a seguito delle espulsioni di massa.
Ricordano di aver visto i corpi di familiari e vicini, uomini e donne anziani e persino bambini. Sapevano che queste persone non potevano sopravvivere alle difficili condizioni fisiche, camminando per chilometri “nel caldo, la fame e la sete”.
Una delle donne ricorda: “Faceva così caldo, così caldo, sono morti, sono morti, i corpi sono stati lasciati sulla strada, non c’erano gocce d’acqua, né acqua”.
“Alcune delle donne che ho intervistato,” dice Kassem, in quello che deve essere un momento straziante per una madre sentire raccontare da un’altra madre, “hanno perso i loro figli sulla strada dell’espulsione: Abbiamo lasciato Isdud. Abbiamo camminato per due ore a piedi lungo la spiaggia. Quando siamo partiti, mia figlia era tra le mie braccia. Non c’erano né medici né cibo.”
“I silenzi e le espressioni facciali e il sudore che le ricopriva il viso indicano che nascondeva qualcosa”, scrive Kassem. Questa madre, comprensibilmente, non ha voluto parlare della morte della figlia di due anni. Nelle parole di un altro: “Era il digiuno, il terzo giorno del Ramadan, quando è successo e stavamo digiunando. Quando i sionisti sono entrati, non ci hanno lasciato nulla. Non pane, non acqua per i bambini, e il popolo veniva espulso sulle montagne a piedi nudi e a mani vuote, non una goccia d’acqua da bere. Ci hanno buttati fuori a mezzogiorno. Era di pomeriggio quindi faceva molto caldo.”
La Moschea Dahmash
Da un punto di vista personale, la storia del massacro alla Moschea Dahmash a Lyd è stata la prima storia che abbia mai sentito delle atrocità sioniste del 1948. Ne ho sentito parlare da qualcuno che fu testimone del massacro. Il mio amico Ibrahim, un palestinese originario di Lyd, mi ha raccontato di come suo padre fosse tra un gruppo di uomini che i sionisti hanno costretto ad entrare per ripulire dopo il massacro.
Molte delle donne intervistate dalla dottoressa Kassem avevano assistito a questo orrore. Una ha raccontato: “I primi giorni quando i sionisti arrivarono, la gente si rifugiava nelle moschee, pensavano che all’interno delle moschee non li avrebbero uccisi. Ma hanno ucciso tutti quelli che erano dentro.” Un’ altra ha raccontato: “Mio padre e molti altri sono entrati nella moschea per proteggersi. Non stava combattendo. Era un uomo anziano. Mio padre e mio cugino furono spinti nella moschea e lì spararono a tutti.”
Decine di persone che cercavano rifugio nella moschea di Lyd furono massacrate dall’esercito israeliano. Furono sepolti in una fossa comune nel cimitero di Lyd. Oggi la moschea stessa è un memoriale informale per coloro che sono stati massacrati.
Il ghetto
Le città di Yaffa, Rameh e Lyd erano ora occupate dal nuovo stato di Israele. I pochi palestinesi rimasti furono rinchiusi in ghetti. Queste erano strade che l’esercito designava a questo scopo, circondate da filo spinato ed estremamente sorvegliate dai soldati israeliani.
Come spiega una delle donne, usando in modo esplicito la parola ghetto per descrivere le condizioni in quel momento, “Il ghetto è dove la città vecchia si congiunge alla grande moschea”.
Furono fornite razioni minime di cibo e acqua, ma a nessuno fu permesso di andarsene. Chiunque venisse trovato all’esterno fu giustiziato sul posto: “Se volevano seppellire una persona morta avevano bisogno di un permesso. Altrimenti la gente non osava uscire.”
“Il passato ritorna”
La realtà della violenza contro i palestinesi è una storia in corso. Mentre venivano intervistate, notando la realtà intorno a loro, le donne hanno commentato: “Quei giorni stanno tornando”. A Gaza, ad esempio, dove sono finiti molti dei parenti di queste donne, la gente non ha niente da mangiare.
“Le sofferenze più recenti dei palestinesi”, scrive Kassem, “gli orrori dei cadaveri, della fame e della sete, collegano gli eventi contemporanei ai ricordi traumatici di queste donne del 1948”.
Alla conclusione del libro, scrive Kassem, “le storie di vita personale di queste donne hanno acquisito ulteriori livelli di significato”. La loro stessa esistenza solleva seri interrogativi sui loro diritti come donne, come esseri umani, come palestinesi e come cittadine di uno stato che si è imposto su di loro e non le vuole.
Miko Peled è un autore e attivista per i diritti umani nato a Gerusalemme. È l’autore di “The General’s Son. Journey of an Israeli in Palestine” e “Injustice, the Story of the Holy Land Foundation Five”.
Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org