Falciare il Prato: Politica contro arte

La mostra di Jaime Scholnick, “Falciare il Prato”, cattura l’agonia di Gaza come l’ha sofferta attraverso l’Operazione Protective Edge. Modellati sulle fotografie scattate dai giornalisti nel pieno dell’assalto e composti in uno stile rigido e xilografico, i dipinti compatti di Scholnick mettono gli spettatori di fronte alla ferocia dell’assalto israeliano.

Fonte: english version

Di Max Blumenthal – 15 luglio 2021

Foto di copertina: Gaza #47 da “Gaza: Falciare il Prato”, di Jaime Scholnick (per gentile concessione dell’artista).

“I mietitori arrivavano sulle strade e nei campi, grandi cingolati che si muovevano come insetti, con l’incredibile forza degli insetti”, scrisse John Steinbeck, il grande cronista degli agricoltori itineranti durante il Dust Bowl (una serie di tempeste di sabbia che colpirono gli Stati Uniti centrali e il Canada tra il 1931 e il 1939). “Mostri dal naso schiacciato, che sollevano la polvere e vi si infilano dentro, giù per il paese, attraverso il paese, attraverso le recinzioni e i cortili, dentro e fuori dai canaloni in linea retta”, così Steinbeck descrisse le gigantesche trebbiatrici che hanno cacciato i poveri Okies (nativi dell’Oklahoma) dalla loro terra come se avesse trasformato i raccolti in paglia.

Questi passaggi del romanzo di Steinbeck, Furore, mi venivano spesso in mente quando ero corrispondente da Israele e dai Territori Occupati Palestinesi. Ovunque Israele dominava sui palestinesi, praticamente ovunque in Terra Santa dove c’erano popolazioni native da sfollare, c’erano macchine che mi ricordavano intimamente il crudele mietitore di Steinbeck. Il parallelo più ovvio è stato il bulldozer Caterpillar D-9, una macchina da 3,5 tonnellate responsabile della distruzione di decine di migliaia di case palestinesi, almeno 30.000 dall’inizio dell’occupazione nel 1967. In tutta la Terra Santa, mi sono imbattuto spesso nel D-9 che sprigionava fumo mentre attraversava campi coltivati, misere baracche e case multifamiliari palestinesi, lasciandosi dietro mucchi di cemento e armature, insieme a pezzi di vite private del focolare e della casa.

Nella Cisgiordania occupata, il D-9 è stato utilizzato per pacificare il campo profughi di Jenin durante l’ironicamente chiamata “Operazione Scudo Difensivo”, un assalto israeliano che ha ridotto in macerie centinaia di case nel 2002. Durante quell’offensiva, i militari hanno inviato Moshe Nissim, un riservista violento e disoccupato soprannominato “Kurdi Bear” al centro del campo. Al volante di un D-9, con una bottiglia di whisky in mano e la bandiera della sua squadra di calcio preferita in cima al bulldozer, Kurdi Bear ha distrutto senza remore. “Per tre giorni, ho semplicemente distrutto e devastato. L’intera area.” ha detto in un’intervista al quotidiano israeliano Yedioth Aranoth. “Provavo gioia ad ogni casa abbattuta, perché sapevo che non gli importava di morire, ma si prendevano cura delle loro case. Se buttavi giù una casa, seppellivi 40 o 50 persone per generazioni. Se mi dispiace per qualcosa, è per non aver abbattuto l’intero campo”.

“Ho avuto molte soddisfazioni a Jenin, veramente molte”, riflette Kurdi Bear. “È stato come fare in tre giorni quello che non si è fatto in 18 anni.”

