Dopo anni di resistenza all’amara realtà dell’occupazione israeliana, l’evasione della scorsa settimana ha offerto qualche speranza ai palestinesi di Jenin, afferma il direttore artistico del Freedom Theatre.
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Di Yuval Abraham – 13 settembre 2021
Foto di copertina: Bambini palestinesi giocano in una strada deserta durante uno sciopero a Jenin, in Cisgiordania, in solidarietà con i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane, 11 settembre 2021. (Nasser Ishtayeh/Flash90)
Sono in cima a una collina e guardo il campo profughi di Jenin dall’alto quando vedo grigio. Non c’è un solo pezzo di verde degli alberi o marrone della terra. Solo un fitto e crescente blocco di cemento che sanguina nella città di Jenin, adiacente al campo.
Zakaria Zubeidi, il più famoso dei sei prigionieri politici palestinesi fuggiti dalla prigione israeliana di Gilboa la scorsa settimana, è nato qui, così come alcuni degli altri. È stato catturato sabato dalle autorità israeliane dopo quasi una settimana di ricerche da parte della polizia e dell’esercito. Nel frattempo, quasi nessuno nella società ebraica israeliana ha osato porre domande più complesse, del tipo: perché Jenin è diventata un centro della resistenza palestinese? In che tipo di realtà vivono i residenti del campo profughi di Jenin? E perché ce ne sono così tanti nelle prigioni israeliane?
Solo 11 chilometri separano il campo profughi di Jenin e il kibbutz Yizre’el nel nord di Israele. Da questa collina, si vede il kibbutz risplendere nel mezzo della lussureggiante valle di Jezreel, oltre il checkpoint. Il kibbutz è stato costruito sulle rovine del villaggio palestinese di Zir’in, i cui abitanti furono espulsi durante la Nakba. Uno di quei residenti era la nonna di Ahmad al-Tubasi, un attore teatrale sorridente ed energico sulla trentina che mi ha portato su questa collina, che sovrasta il campo in cui è nato.
“Se fossi nato dall’altra parte della valle”, dice, indicando la valle di Jezreel, conosciuta come Marj Ibn Amer in arabo, “tutto sarebbe stato diverso. Stessa valle, ma diritti diversi, a seconda da che parte della linea sei nato”.
La storia della vita di Al-Tubasi è stata recentemente trasformata in uno spettacolo teatrale, in cui interpreta se stesso: un rifugiato nato in un campo sotto occupazione militare, cresciuto all’ombra della Seconda Intifada, rinchiuso in una prigione israeliana e che alla fine è diventato un attore di teatro, educatore e attivista.
Al-Tubasi conosceva bene Zubeidi. “La fuga ha dato un po’ di speranza ai residenti, una piccola vittoria a cui aggrapparsi”, racconta, “e ora siamo tornati all’amara realtà. Come un pugno nello stomaco. Vivi sotto occupazione, e l’occupazione è più forte di te”.
Dalla collina si possono vedere anche le città di Afula, Haifa e Nazareth sul lato israeliano della Linea Verde. Tutto è così vicino eppure sembra così lontano. La maggior parte dei residenti vive a pochi chilometri dalle aree da cui i loro parenti sono stati espulsi o sono fuggiti nel 1948. Per viaggiare dai territori occupati a Gerusalemme o Israele è necessario un permesso di ingresso dell’esercito israeliano. A ogni giovane che ho incontrato a Jenin è stato rifiutato il permesso. La stragrande maggioranza non ha mai visto il mare.
“Non c’è una sola famiglia nel campo profughi senza un prigioniero o qualcuno che è stato ucciso dall’esercito, e lo Shin Bet rifiuta i permessi di ingresso ai membri di quelle famiglie come punizione collettiva”, spiega Al-Tubasi. “Alcuni dei giovani entrano illegalmente in Israele semplicemente per lavorare, dal momento che non c’è lavoro nel campo”.
Ci dirigiamo verso il Freedom Theatre (Teatro della Libertà), un teatro e centro culturale della comunità palestinese nel campo profughi di Jenin, dove Ahmad lavora come direttore artistico. Le pareti esterne sono disegnate e su una di esse è scritto: “Il passato sarà presente nel futuro”. I bambini del campo vengono a teatro per i laboratori e per assistere a spettacoli teatrali. I ragazzi, dice Al-Tubasi, vengono al Freedom Theatre per una “terapia basata sul dramma. Siamo tutti traumatizzati qui, ne abbiamo bisogno”.
