Nonostante tutti i tentativi di Israele di dare lustro alla città e di farne un caposaldo come difensore delle libertà e come luogo in cui una persona può esercitare liberamente il proprio stile di vita, questa immagine di facciata si dissolve non appena riguarda un arabo palestinese.
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Maisaa Mansour – 21 marzo 2021
Terminata la scuola superiore, gli studenti in Palestina, dopo aver vissuto tutta la loro vita tra le mura del loro villaggio nella Galilea palestinese, nella regione del Triangolo o nella regione del Negev, partono e si dirigono verso le grandi città israeliane occupate.
Le due città più importanti in cui gli studenti si dirigono per perseguire un’istruzione superiore sono Tel Aviv e Haifa, mentre nel passato erea la città di Gerusalemme. Il cambiamento è dovuto al fatto che, tra tutte le città con popolazione palestinese e israeliana, la comunità araba che risiede all’interno dei confini di Gerusalemme ha mantenuto una forte identità nazionale e araba.
Oggi, migliaia di studenti palestinesi vivono a Tel Aviv, lavoratori e operai che occupano posizioni diverse nei campi della medicina, del mondo accademico, nonché nei ristoranti e nei bar, tra gli altri. Tel Aviv fa un ottimo lavoro nel promuovere il suo volto “tollerante” e “rispettoso delle minoranze” in base al quale si sforzerebbe di preservare i diritti di coloro che sono oppressi nelle loro stesse società, ma tale volto si sgretola completamente di fronte al giovane palestinese non appena questi arriva in città. Le discrepanze in termini di trattamento e di presenza causano un forte trauma culturale in molti palestinesi.
Sotto l’apparenza liberale e tollerante di Tel Aviv, ci sono programmi politici, sia di destra che di sinistra, implementati per sopprimere e cancellare le identità nazionali, culturali e religiose palestinesi. Essi spingono la società a spogliare indirettamente il giovane uomo o donna palestinese dei principi e degli ideali che li avevano originariamente accompagnati in città. Questi stratagemmi impongono nuove personalità ai giovani palestinesi che spesso interiorizzano interrogativi destabilizzanti su se stessi e sulla loro identità. Al contrario, può anche accadere l’opposto: il palestinese reagisce aumentando l’attaccamento ai suoi principi, radicalizzandosi nella sua opposizione agli israeliani.
Il velo a Tel Aviv
Il velo è visto come una restrizione sociale in molte aree all’interno della società palestinese. Ogni donna che lo abbandona viene condannata e bollata come peccatrice. La gente cercherà sempre di riportarla sulla “retta via” attraverso le diverse affermazioni sull’importanza del velo per le donne come indumento discreto e casto. A livello personale, a causa della mia attività sociale così come della mia attività sui social media, per molti anni ho avuto paura di togliermi l’hijab, non solo per timore della reazione di mio padre, ma anche per quella della società. Non avevo alcun controllo psicologico su di me per completare questo passaggio. Ho vissuto tutta la mia vita in una società molto chiusa e, dopo aver lasciato il villaggio, ho studiato nel Negev, nel sud, dove la maggior parte delle persone non poteva accettare la presenza di un insegnante che non porta il velo. L’ho indossato controvoglia per molti anni e l’ho tolto solo pochi mesi fa, quando a Tel Aviv ho avuto l’opportunità di sperimentare un completo allontanamento e distacco.
Tuttavia, nonostante l’alto livello di libertà che la città offre, non ho mai sentito che potesse davvero includermi, rappresentarmi o rappresentare le mie convinzioni: la consideravo solo uno spazio vuoto da mettere tra me e il mio piccolo villaggio. Al mio ritorno al villaggio, fui vittima di una feroce ostilità da parte di parenti e amici, con alcuni di loro che mi hanno addirittura escluso dalle loro vite. Tuttavia, ho finalmente sentito che potevo uscire dal contenitore vuoto che è Tel Aviv, la città che l’occupazione sta cercando di qualificare come il rifugio più sicuro per i giovani palestinesi in fuga dalle ingiustizie e dalle oppressioni dei costumi e delle tradizioni.