Nel 2005, a seguito della spietata campagna di Israele per sopprimere la Seconda Intifada, i centri abitati della Cisgiordania caddero sotto il controllo delle forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese (AP) addestrate in Occidente. Da Ramallah, l’AP si è coordinata direttamente con l’esercito israeliano per sopprimere la resistenza, essenzialmente asservendosi al suo occupante. Ma nella Striscia di Gaza, dove Israele aveva ritirato la sua ultima colonia di insediamento, il Movimento di Resistenza di orientamento islamista noto come Hamas aveva preso il controllo dopo aver trionfato alle elezioni nazionali. L’esercito israeliano ha immediatamente istituito un cordone sanitario attorno al perimetro della Striscia, bloccando le esportazioni, soffocando l’industria della pesca di Gaza e persino escogitando complessi calcoli matematici per l’apporto calorico giornaliero a cui avrebbe diritto ogni residente. Il modello israeliano per il controllo totale era il Panopticon (il carcere perfetto) del teorico sociale della fine del diciottesimo secolo Jeremy Bentham, una prigione di massima sicurezza in cui i guardiani occupano solo il perimetro, osservando ogni mossa dei detenuti dall’esterno ed entrando all’interno solo quando assolutamente necessario, come durante un inevitabile tentativo di rivolta o di evasione. Una volta che una popolazione occupata aveva almeno il presunto diritto alla protezione ai sensi delle Convenzioni di Ginevra, gli 1,8 milioni di apolidi (senza patria) residenti a Gaza sono stati trasformati in quella che il filosofo italiano Giorgio Agamben chiamava “la nuda vita”, esistenze perennemente vissute sul baratro della morte che poteva avvenire in qualsiasi momento.

Da quando è stata messa in atto la politica d’assedio di Israele, Gaza è stata teatro di tre grandi offensive militari, ognuna più brutale dell’altra. Gli assalti hanno visto la popolazione di Gaza reimmaginata dai pianificatori militari israeliani come fili d’erba e l’esercito israeliano come un tosaerba, un’incarnazione postmoderna del mietitore di Steinbeck. “Contro un implacabile, illegittimo e ben radicato nemico, Hamas”, ha scritto Ephraim Inbar, politologo israeliano e direttore del Centro di Studi Strategici Begin-Sadat, del gruppo che governa la Striscia di Gaza, “Israele ha semplicemente bisogno di “falciare l’erba” di tanto in tanto per limitare le capacità del nemico. Una guerra di logoramento contro Hamas è probabilmente il destino a lungo termine di Israele”. Secondo Inbar, la popolazione di Gaza non poteva essere completamente sottomessa, né poteva essere sterminata o trasferita. L’unica opzione politicamente e militarmente adatta era quella di contenerla, ancora e ancora fino a quando non avesse smesso di crescere.

Il tagliaerba israeliano è una fusione di piattaforme di armi che hanno formato una singolare macchina della morte. Si va dal jet F-15 di fabbricazione statunitense che lancia una serie di potenti missili, tra cui la bomba bunker buster GBU da due tonnellate, che è stata fornita a Israele dagli Stati Uniti allo scopo di attaccare i laboratori nucleari iraniani altamente fortificati, ma che è ora utilizzato per attaccare edifici residenziali civili. C’è il carro armato israeliano Merkava e i dispositivi di artiglieria che hanno ricoperto le regioni di confine di Gaza con proiettili da 120 e 155 millimetri, trasformando interi quartieri urbani in uno sperduto scenario post-apocalittico. L’atmosfera sonora di Gaza è dominata dalla zanana, il ronzio perpetuo e fastidioso del drone Hermes 450, un suono non dissimile da quello di un tagliaerba che spesso fa presagire un attacco missilistico Hellfire. A est di Gaza c’è un cordone di navi d’attacco israeliane, la punta di diamante dell’assedio navale che ha portato l’industria della pesca un tempo produttiva della striscia in uno stato di miseria. E a ovest, installato in cima ai muri di cemento che formano il bordo esterno del Panopticon israeliano c’è il sistema “Cerca e Distruggi”: una serie di mitragliatrici telecomandate azionate da decine di chilometri di distanza da un’unità di soldati per lo più donne in una base nel deserto del Negev.