Quando cresci qui, in questa bolla chiamata campo profughi di Jenin, il tuo destino è segnato: o diventi un prigioniero, un martire o una persona con disabilità”, ricorda. “Lavoriamo con i bambini per cambiare quel corso. Diciamo loro che hanno la possibilità di cambiarlo, che possono essere qualcos’altro”.
Dopo qualche esitazione, continua: “Mi infastidisce questa continua richiesta da parte dei residenti del campo di ‘volere la pace’. Quale pace? Di cosa stanno parlando? Viviamo all’inferno”.
Un bambino che sceglie la resistenza armata lo fa perché non vede altre opzioni intorno a sé? Chiedo. Al-Tubasi ride: “Il bambino non sceglie! Questo è il punto: non ha scelta”.
“Fin da quando sono nato, ho visto l’esercito entrare nel campo ogni notte. Arrestare persone, sparare. Immagina tuo padre in prigione, tuo fratello un martire, la casa del tuo vicino che viene demolita. Un esercito straniero ti controlla. Non c’è nemmeno un aeroporto in Cisgiordania! Le frontiere sono chiuse. Quindi, come puoi aspettarti di fare qualcos’altro? Vorrei che gli israeliani potessero trascorrere due notti nel campo e vedere come ci si sente”.
Vecchie foto in bianco e nero dei giorni della Prima Intifada sono appese alle pareti del teatro. In uno di essi si vede un gruppo di bambini saltare su un palco. Uno è travestito da tigre, l’altro da gallo. C’è anche Zakaria Zubeidi, che aveva 12 anni quando è stata scattata la foto.
“Sette degli otto bambini del suo gruppo teatrale sono morti”, dice Al-Tubasi della foto. “Tutti tranne Zakaria sono stati uccisi durante la Seconda Intifada”.
Poi comincia a contarli, uno dopo l’altro. “Yousef”, indica Ahmad uno dei bambini, “ha compiuto un attacco ad Hadera ed è stato colpito. Ha avuto un crollo emotivo dopo che una ragazza che è stata uccisa da un soldato è morta tra le sue braccia. Ashraf ha combattuto nella battaglia di Jenin nel 2002 ed è stato fucilato quando i soldati hanno rioccupato il campo”.
Tutti e sette sono stati uccisi, ribadisce. Anche tutti gli amici di Al-Tubasi sono stati uccisi. Un altro residente del campo ci sente parlare e mormora: “Hanno cancellato un’intera generazione”.
La storia del gruppo di bambini che divennero combattenti e furono uccisi durante la Seconda Intifada è ben documentata nel film: “I Figli di Arna”, diretto da Juliano Mer-Khamis. La madre di Mer-Khamis, Arna, una donna ebrea-israeliana, fondò il Freedom Theatre durante la Prima Intifada. Il teatro è stato chiuso per anni, solo per essere riaperto nel 2006 da un gruppo di palestinesi, tra cui Zubeidi. “È il nostro fondatore”, afferma Al-Tubasi.
Dopo la fine della Seconda Intifada, intorno al 2005, il campo profughi ha sanguinato silenziosamente, senza molta copertura da parte dei media internazionali. Anche l’Autorità Palestinese, guidata da Mahmoud Abbas, ha iniziato ad arrestare i residenti del campo. Per tutto il tempo, le politiche israeliane di occupazione militare e di espropriazione si sono solo intensificate.
Da quando la violenza ha travolto Israele e Palestina a maggio, i giovani armati hanno iniziato a confrontarsi con i soldati israeliani che entrano nel campo per effettuare arresti quasi ogni giorno. Ad agosto, cinque residenti del campo sono stati uccisi durante scontri a fuoco con i militari. Un totale di 12 residenti sono stati uccisi dall’inizio dell’anno.
“È sempre la stessa storia”, dice Al-Tubasi, facendo un movimento circolare con la mano, “l’oppressione porta al silenzio solo per un breve periodo di tempo”.
‘Volevo resistere, ma in modo diverso’
I muri del campo sono tapezzati di manifesti di palestinesi uccisi o imprigionati dalle forze israeliane. Poster rettangolari e decorati con foto di ragazzi o giovani uomini, spesso imbracciando un’arma. Al-Tubasi dice che anche se qualcuno muore in altre circostanze, il suo volto viene photoshoppato sul corpo di una persona che brandisce un’arma. Su alcune pareti, i manifesti sono stati strappati per fare spazio a nuovi manifesti delle persone uccise di recente, lasciando solo i segni della colla.