Al contrario, Lama (pseudonimo) dice, “La città ha esercitato su di me una grande pressione sociale. Non potevo continuare a portare il velo sotto la pressione della comunità. C’erano posti di lavoro e posizioni che non potevo ottenere a causa dell’hijab, e c’erano persino gruppi di studenti che si rifiutavano di stabilire forti legami o solide relazioni con me a causa del velo. All’inizio, quando l’ho tolto, ho pensato che mi sarebbe stato possibile mescolarmi e integrarmi in questa città, ma con il tempo ho scoperto che l’avevo tolto solo perché la città mi aveva rifiutato come musulmana palestinese.”
Siham (pseudonimo) originaria di un villaggio della regione della Galilea dice: “Ho indossato il velo in età relativamente giovane a causa delle usanze e delle tradizioni prevalenti nel villaggio. Non avevo altra scelta. Le ragazze che non indossavano il velo erano considerate irrispettose e indecenti. Al liceo affrontai mio padre, perché vedevo il velo come qualcosa che rappresentava posizioni lontane dalle mie convinzioni personali. Ma dovevo indossarlo in modo che mio padre non mi negasse il completamento degli studi e dell’istruzione.” Continua: “Quando iniziai a studiare presso l’Università di Haifa, prendevo l’autobus e quando raggiungevo la stazione centrale di Haifa toglievo il velo. Lì nessuno mi conosceva. Ho evitato tutte le piattaforme e i siti di social media in modo da poter preservare la mia presunta libertà in città. Ma per molti lunghi anni ho vissuto in una doppia identità. Non mi è stato permesso mostrare una sola me.” Parlando della reazione della famiglia quando alla fine decise di togliersi il velo, Siham dice: “Mio padre mi disse: ‘Non ti voglio più vedere fino al giorno del giudizio’. Si era nominato completamente responsabile della mia vita. Anche se oggi sono una donna adulta, istruita e finanziariamente indipendente, si rifiuta di parlarmi o addirittura di contattarmi, nonostante siano passati molti anni da quando è successo”.
Per quanto riguarda Shaza (pseudonimo), originaria dei villaggi della regione del Triangolo, dice, “Ho scelto di studiare a Tel Aviv perché è relativamente vicina al mio villaggio. Ho preferito stare vicino alla famiglia anche se non ha mai dato risposte reali alle mie domande. Ero una ragazza curiosa, che guardava sempre oltre ciò che è dato per scontato e cercava di trovare risposte logiche. Mia madre evitava sempre di rispondere alle mie domande su Dio e sulla religione. Dopo aver vissuta da sola nei dormitori degli studenti e dopo aver letto una serie di saggi di filosofia e religione, ho finalmente deciso di togliermi il velo”. Aggiunge: “Mio padre non l’ha mai accettato. Ancora oggi si rifiuta di parlarmi. Deluso, dice che “ho nascosto la testa sotto la sabbia” e insiste per rimanere legato alle usanze e alle tradizioni. La lontananza dalla mia famiglia e dalla mia comunità, nonché l’assenza di amici arabi nella mia vita, mi ha fatto intraprendere un percorso difficile. Oggi ho una relazione con un ebreo, ma sono consapevole che questa relazione è sbagliata e che con questo tradisco la mia comunità e la mia gente. Ho raggiunto questo luogo perché mi sentivo persa, oltre al rifiuto costante della società nei miei confronti”.
Continua dicendo: “Tel Aviv? Non è mai stato un luogo con un ambiente appagante o stimolante. A differenza di quello che l’occupazione vuole far credere,ovvero che è la città dei sogni, il luogo in cui possiamo fuggire dalla famiglia. Ma al contrario, ci conferma ancora una volta l’importanza di mantenere ferme le nostre convinzioni e perseguire la nostra causa. Quello che mi è successo non è stato causato dal fatto di vivere a Tel Aviv, ma dall’ingiustizia della società”.
