“La Porta Della Piazza”: Sahar Khalifeh dà voce a una generazione di donne palestinesi

La scrittrice Sahar Khalifeh documenta l’esperienza dei palestinesi sotto occupazione, concentrandosi sulla presenza delle donne nella narrazione della lotta nazionale

Fonte: english version

Fehmida Zakeer – 23 febbraio 2021

Foto di copertina: Le madri dei palestinesi arrestati fanno il gesto a V con le mani davanti a un tribunale di Gaza nel dicembre 1987, durante la Prima Intifada (AFP)

“Quali cambiamenti hai visto nella vita delle donne dall’inizio dell’Intifada?” chiede Samar, una delle protagoniste femminili di Sahar Khalifeh in una delle prime situazioni del suo romanzo, “La Porta Della Piazza”. La giovane ricercatrice sta conducendo un’indagine sulle esperienze delle donne palestinesi locali nella Prima Intifada, con frequenti scontri tra le forze israeliane e manifestanti palestinesi.

In risposta c’è il filo conduttore che attraversa il resto del libro, che mira a registrare il ruolo spesso dimenticato delle donne nella lotta palestinese: le donne hanno iniziato a lanciare pietre, salvare i giovani, nascondere i militanti e sono fuori per le strade a protestare, ma sono ancora afflitte dalle loro precedenti preoccupazioni, e quelle nuove sono innumerevoli.

Pubblicato in arabo con il titolo di “Bab al-Saha” (Porta Della Salute) nel 1990, al culmine della Prima Intifada, La Porta Della Piazza è l’ultimo dei libri dell’autrice palestinese ad essere pubblicato in inglese e da allora è stato inserito tra “Migliori 105” del ventesimo secolo dall’Unione degli Scrittori Arabi e nella lista dei “Migliori 100 romanzi” della rivista Banipal.

Palestinian novelist and chair of the judging committee Sahar Khalifeh poses for a photo with the winning book of the 2017 International Prize for Arabic Fiction by Saudi Arabian writer Mohammed Hasan Alwan in 2017 (AFP)
Foto: La scrittrice palestinese e presidente della commissione giudicatrice Sahar Khalifeh posa per una foto con il libro vincitore del Premio internazionale 2017 per la narrativa araba dello scrittore saudita Mohammed Hasan Alwan nel 2017 (AFP)

Ormai famosa scrittrice araba, la produzione artistica di Khalifeh include romanzi e saggi che sono stati tradotti in molte altre lingue. Anche se ci sono dovessero volere  30 anni prima che questo titolo venga pubblicato da un editore in lingua inglese, è apparso in tedesco, olandese, francese e italiano.

Molti altri romanzi di Khalifeh sono disponibili in inglese, come “The End of Spring” (Alla Fine Della Primavera – pubblicato da Interlink e tradotto da Paula Haydar), “The Inheritance” (L’Eredita’ – pubblicato dalla stampa AUC e tradotto da Aida Bamia) e “Wild Thorns” (Rovi Silvestri – pubblicato da Saqi books e tradotto da Trevor Le Gassick).

In ciascuno dei suoi 11 romanzi, Khalifeh documenta l’esperienza dei palestinesi sotto occupazione, concentrandosi sulla presenza delle donne nella narrativa della lotta nazionale, anche mentre si scontrano con le tradizionali regole patriarcali della società.

E da quando il suo primo libro, “We Are No Longer Your Slaves” (Non Siamo Vostri Schiavi), è stato pubblicato nel 1974, Khalifeh ha vinto numerosi premi arabi e internazionali, tra cui il Premio Alberto Moravia in Italia, il Premio Miguel de Cervantes in Spagna e il Premio Naguib Mahfouz in Egitto. Nel 1988 ha fondato il Women’s Affairs Centre (Centro per gli Affari Delle Donne) a Nablus, che ora ha filiali a Gaza e Amman.

Ambientato nella città natale di Khalifeh, Nablus, La Porta Della Piazza è una finestra sulla vita delle sue protagoniste, tre donne palestinesi con personalità contrastanti, durante un periodo di sconvolgimenti politici.

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Per prima, c’è l’ostetrica di mezza età Sitt Zakia, che recita costantemente preghiere e spesso invoca l’Onnipotente, usando la sua pietà come uno scudo protettivo contro la violenza che esplode intorno a lei e nella sua vita personale.

