Perché i palestinesi protestano? Perché vogliamo vivere

Proprio come le proteste di Black Lives Matter non riguardavano solo un omicidio, stiamo affrontando un intero regime di oppressione.

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Mariam Barghouti – 16 maggio 2021

Immagine di copertina: Le proteste sono una totale rivendicazione della fede, non nei politici internazionali, non nei comitati negoziali, non negli osservatori umanitari e nelle ONG, ma in noi stessi”. Manifestanti palestinesi a Ramallah, 9 maggio 2021. Fotografia: Abbas Momani/AFP /Getty Images

Ho iniziato ad andare alle manifestazioni quando avevo 17 anni. All’inizio, andavo alle proteste contro l’occupazione militare israeliana. Poi abbiamo iniziato a protestare anche contro l’autoritarismo dell’Autorità Palestinese e di Hamas, e la nauseante rivalità tra le fazioni politiche palestinesi. Per i palestinesi, la protesta è diventata uno stile di vita, un modo per essere risoluti, per perseverare.

Nell’ultimo decennio, gran parte di questo fardello è stato sostenuto da singole famiglie palestinesi che hanno dovuto affrontare l’espulsione o la violenza per mano di soldati e coloni. La minaccia di sgomberi o demolizioni scatenava una protesta locale, nella speranza di prevenire questo o quel particolare oltraggio. Ma in questo momento l’attenzione del mondo è su di noi non come individui, ma come collettività, come palestinesi. Non si tratta solo di un villaggio o di una famiglia o “solo quelli in Cisgiordania” o “solo quelli a Gerusalemme”.

Ciò per cui stiamo protestando nelle strade ora non è un omicidio o un raid violento, ma un intero regime di oppressione che distrugge i nostri corpi, le nostre case, le nostre comunità, le nostre speranze, proprio come le proteste per le vite dei neri che lo scorso anno si sono diffuse negli Stati Uniti non riguardavano solo George Floyd o Breonna Taylor o qualsiasi altro omicidio.

Questo è ciò che fa il colonialismo: soffoca ogni parte della tua vita, e poi finisce per seppellirti. È un processo strategico, deliberato, ed è ostacolato o ritardato solo perché gli oppressori sono quasi sempre affrontati e sfidati da coloro che opprimono.  Chi accetta di essere incatenato solo per essere nato dove è nato?

La scorsa settimana, mi trovavo vicino all’insediamento illegale di Beit El vicino a Ramallah, in Cisgiordania, mentre l’esercito israeliano  a bordo di jeep puntava verso manifestanti, giornalisti e personale medico, sparando lacrimogeni ad alta velocità direttamente sulla folla.

Il suono di quei candelotti che a dozzine si muovevano a spirale verso di noi mi fa ancora tremare. Mi ricordavano un giorno del dicembre 2011, nel villaggio di Nabi Saleh, quando un soldato israeliano sparò da  distanza ravvicinata un candelotto di gas lacrimogeno direttamente in faccia a un palestinese di 28 anni che stava lanciando pietre, Mustafa Tamimi, morto in seguito a causa della lesione.

Ricordo il volto di Janna Tamimi, sua cugina che aveva allora sei anni, mentre urlava con la sua voce fragile: “Perché hai ucciso il mio migliore amico?” Dietro di lei c’era l’insediamento illegale di Halamish. La protesta di Mustafa era contro l’espansione degli insediamenti e l’impunità della violenza dei coloni, mentre lui e la sua comunità erano imprigionati nel villaggio, senza accesso alle sorgenti d’acqua o ai servizi pubblici.

Il fatto che queste proteste siano prive di leader è un segno di ciò che sta accadendo da decenni a tutti i palestinesi. Questo è il raggiungimento della maggiore età di una generazione nata dopo i pietosi accordi di Oslo del 1993-1995, cresciuta durante decenni che hanno visto il consolidamento e l’espansione degli insediamenti israeliani e un sempre più stretto controllo sulle vite dei palestinesi.

Ancor più di questo, è una continua crescita di resistenza, perseveranza e perdita di fede. Ma allo stesso tempo, è un completo richiamo alla fede, non nei politici internazionali, non nei comitati negoziali, non negli osservatori umanitari e nelle ONG, ma in noi stessi.

“Perché devi sempre metterti in prima linea?” mia madre mi rimproverò anni fa, gettando via i miei vestiti intrisi di “kharara”, l’ acqua puzzolente spruzzata dall’esercito israeliano.

Spesso utilizzata nelle proteste in Cisgiordania, le forze israeliane l’hanno spruzzata anche sulle strade di Sheikh Jarrah e nelle case dei palestinesi. È un tentativo di rendere le nostre vite così insopportabili da farci andare via.

Volevo dire a mia madre, se non sono io, è qualcun altro. Volevo dirle come a Gaza le proteste disarmate del 2018 sono state accolte con l’uccisione di centinaia di persone con i soldati israeliani che le hanno trasformate in un tiro al bersaglio su tutti, causando deliberatamente ferite debilitanti.

Ma entrambi sapevamo che ciò che l’aveva fatta arrabbiare così tanto era l’orribile riconoscimento che non avevamo altra scelta che protestare – che finché l’ingiustizia persiste e i nostri sogni di una realtà migliore continuano a spingerci verso il confronto essere intrisa di acqua puzzolente significava che ero almeno viva.

Proprio per questo stiamo protestando, perché vogliamo vivere

Mariam Barghouti è una scrittrice e ricercatrice palestinese

 

Trad: Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” – Invictapalestina.org