Le stime del numero totale di palestinesi fuggiti in Libano prima del 1948 e fino al 1950 sono tra i 110 e i 130mila rifugiati. Oggi il numero esatto dei palestinesi in Libano è sconosciuto.
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Zaher Abu Hamdah – 6 dicembre 2021
Umm Mohammad sentì parlare per la prima volta del Libano quando aveva nove anni, dopo che il loro vicino di Haifa le aveva detto che la sua famiglia era originaria della città libanese di Tiro. Improvvisamente, le cose presero una piega inaspettata e lei, insieme alla sua famiglia, divenne ospite dei parenti del loro vecchio vicino, Abu Ali.
Umm Mohammad racconta a Raseef22 la sua fuga a piedi dalla Palestina dopo l’invasione della sua terra da parte delle bande sioniste nel 1948, e parla degli orrori che ha dovuto vivere. Racconta tutto nei minimi dettagli come se fosse accaduto solo ieri e non circa 73 anni fa.
La famiglia di Umm Mohammad si diresse verso i confini settentrionali della Palestina, nella speranza che sarebbero tornati alle loro case dopo che l’Esercito di Liberazione Arabo avesse espulso coloro che in seguito sarebbero stati conosciuti come “israeliani”. O almeno così pensavano tutti.
Umm Mohammad descrive come vivevano in una casa nel cuore di Tiro, ma come suo padre decise di andare a Bint Jbeil, cittadina situata lungo il confine meridionale del Libano, per accorciare la distanza che avrebbero presto dovuto percorrere sulla via del ritorno a casa.
Ma le cose non andarono come pensavano. A Bint Jbeil, le autorità libanesi li costrinsero a salire con altri profughi prima su un autobus e poi su un treno e li portarono verso il confine siriano. Ma le autorità di Damasco negarono loro l’ingresso, così nel 1949 la famiglia si ritrovò nel campo profughi di Nahr al-Bared, vicino alla città di Tripoli, nel nord del Libano.
Con il crescente afflusso di palestinesi in fuga dalle bande sioniste, terrorizzati dai loro atti di violenza, la Croce Rossa Internazionale (ICRC) e l’organizzazione americana dei quaccheri istituirono campi per accoglierli. Per decisione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite venne creata l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e il lavoro per i rifugiati palestinesi (UNRWA), che si assunse la responsabilità di prendersi cura di coloro che erano stati costretti a lasciare la loro terra, fornendo loro cibo e servizi di soccorso. I palestinesi in Libano divennero rifugiati residenti su appezzamenti di terreno affittati dall’agenzia.
Abdelnasser al-Ayyi, direttore generale del “Lebanese Palestine Dialogue Committee” – un organismo governativo istituito nel 2005 che si occupa di politiche pubbliche che riguardano i rifugiati palestinesi in Libano e funge da collegamento centrale tra i rifugiati palestinesi e le istituzioni ufficiali e internazionali – sottolinea che “quella fase fu molto difficile per il paese ospitante, dato che aveva ottenuto l’indipendenza solo nel 1943 e le sue istituzioni non erano pronte ad ospitare 100.000 palestinesi e fornire loro i servizi necessari”.
I palestinesi non furono gli unici a riversarsi in Libano. Jaber Suleiman, un ricercatore palestinese indipendente in studi sui rifugiati, sottolinea che “decine di migliaia di libanesi che all’epoca lavoravano in Palestina furono sfollati insieme ai palestinesi, quindi il fardello era pesante”.
Suleiman racconta a Raseef22 della decisione del governo libanese di allestire campi profughi alla periferia delle città e non nelle campagne, al fine di beneficiare della manodopera qualificata palestinese, soprattutto perché un gran numero di rifugiati aveva le competenze di cui il Libano aveva bisogno, oltre al fatto che alcuni erano benestanti e avevano portato con sé denaro e oro.
Molti settori in Libano fiorirono con l’arrivo dei palestinesi, “soprattutto banche, industria, agricoltura e flussi commerciali”.
Ma poi iniziò l’emarginazione. Suleiman crede che “collocare i rifugiati in campi tagliati fuori dall’ambiente libanese e più simili a ghetti, sia stato l’inizio della prevedibile emarginazione dei palestinesi”.
