“Non ce ne andremo” dicono le donne resilienti di Sheikh Jarrah

Le donne palestinesi stanno assumendo un ruolo vitale nella lotta per difendere le loro case dalla minaccia dell’occupazione israeliana.

Fonte: english version

Aseel Jundi a Sheikh Jarrah, Palestina – 11 maggio 2021

Immagine di copertina: da sinistra a destra, Muna al-Kurd, Salwa Skafi, Nuha Attieh (MEE)

Da dietro le linee, le donne di Sheikh Jarrah stanno conducendo la propria lotta per salvare il loro quartiere dal piano di Israele di appropriarsi della terra su cui loro e le loro famiglie sono state allevate da generazioni.

” Mi incatenerò nella mia stanza se dovessero fare irruzione nella nostra casa per espellerci con la forza”, dice Muna al-Kurd, 23 anni, la cui famiglia vive sotto la minaccia di sfratto a Karm al-Jaouni a Sheikh Jarrah, nella Gerusalemme Est occupata.

“Non lascerò la mia casa di Sheikh Jarrah.”

Muna e suo padre Nabil in piedi accanto a un muro con la scritta in arabo “Non ce ne andremo” (MEE / Aseel al-Jundi)

Mentre i palestinesi vengono attaccati dalle forze israeliane e dai coloni per aver difeso il loro diritto a rimanere nelle loro case, Muna, l’unica giornalista del quartiere, raramente può essere trovata a casa.

Si è infatti resa prontamente disponibile per documentare le violazioni quotidiane da parte dei coloni israeliani e delle forze di occupazione.

Middle East Eye ha incontrato Muna vicino alla sua casa di famiglia, dove ha condiviso la sua storia su come le donne di Sheikh Jarrah trascorrono il loro tempo tra la tensione crescente, l’oppressione quotidiana e la crescente solidarietà da parte degli attivisti, mentre devono fare i conti con gli ordini di sfratto a favore dei coloni.

L’esperienza di Muna con i soprusi israeliani è iniziata nel 2001, tre anni dopo la sua nascita, quando una parte della sua casa venne chiusa e le chiavi confiscate come preludio al trasferimento della casa ai coloni.

‘Vado a dormire vestita e con l’hijab per paura di eventuali incursioni improvvise- Nuha Attieh, residente a Sheikh Jarrah

“Alcune delle prime storie che ho sentito e di cui ho raccontato erano storie di sfratti ed espulsioni che hanno minacciato alcuni residenti del quartiere, fino a quando la minaccia non ha bussato alle nostre porte”, dice Muna.

“Sono cresciuta e sono maturata con concetti come il diritto internazionale, i crimini di guerra,  con la terminologia dei crimini contro l’umanità e ad altre espressioni simili”.

I coloni vivono nella casa degli Al Kurd dal 2009.

Oggi, Muna si ritrova a ripetere queste stesse espressioni sui social media e con le testate giornalistiche, assumendosi la responsabilità conferitole come giornalista dai residenti di Sheikh Jarrah di raccogliere sostegno internazionale.

Muna sostiene da tempo Sheikh Jarrah. Due mesi fa, ha lanciato una campagna con l’hashtag #SaveSheikhJarrah per evidenziare la difficile situazione della gente del quartiere.

“Senza respiro”

A Sheikh Jarrah, le donne palestinesi stanno assumendo ruoli vitali e preminenti, riconosce Muna, partecipando alle riunioni dei residenti e al processo decisionale. Stanno anche prendendo iniziative individuali nei confronti degli attivisti, partecipando alle udienze presso i tribunali israeliani e monitorando da vicino la battaglia legale.

“Non posso citare la loro resilienza senza sottolineare come le donne del quartiere vivano sia in uno stato di incredibile paura per i loro mariti e figli sulla scia della quotidiana e brutale oppressione israeliana, sia in una profonda  ansia derivante dal timore di essere sfrattate dalle loro case da un momento all’altro”, dice.

“Ho avuto per anni un incubo ricorrente, in cui sento che qualcuno cerca di cacciarmi da casa con la forza, mentre io cerco di resistere” – Muna al-Kurd, residente a Sheikh Jarrah

“Dopo aver rotto il digiuno del Ramadan, le donne si affrettano a intrattenere gli attivisti offrendo loro tè, caffè o meloni freschi per smorzare il caldo della giornata, e poi quando gli attivisti se ne vanno corrono a sorvegliare la zona “, dice Muna con un sorriso, nascondendo con esso anni di costrizione.

La stessa impavidità Muna l’ha mostrata quando ha cercato di liberare suo fratello dalle mani delle forze speciali israeliane  mentre lo stavano picchiando duramente. Suo fratello è stato infine arrestato pochi giorni fa.

Alla domanda sulle sue paure, Muna dice che parlarne è doloroso e non poteva riassumerle in poche parole.

“Sono nata e cresciuta a Sheikh Jarrah e non riesco a immaginarmi di vivere altrove”, dice. “A volte mi addormento e all’improvviso mi sveglio senza fiato.

“Ho avuto per anni un incubo ricorrente, in cui sento che qualcuno cerca di cacciarmi di casa con la forza, eio cerco di resistere.”

Muna ribadisce che indipendentemente dal pericolo quotidiano che circonda lei e la sua famiglia da quando i coloni occupano metà della loro casa, e l’incombente minaccia di essere espulsa con la forza dalla parte rimanente, non si sentirebbe al sicuro da nessun’altra parte.

“Prima che mia nonna morisse, non avevo una stanza tutta mia e dormivo nel soggiorno vicino alla finestra, dove immaginavo una mano che mi puntava addosso una pistola e mi sparava”, ha detto. “Tuttavia, rifiuto totalmente l’espulsione forzata.”

