Sono stato interrogato abbastanza volte per sapere che le cose non stanno andando bene quando l’agente guarda il tuo passaporto e ti fa domande le cui risposte sono scritte nel passaporto stesso.
Fonte: english version
Di Miko Peled – 26 novembre 2021
Immagine di copertina: Questo fermo immagine non datato tratto da un video mostra l’arresto di Miko Peled da parte delle forze israeliane durante una protesta nella Palestina occupata.
GERUSALEMME — “Serve una cella per un ebreo”, gridarono in carcere i poliziotti israeliani alla guida del mezzo che mi aveva trasportato. L’ebreo a cui si riferivano ero io e la prigione era la famigerata “Muskobia”, nel cuore di Gerusalemme Ovest. Questa era stata la fine di una lunga e faticosa giornata iniziata con una protesta nel villaggio di Nabi Saleh in Palestina. Ero coperto di sudore, gas lacrimogeni, polvere e un po’ del disgustoso liquido putrido che l’esercito israeliano spruzza sui manifestanti.
Era una giornata calda e le mie braccia erano piene di lividi, il gomito e i polsi slogati dalle torsioni dei soldati durante l’arresto. Ma indipendentemente dal fatto che stavo protestando con i palestinesi, ero ancora un ebreo e quando fui trasferito in prigione per la notte le autorità avevano bisogno di assicurarsi che fossi in una cella per ebrei.
Sembra che il privilegio del bianco, inteso come colore della pelle, non svanisca nemmeno in situazioni del genere. Non che la cella per ebrei fosse una stanza al Marriott Hotel, tutt’altro. C’erano altri otto o dieci ragazzi, era così pieno di fumo di sigaretta che riuscivo a malapena a vedere da un’estremità all’altra della cella, e quando uno dei detenuti chiamò aiuto perché stava male lguardie non si mostrarono affatto preoccupate.
Sapevo però che la mia permanenza in cella si sarebbe limitata a 24-48 ore al massimo. Sapevo che avrei visto un giudice entro la fine delle prime 24 ore e che avrei avuto un avvocato prima ancora di raggiungere la stazione di polizia. Inutile dire che il mio interrogatorio avvenne in una stazione di polizia nell’insediamento locale, non in una prigione segreta dello Shabak (Shin Bet), o della polizia.
Mi furono letti i miei diritti e mi fu offerto un caffè e persino un panino. Non ero bendato, non fui picchiato, non ero incatenato, e ci volle un po’ prima che i soldati che mi avevano portato dentro si rendessero conto che avevano dimenticato di prendermi il cellulare, che ovviamente usai,appartandomi nei bagni, per informare la mia famiglia e i miei amici su dove mi trovavo .
Tutto questo avvenne diversi anni fa. Quello che avevo imparato dagli anni passati ad attraversare la Linea Verde dal lato privilegiato del muro al lato dove il privilegio non è disponibile, era che nessuna quantità di attivismo e di attraversamenti di questa linea potevano cancellare il privilegio bianco.
Solo di recente è stata aperta una crepa nell’armatura del privilegio bianco. Solo uno spiraglio, appena percettibile ad occhio nudo.
Un secondo controllo di sicurezza
Atterrato a Washington all’aeroporto Dulles, dopo una recente visita in Palestina, mi ero affrettato , come faccio sempre, verso la linea del Global Pass. Il Global Pass è un privilegio di cui si può usufruire e che consente un rapido e semplice ingresso negli Stati Uniti. Per riceverlo è necessario compilare un modulo, pagare e sostenere un colloquio presso un ufficio locale della sicurezza nazionale. Ho avuto questo meraviglioso privilegio per molti anni e mi semplificava molto la vita quando viaggiavo.