Secondo Suleiman, le autorità libanesi concessero la cittadinanza a migliaia di palestinesi cristiani, in “chiara discriminazione settaria”, mentre “speciali decreti presidenziali concessero la cittadinanza a rifugiati ricchi e benestanti, indipendentemente dalla loro setta”.
Un passato che ha plasmato il futuro
Tornando a Umm Mohammad, si sposò negli anni Cinquanta e si trasferì nel campo profughi di Tal al-Zaatar, a est di Beirut. Dice: “La vita andò avanti e il campo divenne qualcosa che assomigliava a una fattoria, circondato da barriere con un cancello che un soldato sorvegliava, consentendo l’ingresso ad alcuni e rifiutandolo ad altri”. Aggiunge che “l’uomo del secondo ufficio (l’intelligence dell’esercito libanese) era solito arrestare e torturare chiunque volesse e impediva alle donne di accedere all’acqua e ai bagni (pubblici)”.
Parlando di quel periodo, Jaber Suleiman afferma che “durante l’era del presidente Fouad Chehab il Libano divenne uno stato di polizia, e questa stretta sulla sicurezza includeva tutti, ma era particolarmente grave per i rifugiati, quindi c’era repressione ed emarginazione, anche se gli anni Sessanta videro una qualche ricchezza dovuta al contrabbando e al trasferimento di fondi dai Paesi arabi, fondi che furono investiti in banche o in interessi privati, oltre al lancio da parte della borghesia palestinese di molti progetti”. Suleiman fa riferimento a un rapporto dell’Alto Comitato Arabo datato 18 dicembre 1959. Il rapporto affermava che il valore dei fondi trasferiti ai palestinesi in Libano era equivalente a “tre volte l’intero budget annuale del Libano”.
Gli effetti cumulativi dell’emarginazione e della pressione della sicurezza sui campi palestinesi, insieme alla crescente influenza delle organizzazioni palestinesi e alla loro crescente tendenza all’azione militare contro Israele dopo la sconfitta del 1967, spinsero i rifugiati a condurre una “rivolta popolare” che portò alla firma dell’Accordo del Cairo nel 1969 tra il Libano e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), sotto gli auspici del presidente egiziano Gamal Abdel Nasser. L’accordo prevedeva “il diritto di lavorare, risiedere e spostarsi” per i palestinesi residenti in Libano, “l’istituzione nei campi di comitati locali formati da palestinesi per prendersi cura degli interessi dei residenti” e l’istituzione di centri per la lotta armata palestinese per gestire la regolamentazione e la definizione della presenza di armi nei campi, oltre a “consentire ai palestinesi residenti in Libano di partecipare alla resistenza palestinese”, intraprendendo operazioni contro Israele dal Libano.
Così, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina ottenne un’ampia influenza all’interno del Libano, che in seguito aumentò con l’arrivo di un folto gruppo di combattenti espulsi dalla Giordania dopo essersi scontrati con l’esercito giordano nel settembre del 1970.
Umm Mohammad ricorda come suo marito e suo fratello si fossero uniti ai campi di addestramento del movimento “Fatah” nella regione di Arqoub, a sud del Libano. “Durante quei momenti, riconquistammo la nostra dignità e i rifugiati divennero combattenti per la libertà”, ha detto.
Il segretario generale delle fazioni dell’OLP in Libano, Fathi Abu al-Aradat, ha spiegato a Raseef22 che “i rifugiati vissero un periodo difficile prima che l’organizzazione fosse presente in Libano, e subivano un’oppressione deliberata”, osservando che il i campi si erano poi trasformati in “un serbatoio umano contro l’occupazione”. Ha anche affermato che “i palestinesi condivisero la lotta con il popolo libanese, ma gli appartenenti alla destra libanese e i partiti regionali li respinsero, con gravi ripercussioni”.
Umm Mohammad ricorda come, negli anni ’70, suo marito e suo fratello si unirono ai campi di addestramento del movimento “Fatah” nel sud del Libano. “In quel momento abbiamo riconquistato la nostra dignità e i rifugiati divennero combattenti per la libertà”
Il popolo libanese si divise tra coloro che sostenevano la lotta per la libertà palestinese e coloro che vi si opponevano sulla base del fatto che le loro azioni violavano la sovranità libanese e sottoponevano il Libano ad atti di rappresaglia israeliana. Anche tra i cristiani crebbe la paura dell’influenza dell’OLP in Libano, fatto che con l’aumentare delle tensioni peggiorò le cose.
