Anche se le nostre sfide si moltiplicano, le conoscenze e le risorse che abbiamo a nostra disposizione per cambiare la storia sono molto maggiori di quelle dei nostri genitori e nonni prima di noi. La speranza non deve essere un lusso: dovrebbe essere l’unico percorso logico da percorrere.
Fonte: english version
Amjad Iraqi – 18 agosto 2021
Immagine di copertina: Un aereo dell’aeronautica statunitense trasporta centinaia di cittadini afgani dall’aeroporto internazionale di Hamid Karzai a seguito della presa in consegna della città da parte dei talebani, 15 agosto 2021. (Courtesy of the U.S. Air Force)
L’Afghanistan è stata una delle lotte politiche decisive della mia generazione. Ero solo un ragazzo quando guardavo in televisione le truppe americane e alleate sbarcare nel paese, con il pretesto di catturare chi c’era dietro gli attacchi dell’11 settembre. Ma la “guerra al terrore” che l’amministrazione Bush scatenò con quell’invasione, e la brutale occupazione che ne seguì, resero il mondo un luogo pericoloso per tutti i musulmani e gli arabi, poiché il “terrore” divenne sinonimo della nostra fede e delle nostre origini nazionali. L’Afghanistan, insieme all’Iraq e alla Palestina, divenne un pilastro della nostra coscienza globale, una prima linea per affermare la nostra umanità contro una superpotenza che aveva effettivamente ritenuto la nostra identità una minaccia.
Vent’anni dopo, quell’occupazione è giunta a una fine tanto attesa, ma con una orribile fine. Mentre le truppe statunitensi completano il loro ritiro dall’Afghanistan, i talebani – lo spietato movimento fondamentalista che gli invasori avrebbero dovuto presumibilmente spodestare – hanno conquistato l’intero stato in pochi giorni, con il governo e l’esercito afghani crollati senza troppi sforzi. La paura che ora attanaglia il paese di fronte al ritorno di questi tiranni è travolgente. La rabbia per la vuota impresa imperialista americana è palpabile. Molti musulmani e arabi colpiti dalla violenza, dal controllo e dal razzismo a causa di quella guerra, ancora una volta sentono risvegliarsi le loro ferite.
A migliaia di chilometri di distanza, mentre i talebani si avvicinavano alla capitale Kabul, il Libano rimaneva paralizzato mentre la carenza di carburante, i tagli all’elettricità e l’iperinflazione facevano sprofondare il paese in una fitta oscurità e nel disordine. La classe politica libanese, che ha usato a lungo lo stato come una macchina del capitalismo clientelare e del clientelismo, ha continuato a disprezzare criminalmente il benessere del suo popolo, anche dopo che la sua negligenza ha portato all’esplosione al porto di Beirut lo scorso anno. Intrappolato dalla sua leadership corrotta e dai giochi di potere degli stati stranieri, un popolo libanese furioso ma esausto sente sempre più che il suo destino viene strappato dalle sue mani.
Sebbene incomparabile rispetto alle terribili esperienze delle persone che vi vivono, è stato straziante per molti palestinesi vedere questi due paesi crollare nella stessa settimana. Come l’Afghanistan per la mia generazione, per la generazione precedente alla mia il Libano è stato un punto focale della coscienza globale, a partire dallo scoppio della guerra civile nel 1975 per arrivare poi all’invasione israeliana nel 1982. Ma proprio ora, l’idea di influenzare il cambiamento politico, o addirittura di ottenere qualche forma di giustizia, sembra una fantasia irraggiungibile in mezzo al caos e ai bisogni di sopravvivenza di base. Nonostante i nostri sforzi collettivi, la speranza sembra un lusso, un mondo fantastico lontano dalla nostra portata.
Per quanto sia stata disperata questa settimana, c’è ancora consolazione nel sapere due cose.
Primo, queste catastrofi non sono mai inevitabili; proprio come sono intrinsecamente prodotte dagli esseri umani, così anche le loro soluzioni possono essere volute e poste in essere, per quanto tempo possa richiedere o per quanto possa essere difficile.
In secondo luogo, le élite che controllano le istituzioni statali non sono le uniche fonti di potere globale. Anche la solidarietà comunitaria e di base, attraverso il crowdfunding, l’attenzione dei social media, la protesta popolare e altro, può essere una forza di cambiamento. Anche se le nostre sfide si moltiplicano, le conoscenze e le risorse che abbiamo a nostra disposizione per cambiare la storia sono molto maggiori di quelle dei nostri genitori e nonni prima di noi. La speranza non deve essere un lusso: dovrebbe essere l’unico percorso logico da percorrere.
Amjad Iraqi è editore e scrittore di +972 Magazine. È anche un analista politico presso il think tank Al-Shabaka e in precedenza è stato coordinatore di advocacy presso il centro legale Adalah. È un cittadino palestinese di Israele, con sede ad Haifa.
Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” – Invictapalestina.org