Israele-Palestina: come il cibo è diventato un obiettivo della conquista coloniale

Molti arabi sono giustamente indignati per il rebranding dei piatti palestinesi come cucina “israeliana” .

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Joseph Massad – 17 novembre 2021

Immagine di copertina: Il furto della cucina palestinese e siriana da parte degli israeliani è diventato un fenomeno normalizzato (Photo credit: Craving Palestine book)

Alcuni anni fa, ero furioso che un ristorante/bar di lusso e alla moda che frequentavo nel Greenwich Village di Manhattan elencasse come “piatto del giorno” un couscous “israeliano”. Sconvolto, chiesi che cambiassero immediatamente il nome del piatto. Spiegai al manager che quello che chiamavano couscous “israeliano” era in realtà maftoul palestinese, tradizionalmente fatto a mano.

Da bambino ricordo come la nostra vicina e amica di famiglia, la defunta Marie Jou’aneh, si sedesse per ore ad arrotondare la semola in palline a forma di perla. Sebbene i riferimenti storici citino la conoscenza del couscous nordafricano da parte dei palestinesi già nel XVII secolo o poco prima, a causa dei nordafricani che si trasferirono in Palestina con gli eserciti musulmani che combatterono le crociate e poi si stabilirono a Gerusalemme, la versione moderna del piatto è stata forse rivisitata ed introdotta in Palestina e nella Grande Siria nella seconda metà del XIX e all’inizio del XX secolo.

Fu allora che gli esuli algerini, marocchini, tunisini e libici in fuga dal colonialismo francese e italiano si trasferirono lì e introdussero il couscous nordafricano dai grani più piccoli, che palestinesi e siriani hanno modificato nel più grande maftoul a forma di perla.

Nel caso del maftoul, gli israeliani hanno rubato il piatto palestinese e lo hanno commercializzato come proprio, esattamente  come hanno fatto con la patria palestinese

Il compiaciuto direttore del ristorante di New York, tuttavia, affermò di non sapere da dove provenisse il piatto e che a New York era conosciuto come couscous “israeliano”. Gli spiegai che quel cibo era venduto a New York anche con il termine più “neutro” di “pearl couscous”, per il quale avrebbe potuto optare per evitare di inimicarsi i clienti.

Il manager  rispose con disinvoltura con quella che evidentemente pensava fosse la risposta più intelligente: che il ristorante si riferiva alle patatine fritte come ” french fries”, anche se le patatine erano originarie del Belgio. Risposi, lasciando il locale, che non erano i francesi a rubare le patatine belghe, poiché in Francia venivano chiamate semplicemente pommes frites; piuttosto, erano stati gli americani a etichettarle erroneamente come “francesi” (la storia vera o apocrifa è che i soldati americani scoprirono le patatine fritte durante la prima guerra mondiale nelle regioni francofone del Belgio e al ritorno a casa le indicarono erroneamente come “francesi”).

Nel caso del maftoul, gli israeliani hanno rubato il piatto palestinese e lo hanno commercializzato come proprio, esattamente  come hanno fatto con la terra e con altro cibo palestinese. Basti dire che non tornai mai più in quel ristorante.

Innovazioni locali

La cucina palestinese fa parte della più ampia e ricca cucina siriana, che comprende due rami principali: la cucina di Damasco e la cucina di Aleppo. La maggior parte dei piatti cucinati in tutta la regione nella moderna Siria, Libano, Giordania e Palestina proviene da queste due cucine, con alcune innovazioni che includono verdure, cereali ed erbe coltivate localmente.

Mentre nel corso dei decenni falafel, hummus, tabouleh, maftoul, zaatar (mix di spezie a base di issopo palestinese), l’insalata fallahi (conosciuta negli Stati Uniti come insalata “israeliana”), la knafeh di Nabulsi e altri alimenti sono stati rubati dai coloni ebrei israeliani, sulla stampa occidentale sono emerse tutta una serie di giustificazioni. Più recentemente alla lista del cibo rivendicato da Israele si sono aggiunti anche l’omelette “shakshuka” e il “Labaneh” – o yogurt colato (il suo nome è la traduzione al femminile della parola araba “Laban”, che significa yogurt in arabo siriano).

Alcuni potrebbero affermare che gli ebrei israeliani sono ora parte della regione e quindi hanno il diritto di rivendicare il suo cibo, anche se la linea ufficiale israeliana afferma che vivere in Israele è come vivere in un “quartiere difficile” del Medio Oriente,  non facente parte di esso.  Così come il famoso storico israeliano Benny Morris ha affermato che Israele è “Roma” e gli arabi sono i “barbari” che lo minacciano e l’ex primo ministro israeliano Ehud Barak una volta definì Israele come una “villa nella giungla”.

L’ex ambasciatore israeliano in Svezia ed Egitto, Zvi Mazel, a sua volta ha dichiarato: “Israele è un paese occidentale che, nonostante il comportamento a volte insidioso dei suoi parenti occidentali, culturalmente, concettualmente ed economicamente appartiene all’Europa”.

La scrittrice di libri di cucina ebrea britannica Claudia Roden, nata Douek (la cui famiglia ebrea egiziana è originariamente siriana), ha affermato che molti ebrei europei emigrati in Palestina “volevano dimenticare il loro vecchio cibo perché ricordava loro la persecuzione”. Secondo un articolo del New York Times: “Nel cibo dei loro vicini palestinesi, gli ebrei israeliani hanno trovato un legame con la terra e con i loro antenati”.

Il problema è che i palestinesi non sono i vicini degli ebrei israeliani, ma il popolo che i coloni israeliani hanno conquistato e a cui hanno rubato le terre e il cibo.

Proprietà del cibo

Lo chef israeliano e autore di libri di cucina Yotam Ottolenghi e il suo coautore palestinese Sami Tamimi,  evitano il fastidioso problema della “proprietà” del cibo e del furto coloniale affermando: “L’hummus, per esempio, argomento altamente esplosivo, è innegabilmente un punto fermo della popolazione palestinese locale, ma era anche una caratteristica permanente sulle tavole degli ebrei di Aleppo che  vissero in Siria per millenni e arrivarono a ​ Gerusalemme negli anni Cinquanta e Sessanta. Chi è più meritevole di chiamare proprio l’hummus? Nessuno dei due. Nessuno ‘possiede’ un piatto perché è molto probabile che lo abbia cucinato qualcun altro prima di lui e prima ancora un’altra persona”.

Il problema con questa spiegazione è che gli ebrei di Aleppo non erano gli unici a mangiare hummus; anche la maggioranza della popolazione di musulmani e cristiani di Aleppo, insieme ad altri siriani, lo consumava come alimento principale. Il problema non è che gli ebrei di Aleppo lo mangiassero, ma che oggi è identificato come cibo “ebraico” o “israeliano”.

Lo chef Yotam Ottolenghi a New York nel 2014 (AFP)

Ottolenghi e Tamimi sostengono che i tentativi di rivendicare la proprietà della cucina e dei piatti «sono inutili perché poco importa». Ma a chi non importa – agli israeliani che commercializzano la cucina palestinese rubata spacciandola come propria, o ai palestinesi che sono privati ​​della possibilità di rivendicare i propri piatti in un contesto occidentale favorevole a Israele?

Il furto della cucina palestinese e siriana da parte degli israeliani è diventato un fenomeno così normalizzato, data la sua proliferazione nei libri di cucina mediorientali e nei ristoranti “israeliani” in Europa e Nord America, che i palestinesi vengono molestati se aprono ristoranti che si riferiscono al proprio cibo come palestinese. Un famoso ristorante palestinese di Brooklyn si è recentemente lamentato di molestie online da parte di persone che non erano mai state al ristorante, ma che erano motivate dall’ostilità anti-palestinese. Il proprietario ha detto in un’intervista ai media che anche chiamare il suo ristorante “palestinese” lo aveva esposto a potenziali molestie.

Presunzione razzista

Poi c’è l’affermazione che gli ebrei originari dei paesi arabi costituiscono la metà della popolazione di Israele, e che di conseguenza hanno il diritto di reclamare il cibo della regione tanto quanto i palestinesi. Ma questo si basa sulla presunzione razzista che l’intera regione araba, dal Marocco all’Iraq allo Yemen, abbia un’unica cucina. In effetti, la maggior parte degli ebrei arabi in Israele proviene dal Marocco, dallo Yemen e dall’Iraq, aree del mondo arabo che hanno le loro cucine regionali.

C’è solo un numero esiguo di ebrei siriani e libanesi che vivono in Israele, costituendo “uno dei gruppi di origine più piccoli” del paese. Ma anche se la maggior parte degli ebrei israeliani provenisse dalla Grande Siria, come si potrebbe parlare di cibo siriano o palestinese “ebraico”, per non parlare di “israeliano”, se non ricorrendo al furto coloniale?

La maggior parte degli arabi è giustamente indignata per il fatto che il loro cibo e la loro cucina siano diventati parte integrante dei tentativi di colonizzazione di Israele

Ottolenghi attribuisce a Roden il merito di aver aperto la strada a chef come lui. Secondo un recente articolo del New York Times, “Roden descrive la cucina degli ebrei siriani come sofisticata, abbondante, varia – e volutamente intricata e dispendiosa in termini di tempo”, come se gli ebrei siriani avessero una cucina diversa dai siriani cristiani o musulmani, il che non era il caso.

Mentre gli ebrei della Grande Siria, come i musulmani e i cristiani, hanno tutto il diritto di rivendicare i piatti siriani come propri su base nazionale o regionale siriana, non hanno il diritto di rivendicarli come piatti che appartengono agli ebrei e quindi commercializzarli come tale, con questi furti poi celebrati dai media europei e statunitensi come cucina nazionale “israeliana”.

Israele è diventato parte della regione attraverso la conquista coloniale. La maggior parte degli arabi è giustamente indignata per il fatto che il loro cibo e la loro cucina siano diventati parte integrante degli sforzi di colonizzazione di Israele.

 

Joseph Massad è professore di politica araba moderna e storia intellettuale alla Columbia University di New York. È autore di numerosi libri e articoli accademici e giornalistici. I suoi libri includono “Colonial Effects: The Making of National Identity in Jordan”,”Desiderando gli arabi; La persistenza della questione palestinese: saggi sul sionismo e sui palestinesi” e, più recentemente, “Sull’Islam nel liberalismo”. I suoi libri e articoli sono stati tradotti in una dozzina di lingue.

 

Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali”.