Ogni volta che uno dei soldati che utilizzano il sistema “Cerca e Distruggi” identifica qualcuno che si avvicina al muro con una “andatura” minacciosa, semplicemente si concentra sul bersaglio, preme un pulsante e guarda una piccola figura pixelata che si accartoccia a terra su un schermo bianco montato su una parete all’interno di una base militare con aria condizionata. È lo stesso per gli operatori di droni che hanno ucciso 164 bambini, di cui 18 nelle scuole, durante l’assalto israeliano a Gaza nel 2014, secondo Defense of Children International (Difesa Internazionale del Bambino). Il paesaggio di morte del ghetto di Gaza è diventato un livello in un videogioco iper-realistico per i videogiocatori dell’esercito israeliano del nuovo millennio, che li isola dal bilancio umano della violenza che commettono. Questo vuoto morale è stato coltivato da capi militari come Dan Halutz, un ex comandante dell’Aeronautica Militare Israeliana e Ministro della Difesa che ha diretto ondate di assalti aerei alle infrastrutture civili di Gaza. Come Halutz ha detto con indifferenza a un giornalista, , “Se tuttavia volete sapere cosa provo quando sgancio una bomba, ve lo dirò: sento un leggero urto sull’aereo a seguito dello sgancio della bomba. Un secondo dopo non c’è più niente, e questo è tutto. Questo è quello che sento”.

Come il mietitore della tempesta di sabbia di Steinbeck, il tagliaerba israeliano “era in qualche modo finito nelle mani dell’autista, nel suo cervello e nei suoi muscoli, gli aveva messo il paraocchi e le briglie, preso il controllo della sua mente, inibito la sua percezione, precluso il discernimento”.

Nel momento in cui scriviamo, più di due anni dopo l’Operazione Protective Edge (Margine di Protezione) di Israele, quando ha “falciato il prato” per 51 giorni nel 2014, gran parte dell’area del confine orientale di Gaza rimane in rovina. Poche delle 100.000 case parzialmente o completamente distrutte sono state ricostruite e l’economia di Gaza è al collasso. Ancora più grave, la stabilità psicologica di coloro che sono sopravvissuti all’assalto punitivo, spesso testimoni di familiari e amici fatti a pezzi o mutilati mentre cercavano di salvarsi, è stata irrevocabilmente distrutta. Almeno la metà dei bambini a Gaza soffre di disturbo da stress post-traumatico e il 70% ha riferito di incubi intensi dopo l’Operazione Protective Edge, ha concluso il Programma di Salute Mentale della Comunità di Gaza. Con la scarsità di cure psicologiche, la dipendenza dal tramadolo, il narcotico che smorza i sensi e che crea dipendenza, rimane a livelli epidemici. Un’ondata di suicidi ha travolto Gaza, affliggendo anche gli adolescenti. Tra i pochissimi ambienti strutturati per famiglie con mezzi limitati ci sono i campi estivi gestiti da Hamas, dove i bambini vengono indottrinati all’ideologia della fazione e addestrati alle tattiche militari. Le migliaia che riempiono questi campi sono i semi che Israele ha piantato e, quando diventeranno maggiorenni, diventeranno l’erba che cerca di falciare.

La mostra di Jaime Scholnick, “Falciare il Prato”, cattura l’agonia di Gaza come l’ha sofferta attraverso l’Operazione Protective Edge. Modellati sulle fotografie scattate dai giornalisti nel pieno dell’assalto e composti in uno stile rigido e xilografico (copia a stampa di un’incisione su legno), i dipinti compatti di Scholnick mettono gli spettatori di fronte alla ferocia dell’assalto israeliano. Queste immagini non richiedono abbellimenti e lei non ne ha forniti. Non si è nemmeno ritirata nell’astrazione, sottraendosi dalle scene orribili come avrebbero potuto fare molti altri artisti. Nel complesso, l’impatto emotivo dei suoi dipinti è quasi opprimente.

Il lavoro di Schnolnick è molto più di una mostra. È un avvertimento della carneficina che verrà mentre Israele accende il suo tagliaerba per un’altra sanguinosa falciatura, e un appello ai cittadini di tutto il mondo di gettarsi tra i suoi ingranaggi, le sue ruote e le lame dell’intero apparato mortale, simile a un drone, finché non si ferma.

Max Blumenthal è il redattore capo di The Grayzone, è un giornalista pluripremiato e autore di diversi libri di successo, tra cui Gomorra Repubblicana, Goliath, 50 giorni di guerra e La Gestione della Barbarie. Ha prodotto articoli di stampa per una serie di pubblicazioni, molti servizi televisivi e diversi documentari, tra cui Uccidere Gaza. Blumenthal ha fondato The Grayzone nel 2015 per analizzare sotto una luce giornalistica lo stato di guerra perpetua dell’America e le sue pericolose ripercussioni interne.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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