Con lo scoppio della guerra civile libanese, la divisione divenne molto più chiara: il Movimento Nazionale Libanese (LNM) – composto da partiti di sinistra e nazionalisti – e il suo alleato, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, si scontrarono con il regime libanese e ciò che era, al tempo, denominata “destra libanese” , composta da partiti cristiani.
Il conflitto tra le due parti trascinò i campi profughi al centro dello spargimento di sangue. Uno dei risultati incluse l’assedio del 1976 e la distruzione del campo profughi di Tal al-Zaatar, che si trovava vicino ai quartieri cristiani. Umm Mohammad racconta questo capitolo della sua storia dicendo che “odiava il colore rosso a causa di tutto il sangue”. Fu sfollata ancora una volta e si diresse al campo profughi di Shatila a Beirut, dove abitava suo figlio mentre studiava medicina all’Università araba di Beirut.
Ma la sfortuna la raggiunse ancora una volta. Nel 1982 Israele assediò Beirut ovest, provocando l’espulsione dei combattenti dell’OLP dal Libano. I campi profughi palestinesi furono lasciati senza protezione e nel settembre dello stesso anno ebbe luogo l’orribile massacro di Sabra e Shatila. Il massacro venne compiuto per mano delle forze israeliane e di gruppi del “Partito Libanese Kataeb” e dell’”Esercito del Libano del Sud” (milizia pro-Israele di Lahd), durò tre giorni e lasciò centinaia di palestinesi e libanesi trucidati.
Umm Mohammad dice di essere stata “fortunata” perché al momento del massacro non era a Shatila, poichè sua sorella aveva insistito perché lei e i suoi figli restassero a casa sua nel campo profughi di Burj al-Barajneh. Tuttavia, subì le conseguenze del massacro quando si imbatté nei corpi delle vittime mentre cercava il marito scomparso, che ritrovò con un amico nella zona di Tariq el-Jdideh, e quando perse la casa, situata alla periferia del campo devastato.
In seguito all’uscita dell’OLP dal Libano, i rifugiati palestinesi vennero sottoposti a condizioni molto difficili. “Ci fu una sorta di vendetta israeliana e libanese contro i civili”, dice Suleiman. Forse la più grande difficoltà che dovettero affrontare avvenne durante i tre anni della “guerra dei campi” che ebbe luogo dal maggio 1985 al luglio 1988 tra il movimento Fatah nei campi profughi palestinesi di Beirut e il movimento Amal, sostenuto dalla Siria e guidato da Nabih Berri, oltre ad alcune fazioni palestinesi appoggiate da Damasco. Queste battaglie portarono alla fine completa e totale dell’influenza palestinese in Libano.
Forse la più grande difficoltà che i palestinesi dovettero affrontare avvenne durante i 3 anni della “guerra dei campi” iniziata nel maggio 1985 tra Fatah e il movimento Amal sostenuto dalla Siria e guidato da Nabih Berri, che pose fine all’influenza palestinese in Libano
Abdelnasser al-Ayyi afferma che la guerra civile libanese, così come i suoi eventi e conflitti, sono ancora molto presenti nella memoria del popolo libanese e palestinese, e “nonostante la rimozione delle divisioni, il suo fardello è ancora pesante sia nel conscio che nel subconscio di entrambe le parti”. Al-Ayyi sottolinea come “il rapporto dei libanesi con i palestinesi iniziò con un’ondata di simpatia, ma con la guerra civile e li si accusò di averla causata”, e come dopo la fine della stessa ” sui palestinesi si imposero condizioni derivanti dalla loro sconfitta”.
Ahmad Abdel Hadi, rappresentante del movimento Hamas in Libano, afferma che “la sofferenza dei palestinesi in Libano e la loro deliberata emarginazione da parte dello Stato libanese risale al passato, senza che ci sia uno sguardo verso il futuro. La guerra civile è finita, ma le sue ripercussioni no».
