Il problema non è il burqa, ma le guerre (imperiali)

Il burqa è diventato così il marcatore plastico tra la nostra “modernità” (declinata tutto in positivo, ovviamente) e il loro “medioevo” , tra la nostra “civiltà”, e la loro arretratezza”.

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Roberto Prinzi – 24 agosto 2021

In Occidente c’è un chiaro metro di misura per comprendere immediatamente quanto i nostri discorsi e quelli della politica sui mondi arabi e islamici – declinati volutamente al plurale – siano tossici: la strumentalizzazione delle donne che abitano quei luoghi e le “preoccupazioni” per le loro vite che improvvisamente proviamo per loro.

Vent’anni di “Guerra al terrorismo” – ma potremmo andare anche a decenni addietro – ci hanno insegnato che più da noi si parla di “donne musulmane” o nel più orrendo “donne islamiche” durante qualche “crisi” o “emergenze”, più ci si erge improvvisamente a difesa dei loro corpi violentati da spietati leader locali (nostri amici a intermittenza), e più c’è qualcosa di disgustoso dietro che nulla a che vedere con le donne stesse che teoricamente diciamo di avere a cuore.

Ovviamente – e ci mancherebbe – il problema non è il fatto che alle donne venga data centralità nella narrazione di fatti, eventi e delle tragedie che i popoli di quelle ampie e variegate regioni del mondo vivono grazie anche agli effetti distruttivi delle nostre politiche. Per dirlo più chiaramente: il problema non è avere paure fortissime e reali per gli effetti del “ritorno” dei Talebani (a tal proposito “ritorno” presuppone un’uscita di scena.. cosa che non è mai veramente accaduta in Afghanistan a differenza delle corbellerie raccontate da Nato e governi occidentali). Ma il punto centrale non è questo, secondo me, ma è smascherare innanzitutto la moralità e le intenzioni di chi (Occidente) parla di loro e, in secondo luogo, come lo spostare il focus sui pericoli imminenti che dovranno affrontare queste donne faccia dimenticare i crimini subite dalle stesse donne quando, nella stanza dei bottoni, c’eravamo direttamente “noi” o i nostri. Sui corpi delle donne, infatti, si gioca da tempo una forma di revisionismo imperiale sintetizzabile in qualcosa del genere “quando c’eravamo noi, stavano meglio”. È quanto emerge dalle narrazioni afghane di questi giorni. Senza dimenticare che questi discorsi sono impregnati di una retorica disgustosa: vedere molti Paesi – l’Italia in testa – impartire ad altri popoli lezioni sulle donne fa piuttosto ridere vivere visto lo stato ancora di profonda discriminazione a più livelli che vivono quotidianamente le donne nella parte privilegiata nel mondo.

Nelle settimane in cui l’Occidente ri-scopre improvvisamente le donne afghane, andrebbe chiesto a intellettuali, destra, sinistra rosé e finanche alcuni attivisti dove sono stati nel corso di 20 anni di occupazione occidentale in Afghanistan, dove era il loro interesse per queste donne che continuavano a morire per i raid occidentali – negli anni piano piano ridotti ma pur sempre presenti – negli attentati islamisti. Senza dimenticare che i governi filo-statunitensi corrotti non mi pare abbiano migliorato sensibilmente le condizioni delle afghane. Del resto, come può migliorare lo stato generale di un Paese quando è governato da un’autorità fantoccia e ha presenze straniere ovunque? In una situazione del genere, di “crisi”, sono proprio le donne a pagare il prezzo più alto. Le narrazioni, però, si nutrono di simboli che assumono via via caratteri totemici e da lì politici.

