“Il colonialismo e i progetti coloniali cercano di controllare le percezioni della realtà per indurre le popolazioni native e colonizzate in uno stato d’essere apparentemente perpetuo, o una stasi normalizzata. Immaginare un futuro oltre questo stato è quindi un atto ribelle e radicale, e non è affatto facile”.
Fonte: english version
Di Zain Assaf – 13 giugno 2021
Uno dei tanti modi in cui il colonialismo impone il potere è controllando la percezione della realtà delle persone colonizzate, costringendole a credere che l’attuale status quo sia permanente e che sia impossibile immaginare al di là di tale stato. Questo è esattamente ciò che Israele sta facendo ai palestinesi dentro e fuori la Palestina.
Israele si sforza di impedire ai palestinesi di nutrire speranza o di essere gioiosi. Sia che stia attaccando i manifestanti, come quelli che sono stati presi a granate stordenti e proiettili di gomma mentre correvano attraverso i quartieri assediati di Sheikh Jarrah e Silwan a Gerusalemme, confiscando aquiloni o bombolette spray, gli israeliani cercano costantemente di schiacciare lo spirito palestinese. I palestinesi affrontano anche tentativi di censura offline nei campus e nei luoghi di lavoro e online da Instagram e Facebook. Ma non importa quante volte Israele ci provi, la mente palestinese non può essere occupata.
I palestinesi hanno immaginato radicalmente una Palestina liberata attraverso la poesia, come quella di Harun Hashim Rashid, la narrazione, presente in Palestina +100, le conversazioni della comunità, come quelle tenute su ClubHouse, o sui social media, come visto di recente con l’hashtag di tendenza di Twitter #Tweet_Like_It’s_Free Palestine (Come Liberare la Palestina).
In un’intervista con Palestine Square, tre giovani donne palestinesi che vivono in Medio Oriente e nella diaspora nordafricana hanno condiviso le loro percezioni di una Palestina liberata.
Visioni di una Palestina libera
Amina
Amina Ali, 21 anni, si è laureata presso l’Università Americana di Beirut. Amina ha parlato con Palestina Square via Zoom, da Jadra, un villaggio costiero a soli sette minuti di auto da Saida, in Libano. Ha parlato del villaggio da cui è originaria la sua famiglia in Palestina chiamato Suhamata.
“Si trova nel distretto di Akka”, ha detto Amina, con il viso sorridente. “In realtà è a 30 minuti di auto dal confine libanese, il che è così triste. Non ci sono mai stata perché ho vissuto in Libano tutta la mia vita”.
Il villaggio di Amina, Suhamata, era uno dei tanti villaggi sottoposti a pulizia etnica durante la Nakba nel 1948.
Il muro dietro Amina era tappezzato di foto e poster da e sulla Palestina. Ha descritto quel muro come il suo santuario. Un poster era la mappa della Palestina con sopra le parole “Ritorno ad Haifa”, che facevano riferimento al famoso romanzo omonimo di Ghassan Kanafani.
Prima di rispondere alla mia chiamata, Amina stava ascoltando una canzone d’amore chiamata Le’Bnaya (la figlia) del produttore musicale palestinese Marwan Asad.
“Mi chiedo come sarebbe se i miei figli si sposassero in Palestina”, pensò. “Come sarebbe Suhmata? Sarei lì? Avrei un appartamento da qualche parte? Vivrei in città? Vivrei nel villaggio?”
Eppure, anche in questa immaginazione radicale di una Palestina liberata, Amina ha tenuto a mente le profonde questioni sociali che la comunità palestinese deve affrontare. “Voglio immaginare una Palestina che non è necessariamente libera da tutti questi problemi, ma si sta impegnando attivamente per risolverli.”
Amina ha anche parlato dell’importanza dell’immaginario collettivo palestinese, nonostante la dispersione della sua diaspora.
“Il fatto che siamo cresciuti in luoghi diversi che non sono la Palestina, anche all’interno dello stesso paese in cui siamo cresciuti in posti diversi, non significa che non possiamo immaginare qualcosa insieme”, ha detto Amina.
Amina ha fatto uno sforzo per immaginarsi nella sua patria ancestrale, ma ha comunque trovato difficile farsi un idea di ciò che potrebbe dover affrontare.
“Forse noi palestinesi non ci permettiamo di sognare molto perché abbiamo paura, siamo rimasti delusi troppe volte”.
Noura
Anche Noura Al-Shanti, 20 anni, proviene dai villaggi ormai in rovina di al-Jiyya e Beer al-Sabe’. Mentre suo padre ha trascorso la maggior parte della sua adolescenza a Gaza, lei è cresciuta al Cairo.
Sebbene abbia un documento di viaggio palestinese ed è stata in grado di visitare Gaza, non è mai stata nella sua casa ancestrale nei villaggi.
“Tutto quello che so di al-Jiyya e Beer al-Sabe è quello che ho sentito dai miei nonni, di come e quanto fosse verde, come vivevano le persone, come la vita fosse più semplice allora”, ha detto Noura. “Posso immaginare quello che dicono, mi sento come se avessi ricostruito la Palestina nella mia mente.”
Noura ha detto che i suoi nonni consideravano temporaneo il loro rifugio a Gaza e in Egitto.
“Quando mio nonno era sul letto di morte, ricordo che disse: Ho vissuto tutta la mia vita dicendo che sarebbero passati solo due mesi, tre mesi, un anno e poi il tempo è passato, e non sono mai tornato a casa”. La voce di Noura si spezzò. “È stato così straziante. Gli chiedevo, dov’è casa Jedo? Sai, dov’è casa?
La casa ancestrale di Noura ad al-Jiyya era abbastanza grande da contenere la sua numerosa famiglia.