Leggi e pratiche emarginanti
Il marito di Umm Mohammad morì durante la Guerra dei Campi, durante l’assedio del campo profughi di Burj al-Barajneh. Fu costretta a trasferirsi nel campo profughi di Ain al-Hilweh, a vivere con sua figlia. Attualmente è circondata dai suoi figli e nipoti in una casa di tre piani che ha un disperato bisogno di ristrutturazione, ma le autorità libanesi rifiutano l’ingresso di materiale da costruzione nei campi profughi nel sud del Libano per motivi di sicurezza, dice.
Afferma che “non ha avuto una sola bella giornata da quando ha lasciato Haifa; spero che i bambini vedranno giorni migliori di quelli che abbiamo avuto noi”.
Ma il suo desiderio sembra irrealistico. Suo nipote Ahmad è sposato e ha due figli, ma non lavora regolarmente. Ha perso il lavoro in una fabbrica di materie plastiche due anni fa, dopo che il datore di lavoro aveva deciso di ridurre il numero dei dipendenti “senza fornire alcun compenso o preavviso prima del licenziamento arbitrario”.
Se la attuale realtà dei rifugiati palestinesi continua, porterà all’implosione della società. Quindi “la questione dei diritti è nell’interesse del Libano più che dei palestinesi, perché stabilizza la questione palestinese e ne impedisce la detonazione”
Al-Ayyi afferma che “la sofferenza di un palestinese in Libano inizia con l’assenza della sua ‘personalità giuridica’. Le autorità lo riconoscono come rifugiato, ma quando si tratta di leggi e quando viene portato davanti alla magistratura, non ha né identità, né personalità giuridica. A volte viene trattato come uno straniero, a volte come un apolide, a volte come un cittadino arabo. In quanto tale, non c’è alcuna interazione in cui diritti e doveri siano effettivamente chiariti, quindi viene privato dei suoi diritti umani fondamentali, e questo fa sì che perda il sentimento di appartenenza al Libano, mentre acquisisce un sentimento di apprensione permanente riguardo al futuro, poiché per lui non vi è giustizia. Insomma, vive ai margini della legge perché la sua presenza non è legata alla normativa legale».
La legge sul lavoro libanese emanata nel 1946 stabilisce che i palestinesi debbano ottenere un permesso di lavoro, o che venisse loro applicato il principio di reciprocità, e “questo non è possibile, perché non hanno uno Stato”, spiega Suleiman. Aggiunge poi che «la legge è stata modificata nel 2010 dal Parlamento, che ha tolto il principio di reciprocità, ma ha mantenuto la condizione di dover ottenere un permesso di lavoro».
Nel 1964 è stata emanata una legge che disciplina il lavoro degli stranieri (alias decreto n. 1756). All’articolo 9 del decreto si prevede che “il Ministro del lavoro e degli affari sociali, nel mese di dicembre di ogni anno, determini… i lavori e le professioni che il Ministero ritiene necessari per limitarli ai soli libanesi”. Ciò riguarda i palestinesi residenti in Libano, spiega Suleiman, “e, di conseguenza, ai rifugiati è vietato esercitare professioni riservate al popolo libanese, e queste professioni possono essere cambiate su base annuale a seconda delle indicazioni del ministro designato. Pertanto, il numero di professioni specificamente vietate ai palestinesi è ancora sconosciuto, poiché può variare tra i 38 e i 70 a seconda della discrezione del ministro e della sua decisione annuale”.
Ci sono anche professioni, come medicina, legge, farmacia e ingegneria, di cui la legislazione limita la pratica, così come un palestinese non può far parte dei sindacati, perché i loro regolamenti interni e regole di procedura richiedono che i loro membri siano libanesi o abbiano la nazionalità di un paese che abbia con il Libano un accordo di reciprocità.
Suleiman lamenta che “non ci sono studi sufficienti per spiegare il ruolo palestinese e i suoi contributi all’economia libanese, sapendo che il lavoratore palestinese è competente, spende il suo stipendio in Libano e non lo trasferisce all’estero. I rifugiati non sono un peso, ma sono piuttosto agenti di sviluppo se adeguatamente impiegati. Attualmente i palestinesi lavorano nel mercato nero per salari bassi senza alcuna assicurazione sanitaria o copertura previdenziale”.