L’Afghanistan, in particolare, ne ha uno chiaro, evidente, mostruoso: il burqa. Negli anni della brutale occupazione occidentale dell’Afghanistan, a causa di una narrazione mediatica e politica velenosa, il burqa è stato assurto a simbolo della disparità di civiltà tra “noi” e “loro” al punto che fette consistenti di persone in Occidente continuano a fare confusione tra questo mezzo di copertura (inaccettabile per gran parte delle donne islamiche) e l’hijab (il classico velo per intenderci) ritenendolo segno marcatore dell’arretratezza dell’Islam (che, però, non ne parla affatto!). Il burqa è diventato così il marcatore plastico tra la nostra “modernità” (declinata tutto in positivo, ovviamente) e il loro “medioevo” (quale? Alto, basso? Medioevo europeo? Che significa questo termine?), tra la nostra “civiltà”, e la loro arretratezza”. Il Burqa è stato il principale soggetto di discussione, di infiniti dibattiti mentre popolazione intere venivano massacrate notte e giorno dai “nostri” civili aerei nel 2001. Poco importa perché noi avevamo una missione chiara: “liberare le donne afghane dal burqa”. Lo svelamento – con la forza delle bombe – è quanto di più violento culturalmente ci possa essere. Ma per tanti andava bene: bastava rimuovere quel simbolo di oppressione. Che poi a questo se ne sostituiva uno forse peggiore che imprigionava ancora di più le donne, era per noi irrilevante. Un po’ come quando si parla di burkini o si sostiene la pericolosa laicità francese che impone con violenza la rimozione dei veli alle donne in Francia ma non dice una parola sui massacri compiuti sulle donne dai francesi (direttamente o meno) in varie parti del mondo.

Ovviamente, come sempre accade, una volta “liberate”, una volta sconfitti i Talebani (bugia clamorosa per chi ha seguito le vicende afghane in questi decenni come si è visto soprattutto negli ultimi anni), terminata la funzione che abbiamo assegnato alle donne locali per altri fini (i “nostri”), ecco che le donne afghane potevano ritornare a scomparire. Non ricordo più di speciali a riguardo su di loro. Molte, del resto, erano state “svelate”!
Non è un caso dunque che in queste settimane ritorna al centro della narrazione il burqa e la liberazione delle donne afghane: si compie il ciclo iniziato 20 anni fa quando i Talebani erano al potere (grazie agli Usa), ritornano i corpi delle donne ad essere strumentalizzate per fini che poco hanno a che fare con la loro incolumità.

In queste settimane in cui i mass media, politica si preoccupano di “loro”, non bisogna inseguire la loro narrazione su burqa e quant’altro che, fingendo di lottare contro l’oppressione femminile che quell’indumento rappresenta, è impregnata di imperialismo e orientalismo. Ma piuttosto bisogna rilanciare sui nostri territori due temi: il No a qualunque guerra e quindi il no a qualunque forma di imperialismo mascherato in difesa di donne o di esportazione di “democrazia” e il No alla Nato rilanciando il diritto sacrosanto dei popoli alla loro autodeterminazione, siano essi afghani, palestinesi o iracheni (etc etc). Sono le uniche bussole che veramente devono indicare il nostro cammino e che forse abbiamo dimenticato come il caso libico (2011), con la scusa del “dittatore” da abbattere, ha dimostrato.

Contemporaneamente, però, nell’imminenza ormai dei 20 anni dell’11 settembre, bisogna ragionare seriamente sulle nostre colpe e responsabilità per essere stati troppo silenti quando il criminale di guerra Bush Junior (ora sdoganato e apprezzato nonnetto) decideva di bombardare l’Afghanistan insieme ad una coalizione di paesi occidentali lanciando la sua “guerra al terrore”. Una guerra accettata da molti, troppi, la stragrande maggioranza, ancora ubriacati di rabbia dalla visione degli attentati Usa. I bombardamenti afghani sarebbero stati seguiti 2 anni dopo dalla bugia delle “armi di distruzione di massa” (mai trovate perché inesistenti) in Iraq e poi ancora ai raid in Yemen, all’aumentata repressione nei confronti di palestinesi e altri popoli della regione con la scusa di essere “amici” del terrorismo. Bisogna concentrarci su questi punti, sulle “nostre” guerre come strumento imperiale di morte e distruzione, che hanno peggiorato la condizione dei popoli della ragione, comprese quelle delle donne che in quei luoghi vivono (quando non sono state ammazzate). Il resto è fuffa: una fuffa pericolosa perché, strumentalizzando i pericoli pur reali delle donne afghane, di fatto l’Occidente rivendica ancora una volta il suo ruolo positivo di liberatore. Senza dimenticare gli effetti opposti che forzati “svelamenti” (non solo di indumenti, ma culturali) hanno portato. L’aumentare nei decenni dei vari strumenti di copertura delle donne nei mondi islamici lo testimonia ampiamente.