“Immagino che avremmo sempre fatto colazione insieme. La nostra casa è vicino al mare. Avremmo sempre avuto zaatar, olive, tè con salvia sulla nostra tavola”
Lo stato di vita temporaneo è comune tra i palestinesi in esilio.
Farah
Farah Ali, 19 anni, risiede a Doha, in Qatar. Immagina che una Palestina liberata libererà i palestinesi da tutto ciò che è temporaneo.
“Immagino qualcosa di permanente”, ha detto Farah, giocherellando con la sua collana d’argento con la mappa della Palestina.
I nonni di Farah sono diventati sfollati interni in Palestina dopo la Nakba. Lottando per sopravvivere, cercarono opportunità di lavoro in Kuwait. Entrambi i suoi genitori sono nati in Kuwait, ma dopo l’invasione irachena sono stati nuovamente esiliati tra i palestinesi. Si trasferirono in Giordania, vissero brevemente negli Stati Uniti, poi tornarono nel Golfo e si stabilirono in Qatar.
Anche il muro dietro Farah era decorato con un poster con le parole “Ritorno ad Haifa”. La famiglia di Farah, tuttavia, proviene da Tulkarem, dal villaggio di Shwayka.
“Non ho mai visitato la Palestina e nemmeno i miei genitori l’hanno mai fatto.”
“So che c’erano sette famiglie che vivevano lì. E anche se mio padre non è mai stato in Palestina, mi parla sempre delle case nel villaggio e di come gli abitanti del posto dipendevano dall’olio d’oliva e dai fichi”.
Eppure, nonostante siano cresciute ascoltando tutte le storie dei nonni e dei genitori, tutte e tre, Amina Ali, Noura Al-Shanti e Farah Ali, hanno descritto le difficoltà nell’immaginare una Palestina liberata.
L’immaginazione radicale sotto il colonialismo
Yara Hawari, analista senior di Al-Shabaka, ha scritto dell’immaginazione radicale del futuro dei palestinesi contro i vincoli del colonialismo
“Il colonialismo e i progetti coloniali cercano di controllare le percezioni della realtà per indurre le popolazioni native e colonizzate in uno stato d’essere apparentemente perpetuo, o una stasi normalizzata. Immaginare un futuro oltre questo stato è quindi un atto ribelle e radicale, e non è affatto facile”.
In un’intervista a Palestine Square, Hawari ha affermato che l’immaginazione per liberare la Palestina è difficile da progettare.
“Non credo che che siano i palestinesi a mancare di quella capacità creativa, è stato progettato in modo che i palestinesi non possano nemmeno iniziare a immaginare questa possibilità.” ha detto Hawari via Zoom.
Ha detto che tali difficoltà nell’immaginare il futuro derivano da una causa più profonda.
“Per i palestinesi che non sono mai stati e non sono mai vissuti in Palestina, e per i rifugiati e quelli della diaspora, penso che possa essere incredibilmente difficile immaginare un qualcosa di liberato quando non l’hai mai visto o non ci sei stato in quel qualcosa. È molto comprensibile”, ha osservato Hawari. “Il fatto che rimangano in esilio, perdendo la connessione con la Palestina, fa parte di una politica deliberata attuata da Israele”.
Hawari ha aggiunto che l’immaginazione radicale può essere considerata una forma di resistenza.
“In sostanza, l’immaginazione radicale può essere considerata resistenza perché rifiuta la permanenza coloniale, rifiuta le nozioni coloniali del tempo e della realtà”.
Nel suo articolo su Al Shabaka*, Hawari parla anche dell’importanza dell’immaginazione dei palestinesi. Cita esempi come il gruppo Decolonizing Architecture Art Residency (Residenza d’Arte di Architettura Decolonizzante) a Betlemme. Scrive che, a causa della frammentazione della società palestinese, “la lotta non è quindi solo immaginare, ma farlo collettivamente”.
“Il collettivo è molto importante, soprattutto nel caso della Palestina”, ha aggiunto Hawari. “Incoraggio sia gli individui che l’immaginario collettivo radicale. Ma quando diventa collettivo, è allora che le cose fanno un passo avanti, quando vai al di là di una singola persona che sognava una Palestina libera. Quando viene fatto collettivamente, diventa sicuramente più determinante”.
Immaginare la speranza
Nonostante l’orribile violenza e gli attacchi che Gaza e Gerusalemme hanno dovuto e continuano ad affrontare, le rivolte e la resistenza che i palestinesi hanno mostrato, dai territori occupati del 1948, alla Cisgiordania, alla Striscia di Gaza assediata, al resto del mondo, hanno rinnovato la speranza che i palestinesi possano vedere una Palestina liberata.
I palestinesi di tutto il mondo, collettivamente, hanno cominciato a immaginare una Palestina libera nel corso della loro vita. Mentre la popolazione di Gaza e altrove celebrava il cessate il fuoco, i palestinesi immaginavano come sarebbero state le celebrazioni una volta liberata la Palestina.
I recenti atti di manifestazione e la graduale unificazione dei palestinesi nella Palestina storica e all’estero hanno progressivamente iniziato ad eliminare il controllo di Israele sulla loro percezione del tempo e della realtà. I palestinesi non sono più limitati a credere che la realtà attuale debba essere permanente. I palestinesi stanno fortemente e radicalmente immaginando un futuro prossimo di una Palestina libera, una Palestina in cui Amina, Noura e Farah potranno tornare.
Note: [*] https://www. invictapalestina.org/archives/ 38244
Zain Assaf è una studentessa palestinese all’Università Georgetown in Qatar. Attualmente sta conseguendo una laurea Scienze del Servizio Estero e specializzandosi in Cultura e Politica.
Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org