Poi abbiamo Samar, diplomata all’università, che lavora per un’associazione femminile locale. E, infine, la coraggiosa Nuzha, una donna attraente, bionda e con gli occhi azzurri, poco più che ventenne. Andando contro le tradizioni sociali della sua cultura, Nuzha vive da sola in un’antica casa a Bab al-Saha, un quartiere di Nablus.

La casa di Nuzha, con un albero di limoni nel giardino anteriore, finestre imponenti e un giardino nascosto sul retro, è un famoso bordello. Nuzha non solo ha ereditato la vergognosa reputazione di sua madre, che ha fondato il bordello, ma sopporta anche il peso delle dicerie secondo cui sua madre era stata una spia del governo israeliano prima di essere assassinata.

La gente del posto si tiene a distanza dalla casa di Nuzha, senza tentare di indagare sulla verità dietro le insinuazioni.

Ironicamente, dopo l’improvvisa imposizione di un coprifuoco nel quartiere, Samar, Sitt Zakia e suo nipote Hussam sono intrappolati da circostanze che sfuggono al loro controllo nella casa di Nuzha, dove la donna anziana inizialmente si rifiuta di entrare. La casa diventa quindi il fulcro narrativo da cui i lettori apprendono la storia di Nuzha.

Serve anche come prospettiva da cui le tre donne fanno il punto sulle attività in strada e organizzano un’ingegnosa offensiva contro la barriera costruita dai soldati israeliani per bloccare la strada.

Uno spazio vitale ristretto

Uno degli elementi costitutivi del romanzo è la disuguaglianza di genere, che Khalifeh affronta attraverso i suoi personaggi femminili. Sia Sitt Zakia che Nuzha sono costrette a sposare uomini molto più anziani, anche se alla fine riescono a fuggire ai loro matrimoni.

E nonostante la sua istruzione e la sua esperienza lavorativa, Samar non è in grado di tenere testa alla sua autoritaria famiglia. Quando Samar viene picchiata dal fratello per essere rimasta in casa di Nuzha per nove giorni durante il coprifuoco, mentre il suo fratello minore sta a guardare in silenzio, la sua frustrazione è soffocante:

Non l’occupazione, non l’esercito, non tutti i demoni sulla terra potrebbero sconfortarla in questo modo. Era sopraffatta dal desiderio di correre via il più lontano possibile, lontano dalla sua famiglia e da tutte le meschinità di questo mondo.

A differenza di Samar, Sitt Zakia è meno risentita per le disuguaglianze che le donne devono affrontare. Quando suo nipote le chiede se ha ricevuto un regalo per una bambina che ha aiutato a partorire, Sitt Zakia risponde “Una bambina! Era una bambina”, come se non servisse altra spiegazione. Invece di mettere in discussione le tradizioni, cambia argomento: “Il fardello di una figlia è finché non muori”.

Quando sua cognata vuole lasciare il marito violento e chiede il suo aiuto, Sitt Zakia le dice di “tornare a casa ed essere una moglie devota”, perché “le persone come noi, donne, ci sentiamo a nostro agio solo nelle nostre case”.

Sebbene il libro non sia un racconto autobiografico, alcuni dei personaggi e degli eventi sono ispirati dalle esperienze di vita reali dell’autrice. Khalifeh ha rivelato i dettagli sul suo precedente matrimonio in un’intervista con la Iowa Review nel 1980: “Sono stata costretta a sposarlo e per quanto piangessi, non importava. Non importava quanto fossi infelice, non importava. Ciò che contava era mantenere intatta la reputazione della famiglia”.

Il matrimonio ebbe un impatto diretto sul suo lavoro, con Khalifeh che disse che per diversi anni si sentì troppo soffocata per produrre qualcosa di creativo. Fu solo dopo l’occupazione militare del 1967 che riprese a scrivere, per presentare un quadro realistico del conflitto attraverso una prospettiva femminile. “Dato che sono una donna, ero abituata a vedere come le cose scritte sulla carta non fossero le stesse che io e altre donne abbiamo vissuto”, dice in un’intervista con The Women’s Review of Books (Rassegna Editoriale Femminile) nel 1990.

