Dispositivi retorici reazionari, come l’inesistente “ideologia gender”, e narrazioni capitaliste stanno mettendo in pericolo l’identità politica di alcuni movimenti femministi ed LGBTQ+ e la loro stessa intersezionalità.
Lorenzo Poli – Invictapalestina – 13 giugno 2021
Sono tempi duri per le lotte dei movimenti femministi, LGBT e di liberazione sessuale. Si trovano a far fronte a diverse problematiche come la crescita del consenso verso movimenti ultraconservatori, attacco ai diritti civili, politici e sociali, le discriminazioni di genere nella società e nei luoghi di lavoro e l’inizio della strutturazione di lotte intersezionali che negli anni ci ha fatto capire l’importanza della trasversalità delle lotte sul piano politico.
È un periodo in cui, come afferma Nancy Fraser, è in atto una vera e propria rigenerazione dell’attuale sistema capitalistico, il quale, per creare consenso, dà un’immagine di sé sempre più modernizzata e progressista trovandosi ad organizzare certe forme di dissenso in modo illusorio e falsato che aderisce perfettamente alle forme mentis del consumismo.
I movimenti di liberazione sessuale, come i movimenti ambientalisti e antispecisti, stanno vivendo un attacco subdolo e nascosto da parte del “neoliberismo progressista” attraverso quelle operazioni di washing che strumentalizzano le loro lotte in nome del mercato, del brand, del marketing e di nuove funzioni commerciali.
Dispositivi retorici reazionari, come l’inesistente “ideologia gender”, e queste narrazioni capitaliste stanno mettendo in pericolo l’identità politica di alcuni movimenti femministi ed LGBTQ+ e la loro stessa intersezionalità. Pinkwashing e purplewashing; femonazionalismo ed omonazionalismo sono tutti costrutti politici e teorici che portano a vedere il nemico nel povero, nel debole e nell’oppresso, strumentalizzando le lotte Lgbt e femministe per secondi fini politici ed economici e non per politiche di liberazione.
Il World Pride 2017 di Madrid aveva già posto al centro del dibattito il cosiddetto “capitalismo rosa” o “gaycapitalismo”, ovvero l’incorporazione dei discorsi del movimento Lgbt e della diversità sessuale con il fine di includere queste soggettività nel capitalismo e nell’economia di mercato, in quanto potenzial* consumator* di luoghi specifici come bar, discoteche e agenzie finalizzate al solo turismo omosessuale, vendendo e commercializzando l’omosocializzazione attraverso modelli di consumo che aderiscono alla moda dominante consumistica, alla società etero-normata, alla definizione di caratteri estetici di stampo pubblicitario e a modelli sessuali socialmente accettati. Questa integrazione delle soggettività Lgbt e queer nel mantra neoliberista e consumista, sta distruggendo lo spirito delle rivolte di Stonewall che avevano una forte identità anticlassista, antifascista, antirazzista, anticolonialista e anticapitalista.
La soluzione è ritornare a politicizzare i corpi fisici, riprendere in mano la connotazione rivendicativa e “denunciare l’uso capitalista ed eteropatriarcale della nostra dissidenza e mettere in discussione un modello (…) dove il denaro e il tempo libero sono venduti come prova della nostra libertà” come recitava la piattaforma del Pride Critico Madrid 2017.
Bisogna denunciare l’aumento delle aggressioni omofobiche e transfobiche negli Stati, denunciare la violazione dei diritti umani e, allo steso tempo, denunciare come il discorso islamofobico strumentalizza la lotta delle donne e delle comunità LGBTQ+ attraverso l’omonazionalismo, che giustifica la violenza xenofoba, razzista e islamofoba.
In questo panorama è giusto non tralasciare che, in una fase geopolitica difficile segnata dalle conseguenze del cosiddetto “Accordo del Secolo”, degli “accordi di normalizzazione” e l’Operazione Guardiani delle Mura (ultima escalation militare israeliana su Gaza), la pratica del pinkwashing israeliano ha tutta la forza di consolidarsi.
La propaganda sionista dello Stato di Israele è da anni che tenta di ripulire la sua immagine pubblica dalla repressione del popolo palestinese, affermandosi ipocritamente come garante dell’uguaglianza di genere attraverso il patrocinio della sua ambasciata ai Pride nel mondo, oscurando però la condizione delle minoranze delle persone Lgbtq in Israele, il ricatto delle soggettività LGBT e queer palestinesi fermate ai checkpoint, schedate e obbligate a collaborare con l’Israeli Defence Force o con l’Israeli Occupation Force; in caso si rifiutassero verrebbero costrette forzatamente a fare outing di fronte alle loro famiglie.
Politicizzare i corpi significa sostenere Pride combattivi che riprendono lo spirito di Stonewall e le grandi rivendicazioni del femminismo intersezionale rivoluzionario denunciando la mercificazione delle lotte e la loro assimilazione capitalistica ricordando che fin quando non si abbatteranno i sistemi di repressione non saremo mai liberi.
Chiediamo ai comitati organizzatori dei GayPride d’Italia che si parli del pinkwashing israeliano per affermare che la repressione e la discriminazione delle soggettività LGBT e queer non sta solo nella violenza fisica, ma anche nella violenza propagandistica politica che porta alla manipolazione e all’esclusione.