“Lo vedi ovunque tu vada”, dice Al-Tubasi, “prigione e morte”. Alcune delle case del campo sono più nuove di altre. Intere aree qui sono state demolite e ricostruite nel 2002, dopo i 10 giorni della battaglia di Jenin, in cui i soldati israeliani hanno occupato il campo. Centinaia di case sono state distrutte e più di 1.400 persone sono rimaste senza riparo. Al-Tubasi era solo un ragazzo; anche la sua casa è stata demolita.
“Un bulldozer si è schiantato nella nostra cucina mentre mia zia era dentro. Non siamo riusciti a dormire a causa degli spari e dei bombardamenti. Alla fine volevamo arrenderci. Non c’era né cibo né acqua. Siamo usciti con bandiere bianche. I soldati divisero le donne, i bambini e gli uomini in gruppi”.
Quando aveva 17 anni, Al-Tubasi è stato processato in un tribunale militare e condannato a quattro anni in una prigione israeliana. Le accuse contro di lui erano riservate e fino ad oggi non le ha mai viste, dice. Gli è stato solo detto che rappresentava un pericolo per la sicurezza di Israele. “Non avevo un’affiliazione organizzativa”, dice, “e in carcere devi scegliere un’organizzazione. I prigionieri sono divisi in base a questo. Ho detto loro la Jihad islamica, anche se non ho alcun legame con il gruppo”.
Quando è stato rilasciato, non sapeva cosa fare. “Avevo 21 anni, senza un soldo. Tutti i miei amici sono stati uccisi. La vita era un inferno. Come prigioniero rilasciato, la gente non voleva assumermi. Poi ho saputo che Zakaria Zubeidi aveva riaperto il teatro. Non volevo morire dopo essere stato rilasciato. Volevo resistere, ma in modo diverso”.
Continuiamo a camminare. Ci imbattiamo in un gruppo di ragazzi e uno di loro stringe la mano ad Al-Tubasi mentre racconta ai suoi amici del mago che ha visto a teatro. “Ha fatto uscire i fazzoletti dalla bocca! Quando tornerà di nuovo?” Al-Tubasi risponde e accarezza la testa del ragazzo. Mentre si allontana, Al-Tubasi mi dice: “Lo vedi? Suo padre è in prigione”.
Adiacente al panificio locale, accanto a una vecchia stazione ferroviaria britannica, si trovano diversi giovani. Alcuni sono usciti di notte negli ultimi mesi, per cercare di impedire all’esercito di entrare nel campo. “L’occupazione parla e capisce solo il linguaggio della forza”, dice uno di loro, mentre i suoi amici annuiscono. “Perché l’esercito può entrare nelle città e nei campi in Cisgiordania ogni volta che vuole? Uccidere? Arrestare?” Le persone non restano con le mani in mano senza fare nulla”, dice un altro.
Il campo profughi di Jenin è uno dei punti più a nord della Cisgiordania. Sono arrivato qui in mattinata dalla parte meridionale della Cisgiordania con un amico palestinese. Lungo la strada, ho contato 14 posti di blocco dell’esercito all’ingresso di vari villaggi. Ciascuno aveva due o tre soldati fissi che controllavano a caso i documenti d’identità. C’è un grande posto di blocco permanente al confine vicino a Gerusalemme che monitora il movimento palestinese dal nord al sud della Cisgiordania. Israele proibisce ai palestinesi di attraversare Gerusalemme o di asfaltare nuove strade interurbane in Cisgiordania, trasformando ogni viaggio da sud a nord in un incubo di quattro ore.
“Credimi, i palestinesi sono stanchi”, mi dice Al-Tubasi mentre la giornata volge al termine. “Vogliono il cambiamento. Vogliono potersi muovere. Per andare al mare. Per trovare lavoro e guadagnarsi da vivere. Voglio arrivare a una situazione in cui tutti abbiano gli stessi diritti, senza violenza”.
“Negli ultimi 15 anni ho lavorato con i bambini nel campo sulla nonviolenza, sulla consapevolezza politica, su come costruire un futuro, e un’irruzione dell’esercito israeliano nel campo distrugge tutto. Fa loro capire in un istante che qualunque cosa tu faccia, sei sotto occupazione. E questo non cambierà: i leader in Israele lo dicono apertamente. A volte mi deprimo persino. Mi chiedo: forse la mia vita è sbagliata?”
Yuval Abraham è uno studente di fotografia e linguistica.
Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org