L’omosessualità nella città del “Pinkwashing”
In quello che è diventato noto come “pinkwashing” (un termine usato per descrivere il ricorso all’utilizzo di questioni relative all’omosessualità in modo positivo al fine di distogliere l’attenzione dalle azioni negative di un’organizzazione, un paese o un governo), Israele sta cercando di fornire sostegno agli omosessuali nel paese, siano essi arabi, ebrei o persino palestinesi della Cisgiordania, attraverso l’uso di istituzioni israeliane e sioniste a Tel Aviv. Lo sta facendo anche attraverso l’International Pride March (Marcia dell’Orgoglio Internazionale) che Tel Aviv organizza ogni anno a giugno, oltre che nel presentare al mondo l’immagine fuorviante di un caloroso e ospitale rifugio per i giovani, uomini e donne, in fuga dalle loro comunità e dalla loro disapprovazione. Ma quello che succede dietro tutto ciò è una storia completamente diversa.
L’attivista Siwar (pseudonimo) originario dei villaggi della regione della Galilea, dice: “Ho lasciato il villaggio quando avevo 19 anni, ero giovane e non sapendo veramente quale fosse il mio orientamento sessuale. Ho deciso di fuggire a Tel Aviv in modo che le persone non mi infastidissero più con domande sul fatto che avessi un ragazzo o meno. Mi sono trasferito prendendo inizialmente residenza a Ramat Aviv, il luogo che si propone come il posto perfetto per tutti coloro che fuggono dalle loro comunità. Non potevo sopportare la falsità e l’ipocrisia di questo posto: ebrei di sinistra che si presentano con gentilezza, e quando scoprono dal tuo accento che sei arabo, si defilano immediatamente. Questo non mi ha infastidito, perché ho sempre fatto in modo di definire me stesso come un palestinese. Ero interessato più a come mi identificavo nazionalmente, che sessualmente.
Siwar aggiunge: ” Ho prestato servizio come volontario per molti anni presso l’Organizzazione Assiwar sostenendo le vittime di violenza a causa del loro orientamento sessuale, nonché le donne maltrattate e le vittime di violenza domestica. Ci occupavamo di casi di persone che avevano ricevuto presunta assistenza dalle istituzioni israeliane. Queste istituzioni prima fornivano sostegno a questi giovani, poi li abbandonavano ad affrontare da soli il loro destino. Uno dei casi più difficili su cui ho dovuto lavorare è stato quello di un giovane della Cisgiordania. È stato attirato da questa istituzione perché accettasse il suo sostegno dopo aver subito violenze nella sua regione. Lo portarono a Tel Aviv e gli diedero un permesso falso che non gli consentiva né di affittare una casa, né di cercarvi lavoro. Così è finito per strada, a dormire in riva al mare o agli angoli di Jaffa, scappando dalla polizia israeliana per non essere arrestato e riportato in Cisgiordania, dove sarebbe stato trattato come un agente doppiogiochista, una spia o un traditore.”
“Ho partecipato solo una volta alla cosiddetta marcia dell’orgoglio di Tel Aviv, non per fiducia in ciò che predicano e affermano di essere di fronte al mondo. Israele spende milioni di shekel in questa marcia gay. Gli annunci pubblicitari per l’evento sono distribuiti in tutte le capitali del mondo, quindi è impossibile che qualcuno non ne venga a conoscenza. La marcia coincise in quel momento con la guerra a Gaza. Io e il mio amico abbiamo distribuito volantini ai partecipanti sulle uccisioni, i bombardamenti e lo sfollamento di bambini, madri e persone della Striscia di Gaza, tutto questo in concomitanza con la pretesa di Israele di sostenere gli omosessuali a Tel Aviv. Non dimenticherò mai le espressioni sui visi delle persone quel giorno, di come i turisti siano rimasti scioccati dal fatto che questo paese, il paese della “libertà”, possa fare qualcosa del genere”, dice Siwar.