Khalifeh ruppe il suo matrimonio dopo 13 anni e tornò all’università per continuare i suoi studi. Ha poi dedicato i suoi sforzi per documentare i percorsi tortuosi che le donne sono costrette a prendere quando si propongono di realizzare i loro sogni, specialmente quando questi sogni non sono conformi alle tradizioni.

Combattendo per il paese

Nei suoi scritti, Khalifeh ha cercato di ritrarre le donne che partecipano attivamente alla propria lotta per l’esistenza piuttosto che come persone passive in lutto che celebrano il martirio dei loro uomini.

Palestinian women argue with an Israeli soldier (r) as they line up outside Ansar II prison camp in Gaza in February 1988, to visit their sons, held prisoners (AFP)
Donne palestinesi discutono con un soldato israeliano fuori da un campo di prigionia a Gaza, febbraio 1988 (AFP)

Quando si tratta della causa palestinese, tutte e tre le donne svolgono un ruolo attivo. All’inizio di La Porta Della Piazza, vediamo il mite patriottismo di Sitt Zakia mentre supera i checkpoint nascondendo la sua paura, non volendo piegarsi alle maniere aggressive dei soldati.

Scivola lungo i vicoli e le strade, prendendo le siringhe e gli aghi per curare i feriti mentre allo stesso tempo avvertiva silenziosamente i fuggitivi mascherati, che si nascondevano nell’ombra, sulla presenza dei soldati.

Anche Samar, che soccombe alle violente aggressioni del fratello, è in grado di colpire un soldato che irrompe nella casa di Sitt Zakia durante un’incursione e non si fa scrupoli a “colpirlo con la tavola di legno che ha in mano”.

Tuttavia, per Nuzha, la maggiore violenza che avviene nel suo paese è secondaria all’aggressione che subisce dalla società nel suo complesso.

Sceglie di nascondere il suo patriottismo e, anche se partecipa alle proteste, respinge il movimento di resistenza come “completamente incentrato su correre, lanciare pietre, saltare sui muri, trascinare tubi da giardino. Nient’altro che ragazzate.”

In uno dei numerosi esempi della sua finta irriverenza nei confronti della nazione, Nuzha respinge le domande di Samar sull’occupazione:

Sono stanca dell’Intifada, delle donne e delle persone in generale! Dopo quello che mi è successo, non mi importa niente di nessun altro o di quello che gli succede. Non me ne importa nulla.

Il carattere di Nuzha è così forte che il traduttore del romanzo, Sawad Hussain, afferma di aver trovato i suoi dialoghi difficilissimi da tradurre. “Non conosco nessuno così sfacciato e avventato come Nuzha, e le piaceva anche imprecare molto”, dice Hussain.

Desiderosa di cogliere le sfumature del testo originale, Hussain lottò per assicurarsi che non stesse stereotipando il personaggio: “Non mi sono concentrato su un personaggio in nessuna delle mie traduzioni come ho fatto per Nuzha, ma la sua voce accompagnava il libro e se non fossi riuscito a coglierlo con attenzione, la traduzione non sarebbe riuscita.”

Ma ciò che distingue La Porta Della Piazza dal resto dei romanzi di Khalifeh, oltre a mostrare alcuni dei suoi scritti più forti, è la data di uscita del libro in arabo, pubblicato al culmine dell’Intifada.

All’epoca, aggiunge Hussain, Khalifeh fu criticata per aver scritto di violenza domestica perpetrata da uomini palestinesi che combattevano anche per la loro nazione, e per dare peso alla partecipazione delle donne all’Intifada.

“Possiamo cogliere dal libro che le donne non stanno solo combattendo la maggiore oppressione degli israeliani. Stanno anche combattendo contro figure patriarcali all’interno delle loro case: mariti, padri, fratelli, mentre contemporaneamente svolgono anche i loro compiti domestici: lavare, cucinare, crescere i figli, gestendo tutto”, dice Hussain.

Questo, scopriamo, è intenzionale, come scrive lei stessa in un estratto, tradotto anch’esso da Hussain, dall’autobiografia di Khalifeh, A Novel for My Story (Un Romanzo per la Mia Storia):

La lotta delle donne per la liberazione non è molto diversa da quella della nazione. Sono entrambe politiche. La strada verso la libertà è politica. E la libertà, in qualsiasi campo, per qualsiasi questione, ha il suo prezzo.

 

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org