Tuttavia, dopo questo recente ritorno, qualcosa era cambiato. Dopo aver inserito il mio passaporto nella macchina, ho ricevuto un pezzo di carta che mi diceva di rivolgermi ad un agente. L’agente ha preso il mio passaporto, l’ha messo in una scatola sigillata e mi ha detto di portarlo in un’altra stanza. “Segui le indicazioni sul pavimento”, mi disse.
La linea mi condusse da un altro agente all’ingresso di un grande atrio. Ha preso il mio passaporto e mi ha mandato ad aspettare in una parte specifica del corridoio. Fu allora che mi venne in mente che stavo effettivamente attraversando un secondo controllo di sicurezza. Questo viaggio non era stato normale. Era il maggio del 2021, il mio primo viaggio in Palestina dopo il Covid, che avevo intrapreso a seguito dell’insolita rivolta che aveva avuto luogo in Palestina.
Nessun volo stava atterrando a Tel-Aviv perché le compagnie aeree temevano il lancio di razzi Qassam dalla Striscia di Gaza. Quindi, anche se il mio biglietto era per Tel-Aviv, ero stato dirottato ed ero volato a Istanbul; poi ad Amman, in Giordania; e da lì avevo proseguito via terra per arrivare in Palestina, un processo che non è né piacevole né conveniente e richiede un’intera giornata. Al mio ritorno negli Stati Uniti era stato lo stesso. Avevo dovuto viaggiare via terra fino ad Amman, in Giordania, e da lì volare via Istanbul fino a Washington.
Mentre ero seduto nella sala d attesa durante il secondo controllo, riflettevo su tutto questo e mi chiedevo se quello fosse il motivo del calvario. Davanti a me c’erano dei tavoli dove i passeggeri sistemavano i bagagli per l’ispezione. Su uno di essi, una donna di colore aveva posto la sua valigia e la sua borsa e un agente stava esaminando ogni singolo oggetto. Quando finì di ispezionare attentamente i suoi effetti personali, la guardò. La donna era evidentemente incinta e l’agente le chiese: “Il padre è tuo marito o il tuo ragazzo?”
Da quale località di Gerusalemme vieni?
Sono stato interrogato abbastanza volte per sapere che le cose non stanno andando bene quando l’agente guarda il tuo passaporto e ti fa domande le cui risposte sono scritte sul passaporto stesso. “Dove sei nato?” “Quali paesi hai visitato?” Questo è il motivo per cui c’è un passaporto , in modo che un addetto possa accertare personalmente queste informazioni.
“Sono nato a Gerusalemme”, risposi, come è indicato nel mio passaporto.
“Sì, ma quale zona o località di Gerusalemme?” chiese.
“Gerusalemme è una città”.
“Daccordo, non conosco bene la regione”, ribatté.
“Quali paesi hai visitato negli ultimi anni?”
L’elenco era lungo, ma quello che trovava più interessante era l’Iran. Fece alcune domande su cosa avevo fatto e dove ero andato, e di cosa avevo parlato durante le mie lezioni.
“Pace, amore e riconciliazione”, risposi.
Dopo l’interrogatorio arrivò l’ispezione dei miei effetti personali, ogni elemento e ogni pezzo di carta fu esaminato e dovette essere spiegato.
L’intera faccenda durò un paio d’ore. Non fu piacevole, ma non fu neppure la fine del mondo. Quello che mi sconvolse fu l’email che ricevetti il giorno seguente, che mi informava che il mio Global Pass era stato revocato così come il mio TSA Pre-Check (modulo di pre-verifica rilasciato dall’Amministrazione della Sicurezza dei Trasporti [TSA]).
Quindi ora, con un impedimento al mio privilegio, ogni volta che volo devo fare la fila con tutti gli altri, tirare fuori il mio portatile e, quel che è peggio, togliermi le scarpe.
Miko Peled è uno scrittore e attivista per i diritti umani, nato a Gerusalemme. È autore di “The General’s Son. Journey of an Israeli in Palestine” e “Injustice, the Story of the Holy Land Foundation Five”.
Traduzione di Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org