Cancellare l’identità palestinese all’Università di Tel Aviv
D’altra parte, Israele ritiene che, integrando gli studenti palestinesi nelle sue università, e in particolare a Tel Aviv, sarà in grado di cambiare l’appartenenza di questi studenti, aprendo loro la strada per integrarsi nella società israeliana. Tariq Taha, un ex membro del Jafra Student Assembly Movement (Movimento dell’Assemblea degli Studenti Jafra) presso l’Università di Tel Aviv, afferma: “Ci sono modelli sociali progressisti in questa città che creano uno stato di conflitto tra lo studente palestinese e la città. Quando uno studente palestinese arriva a Tel Aviv, la città lo attrae con le sue cosiddette presunte libertà, poi presto lo studente scopre il grande inganno, sotto il quale si nasconde il vero Israele, oppressivo, razzista, e occupante.”
Tariq aggiunge: “Quando arrivai all’Università di Tel Aviv, venni chiamato per fare una “chiacchierata” con la sicurezza. Ciò che si nascondeva sotto quella conversazione era l’israeliano Shabak (o Shin Bet, l’Agenzia per la sicurezza israeliana). Questo colloquio aveva lo scopo di spezzare la voce nazionale e patriottica che ero abituato a sollevare nel villaggio in passato. I piani dell’Università non sono riusciti e nemmeno i suoi tentativi di cancellare la nostra identità mettendoci a tacere. Mentre frequentavo l’Università di Tel Aviv, sono stato convocato due volte dal suo comitato di obbedienza. La prima volta è stata a causa della presenza di un docente egiziano all’Università la cui presenza, come Movimento Studentesco Nazionale, avevamo rifiutato considerandolo come qualcuno che sta tentando di normalizzare l’occupazione, quindi lo cacciammo dall’Università. La seconda volta, fui convocato dal comitato di obbedienza per aver distribuito volantini politici che chiedevano manifestazioni contro la guerra a Gaza”.
“L’Università di Tel Aviv afferma di essere la migliore e la più importante nel fornire spazio alla libertà religiosa e allo svolgimento delle pratiche religiose. Questa stessa Università ha chiuso la sala di preghiera degli studenti musulmani già tre volte. L’ultima volta la sala di preghiera rimase chiusa per molti mesi, e gli studenti si batterono collettivamente per il loro diritto di pregare. Diversamente, gli studenti ebrei hanno per loro una grande sinagoga all’interno dell’Università. Queste forme di discriminazione religiosa cercano sempre di derubare i palestinesi del loro nazionalismo e della loro causa”, dice Tariq.
Da parte sua, lo studente Jamal Mustafa, arrestato durante una delle manifestazioni, dice: “La polizia israeliana ha usato la mia condizione di studente minacciandomi perché abbandonassi ogni forma di attivismo politico, sostenendo che la mia attività politica avrebbe influenzato il mio status accademico nel paese, soprattutto come studente presso l’Università di Tel Aviv”. Aggiunge: “L’arresto durante la manifestazione non era diretto contro di me in particolare. Piuttosto, l’obiettivo principale era quello di intimidire gli studenti e dissuaderli da qualsiasi azione o attivismo politico. La prova di ciò è che dopo il mio arresto, isolarono gli studenti nella manifestazione.”
Nonostante tutti i tentativi di Israele di dare lustro alla città e di farne un caposaldo come difensore delle libertà e come luogo in cui una persona può esercitare liberamente il proprio stile di vita, questa immagine di facciata, tuttavia, si dissolve non appena riguarda un arabo palestinese. Tel Aviv può essere un baluardo di libertà solo per gli israeliani; potrebbe bastare, ma continua a reprimere, velatamente, ogni palestinese che cerca di alzare la voce, mentre cerca anche, con tutti suoi piani e strategie, di derubarli delle loro convinzioni e appartenenze. Nonostante ciò, la maggior parte dei giovani palestinesi, rifiuta coraggiosamente di farsi coinvolgere e prestarsi per contribuire alla falsa immagine di sé che la città sta cercando così intensamente di mostrare al mondo. Al contrario, la città e la sua ipocrisia si trasformano nella ragione che alimenta il sentimento di una maggiore appartenenza alla loro nazione.
Maisaa Mansour è una scrittrice ed esperta di letteratura araba e studi islamici
Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org