Una storia di spostamenti

Nel 1948, il padre di Muna, Nabil al-Kurd, fu costretto dalla milizia ebraica a lasciare la sua casa ad Haifa durante la Nakba palestinese, o Catastrofe. La sua famiglia fu tra le 28 famiglie che la Giordania, in collaborazione con l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, UNRWA, decise di reinsediare a Gerusalemme nel 1956, in cambio della rinuncia ai propri diritti di rifugiati.

‘Mi sono sposato in questa casa e vorrei poter morire qui. Ogni singolo pezzo all’interno di queste mura e intorno ad esse  ha un profondo significato per me’- Salwa Skafi, residente a Sheikh Jarrah

Queste famiglie sono state selezionate e fornite di unità abitative costruite dal governo giordano, dopodiché, trascorsi tre anni,  la proprietà sarebbe divenuta automaticamente loro.

Dopo l’occupazione di Gerusalemme nel 1967, con la parte orientale della città sotto il controllo israeliano, gli abitanti del distretto di Sheikh Jarrah restarono sorpresi quando nel 1972 due comitati ebraici registrarono la loro proprietà della terra di 18 dunam presso il Land Department

Di conseguenza, dozzine di casi giudiziari sono stati sollevati nei tribunali israeliani, poiché le 28 famiglie palestinesi originarie si erano espanse e il numero di residenti che dovrebbero essere sfrattati a favore dei coloni è salito a 500, inclusi 111 bambini.

Nel 2001, con la crescita della sua famiglia, Nabil completò l’ampliamento della sua casa. Tuttavia, quattro giorni prima che la famiglia potesse trasferirsi, le autorità di occupazione israeliane ne confiscarono le chiavi.

Nel 2009, i coloni israeliani si sono trasferiti e hanno occupato la casa, trasformando la vita della famiglia in un inferno attraverso continue molestie.

Ora sulla settantina, Nabil e altre tre famiglie di Sheikh Jarrah stanno aspettando che la Corte Suprema di Israele raggiunga un verdetto riguardo il loro sfratto. La corte aveva rinviato la sua decisione la scorsa settimana a causa dell’escalation delle tensioni.

Salwa Skafi

Dalla casa della famiglia Al Kurdi alla casa della famiglia Skafi, in direzione nord, si possono vedere le  postazioni dei coloni  vicino alla casa di Umm Kamel al-Kurd, che i coloni hanno  occupato con la forza nel 2008.

Sul cancello di ferro della casa Skafi, si viene accolti  da una targa con inciso in inglese “non lasceremo mai la nostra terra”. La sessantaduenne Salwa Skafi, la  padrona di casa, vive lì dal 1976.

“Ho dato alla luce tutti i miei figli e le mie figlie qui, e anche i miei nipoti sono nati qui”, dice Salwa a MEE.

“Ogni volta che mi viene in mente che potrei essere espulsa da questa casa, sento un nodo alla gola.

“Non godiamo più di un sonno calmo e viviamo sotto un’immensa costrizione, specialmente durante i periodi di deliberazioni giudiziarie israeliane, a cui ho voluto partecipare ultimamente”.

“Ho dato alla luce tutti i miei figli e le mie figlie qui, e anche i miei nipoti sono nati qui”, dice Salwa Skafi (MEE / Aseel al-Jundi)

Salwa parla della sua grande preoccupazione per i figli e il marito malato in caso di sfratto. Ha poi ricordato il marito di Umm Kamel morto per un ictus celebrale dopo un mese dallo sfratto.

“Mi sono sposato in questa casa e vorrei poter morire qui. Ogni singolo pezzo all’interno di queste mura e intorno ad esso significa molto per me ” dice.

“A volte penso di sradicare gli alberi nel cortile di casa mia, per timore che i coloni ne godano i frutti.

“In un paio di mesi l’albero di cachi maturerà e ogni giorno mi chiedo, chi mangerà i frutti quest’anno, noi o i coloni?”

Salwa descrive uno stato generale di frustrazione che prevale tra le donne del quartiere, che devono affrontare un destino duro e un futuro vago se gli sgomberi saranno effettuati.

Nuha Attieh

Nuha Attieh, un’infermiera di 59 anni che vive a Karm al-Jaouni a Sheikh Jarrah, da quando si è sposato nel 1988, afferma che da quando nel 2008 la prima famiglia è stata sfrattata dal quartiere, non si è mai sentita al sicuro.

Questo Ramadan, le responsabilità delle donne sono state capovolte. Nuha non è più impegnata a preparare il pasto  dell’iftar per la sua famiglia. Si sente invece più responsabile nei confronti degli attivisti e si precipita in loro aiuto quando se ne presenta la necessità. Si prende cura di loro offrendo tè, caffè e biscotti per farli sentire a casa.

Nuha Attieh con in mano i biscotti che ha preparato da offrire agli attivisti (MEE / Aseel al-Jundi)

Il trauma di vedere le forze israeliane fare irruzione nella casa dei loro vicini nel cuore della notte 13 anni fa, è servito solo ad amplificare il sentimento di insicurezza di Nuha.

“Ho visto le porte dei nostri vicini, la famiglia Al-Gawi, sfondate durante una notte buia, le donne buttate fuori con i loro indumenti da notte e sfrattate con la forza dalla loro casa”, dice Nuha a MEE.

“Questa scena non mi abbandona mai. Ricordo di aver preso dei vestiti e di averli dati alle donne.

“Oggi, sulla scia della tensione in cui vive il quartiere, vado a dormire vestita e con l’hijab per paura di eventuali incursioni improvvise mentre ci confrontiamo con le bande dei coloni”.

 

Trad: Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali”