Copertina: una donna palestinese tiene il ritratto di un parente ucciso, durante una marcia del settembre 2010 a Beirut per commemorare l’anniversario del massacro di Sabra e Shatila. Sharif Karim Reuters
di Donald Wagner
The Electronic Intifada, 16.09.21
Il ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan segna la fine dell’ultimo di una lunga lista di disastrosi interventi militari americani. Un rapido esame degli ultimi 50 anni rivela un triste modello americano di tradimento e di mancanza di responsabilità che si lascia dietro sofferenza e paesi devastati.
Conosciamo bene la sconfitta degli Stati Uniti in Vietnam e il ritiro da Saigon nel 1975, ma chi si ricorda del caos lasciato nel Laos o in Cambogia?
O considerate gli interventi dell’amministrazione Reagan in Nicaragua, Guatemala, El Salvador e Honduras.
La loro eredità di oggi sono i bambini e le famiglie al confine meridionale degli Stati Uniti, rifugiati dalle politiche di Reagan che includevano il sostegno a squadroni della morte colpevoli di genocidio.
Possiamo aggiungere alla lista vari paesi devastati e abbandonati dagli Stati Uniti in tutta l’Asia occidentale e il Nord Africa, tra cui Libia, Iraq, Siria, Yemen e Libano. La lista diventa ancora più lunga quando aggiungiamo gli interventi in Africa, Asia centrale, Sud America e Caraibi.
“La lotta guidata dagli americani contro il terrore con la forza militare e il sostegno ai governi autoritari in Medio Oriente, Asia e Africa ha devastato la qualità della governance e la vita della gente comune”, ha scritto recentemente il giornalista Rami G. Khouri.
E questo è dir poco.
Ho personalmente osservato da vicino questo modello distruttivo nel maggio 1982, quando ho guidato una delegazione di specialisti del soccorso e dello sviluppo in Libano. Il 4 giugno ci trovammo sotto il bombardamento israeliano di Beirut, finanziato dagli Stati Uniti. Fu l’inizio una guerra che uccise almeno 17.000 civili palestinesi e libanesi e ne ferì altre decine di migliaia.
Israele proseguiì l’offensiva con un’invasione di terra il 6 giugno. Una settimana dopo, le forze israeliane avevano occupato la maggior parte del Libano e assediato la sua capitale – con l’obiettivo dichiarato di sbaragliare l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che allora era in gran parte basata nel paese.
Un accordo di cessate il fuoco mediato dagli Stati Uniti, raggiunto a metà agosto, stabilì che l’OLP doveva ritirare il suo personale militare e politico dal Libano e l’esercito di Israele sarebbe rimasto fuori da Beirut.
Come parte dell’accordo, gli Stati Uniti si impegnavano a fornire sicurezza agli oltre 300.000 civili palestinesi in Libano. Il 20 agosto, Reagan ordinò ai marines statunitensi di iniziare a schierarsi in Libano, insieme alle forze francesi e italiane, per garantire la sicurezza e la stabilità durante il ritiro dell’OLP.
Tre giorni dopo, Bachir Gemayel, il capo della milizia delle Forze Libanesi alleate con Israele, fu eletto dal parlamento libanese come presidente del paese. Ma il 14 settembre, prima che entrasse in carica, venne assassinato.
Sfidando gli Stati Uniti, Israele violò l’accordo di cessate il fuoco e occupò Beirut Ovest, compresa la zona dei campi profughi di Sabra e Shatila.
La sera del 16 settembre 1982, Israele inviò le milizie delle Forze Libanesi a Sabra e Shatila, dove vivevano migliaia di civili palestinesi ormai indifesi.
Ma Sharon aveva insistito che, nonostante il ritiro dell’OLP sotto la supervisione internazionale, più di 2.000 “terroristi” palestinesi fossero ancora nascosti nei campi profughi.
Era una completa invenzione. Secondo documenti israeliani declassificati e testimonianze di ex funzionari statunitensi, Sharon e altri leader israeliani indussero i diplomatici americani ad accettare le false affermazioni su migliaia di “terroristi” palestinesi e sfidarono le richieste di Washington di ritirare le forze israeliane da Beirut.
La stessa notte le milizie delle Forze Libanesi – chiamate anche Falangisti – entrarono nei campi. I funzionari israeliani erano già consapevoli che i civili venivano uccisi, secondo lo storico Seth Anziska.
Il ministro degli esteri israeliano Yitzhak Shamir aveva già sentito parlare di un “massacro” in corso nei campi. Ma quando lui e altri alti funzionari israeliani incontrarono le loro controparti americane il 17 settembre, Shamir non ne fece menzione.
“Da dove vieni, amico mio?”
Prima che si diffondesse la notizia del massacro, tornai a Beirut con due dirigenti di Mercy Corps International con proposte di progetti di soccorso medico ed economico in Libano. Raggiungemmo i campi profughi solo lunedì mattina, 20 settembre.
La nostra esperienza fu lieve rispetto a quella vissuta dai sopravvissuti palestinesi e dal personale medico internazionale in servizio negli ospedali palestinesi quel fine settimana. Entrammo a Sabra e Shatila verso le 11 del mattino e fummo accolti dai lavoratori della Mezzaluna Rossa libanese che ci dettero dei fazzoletti imbevuti di colonia.
“Teneteli vicino al naso perché l’odore dei corpi in decomposizione vi farà ammalare”, ci hanno detto.
Cinque minuti dopo eravamo sotto shock e in lacrime, mentre le madri urlavano di dolore disperato vedendo degli operai che tiravano fuori dalle macerie due corpi, e parti del corpo, dei loro cari.
Dopo diverse interviste, mi avvicinai a un religioso musulmano che si affacciava su una fossa profonda, dove alcuni operai stavano portando i sacchi per i cadaveri da seppellire. Espressi le mie condoglianze e l’imam scosse la testa.
“Ho visto molte delle vittime durante le preghiere del venerdì”, mi ricordo che disse.
“Non sapremo mai quanti sono i morti”, aggiunse. “Venerdì sera ho sentito degli spari e ho visto i corpi di diversi uomini caricati su dei camion. Solo Dio sa dove sono stati sepolti”.
Fece una stima delle persone uccise fra 2.000 e 3.000.
I nomi di 1.400 vittime sono stati documentati. Ma si pensa che il numero reale di morti sia molto più alto, perché i falangisti portarono via molte vittime.
Poi fece la temuta domanda: “Da dove vieni, amico mio?”
Feci una pausa di imbarazzo e dissi: “Dagli Stati Uniti, e so che abbiamo sulle mani il sangue di queste vittime”.
“Sì, il sangue è sulle vostre mani di americani”, rispose. “Ma ringrazio Dio che siate qui per vedere cosa è successo. Tutto quello che vi chiediamo è che torniate a casa e raccontiate la verità su quello di cui siete stati testimoni qui”.
Il giorno seguente incontrammo dei giornalisti libanesi. Ci dissero che era risaputo che gli Stati Uniti avevano promesso sicurezza per i palestinesi e che Israele sarebbe rimasta fuori da Beirut.
Se il governo statunitense – che senza dubbio aveva il potere di farlo – si fosse opposto all’inganno di Ariel Sharon e avesse ordinato a Israele di ritirarsi da Beirut, il massacro avrebbe potuto essere evitato.
Un chiaro caso di genocidio
A loro credito, la popolazione di Israele tenne una delle più grandi manifestazioni di protesta contro il massacro.
Tuttavia, nel 1983, la Commissione Kahan, l’indagine ufficiale di Israele, concluse che i loro funzionari erano solo “indirettamente responsabili” del massacro.
Sharon fu rimosso dalla sua posizione di ministro della difesa, ma l’anno successivo tornò al governo. Nel 2001 divenne primo ministro.
Nessun israeliano e nessun leader della milizia libanese è mai stato processato o condannato per il genocidio di Sabra e Shatila e gli Stati Uniti sono sfuggiti alla loro responsabilità di aver abbandonato i palestinesi.
Il massacro di Sabra e Shatila è stato un chiaro caso di genocidio secondo qualsiasi standard di diritto internazionale, eppure i responsabili sono sfuggiti al processo e alla condanna.
Infatti, le trascrizioni delle discussioni tra alti funzionari israeliani e la milizia delle Forze Libanesi a partire dal gennaio 1982 rivelano l’intento genocida.
Le trascrizioni, pubblicate nel 2018, includono discorsi di “pulizia dei campi profughi [palestinesi]” e la necessità di “diversi Deir Yassin” – un riferimento al famigerato massacro dell’aprile 1948 dei palestinesi in un villaggio vicino a Gerusalemme durante la Nakba.
Contengono anche riferimenti espliciti alla decimazione e all’espulsione della popolazione palestinese rifugiata dal Libano in modo che “Sabra diventasse uno zoo e Shatila il parcheggio di Beirut”.
Mentre i funzionari statunitensi e i media mainstream evitano l’argomento, questo modello di genocidio e di ingiustizia contro i palestinesi continua tuttora.
Eppure il clima politico sta cambiando ed è giunto il momento che gli Stati Uniti si assumano la responsabilità della loro complicità nei crimini di guerra di Israele, compresi la Nakba e il massacro del 1982.
Basta
L’opinione pubblica statunitense può sposare la causa chiedendo che Israele sia ritenuto responsabile dei crimini inflitti ai palestinesi. Come contribuenti, possiamo chiedere la fine della sovvenzione annuale di quasi 4 miliardi di dollari che diamo a Israele.
La responsabilità può essere misurata da una fine immediata del furto di terre palestinesi da parte di Israele per costruire insediamenti coloniali nella Cisgiordania occupata, compresa Gerusalemme.
Israele deve smettere di detenere, imprigionare, abusare e uccidere i bambini palestinesi.
Dobbiamo esigere che la piena uguaglianza e i diritti politici siano garantiti ai palestinesi e lo smantellamento del sistema di apartheid israeliano che ultimamente è stato riconosciuto da gruppi di diritti umani tra cui Human Rights Watch e lo stesso B’Tselem di Israele.
Infine, i milioni di rifugiati palestinesi sparsi nel mondo devono poter esercitare il loro diritto al ritorno e ricevere un risarcimento.
È giunto il momento di tracciare una linea e dire basta alla sofferenza e alla morte dei palestinesi. Mai più Sabra e Shatila.
Donald Wagner è un attivista per i diritti dei palestinesi di lunga data, e un religioso presbiteriano. La sua biografia sarà pubblicata nella primavera del 2022.
Traduzione a cura dell’Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus, Firenze