Ahmad aiuta suo zio, un dentista, a organizzare e programmare gli appuntamenti dei pazienti nella sua clinica nel campo profughi di Ain al-Hilweh. Suo zio medico incarna l’ennesimo problema di cui soffrono i palestinesi in Libano, poiché è loro vietato aprire alcuni negozi e professare alcune attività, compresi ambulatori medici, al di fuori dei campi profughi. Il dottor Khaled vorrebbe poter trasferire il suo studio nella città di Sidone: “I prezzi e le spese sono diversi ora, e potrei vivere lavorando solo nel mio studio, senza dover lavorare sotto falso nome per un medico libanese o in varie cliniche per guadagnare un po’ di soldi”.
Il dottor Khaled, come molti altri medici palestinesi, lavora nelle istituzioni libanesi con l’identità di un medico libanese, avendo concordato in precedenza di condividere tra i due il profitto risultante. In sostanza, il medico libanese presta il suo nome per poche ore e guadagna soldi senza dover lavorare.
La lunga lista di restrizioni imposte ai rifugiati palestinesi include l’impossibilità di acquistare una casa fuori dal campo profughi e, se lo fanno, devono registrarla con il nome di un libanese, essendo a loro vietato possedere una casa o un terreno intestandoseli.
Prima del 2001, un palestinese aveva il diritto di possedere proprietà, aveva diritto a possedere della terra ed era trattato come un cittadino arabo, ma ciò cambiò con l’emanazione della legge n. 296, che modifica alcune sezioni e articoli della “Legge sull’acquisizione di diritti immobiliari da parte di stranieri in Libano”.
Suleiman spiega che questa nuova legge arrivò in seguito al “progetto economico” del defunto primo ministro Rafik Hariri, volto ad aumentare gli investimenti stranieri per l’acquisto di beni immobili, cosa che spinse alcuni partiti libanesi a respingerlo con il pretesto che incoraggiava i palestinesi a possedere proprietà. Così sidecise di privarli di tale possibilità, loro che già erano senza un Paese. I palestinesi, anche se non esplicitamente citati, sono quelli a cui ci si riferisce nella legge con il pretesto di combattere la naturalizzazione [tawteen]”.
La predetta legge prevede che “Nessun diritto reale di alcun genere può essere acquisito da chi non è titolare di una cittadinanza rilasciata da uno Stato riconosciuto, né da alcuno se tale acquisizione è in contrasto con le disposizioni della Costituzione relative al divieto di insediamento [Tawteen]”. A causa di ciò, sono sorti una miriade di problemi legali per molti palestinesi che avevano acquistato immobili prima che la legge fosse emanata.
L’elenco delle restrizioni non si ferma qui. Suleiman aggiunge che “un palestinese in Libano è sottoposto a pratiche razziste, privato del suo diritto di circolare liberamente, con posti di blocco dell’esercito libanese situati all’ingresso della maggior parte dei campi, mentre fuori dai campi profughi è soggetto a sospetti di sicurezza in conformità con la profilazione dei palestinesi. Inoltre non beneficia del patrocinio legale concesso ai libanesi che non possono sostenere le spese dell’assistenza legale, ed è soggetto al divieto di viaggio a causa delle fluttuazioni politiche”, come avvenne con una decisione emessa dal Ministro della Interni nel 1994 (abolita nel 1998) che impediva ai palestinesi con documenti di viaggio libanesi di rientrare dopo che il governo libico aveva rescisso i loro contratti di lavoro e li aveva espulsi per motivi politici. La decisione prevedeva anche il divieto per i rifugiati palestinesi di entrare o uscire dai confini libanesi senza un permesso speciale, anche se erano muniti dei documenti di viaggio rilasciati dalla Sicurezza generale libanese.
Suleiman cita anche la discriminazione che viene praticata contro gli studenti palestinesi nelle università e negli istituti che richiedono esami di ammissione, poiché “la maggior parte di queste istituzioni non li accetta affatto, anche se superano i test, a causa del modo in cui al loro interno i partiti politici libanesi si dividono il corpo studentesco».
Sottolinea anche che “gli ospedali governativi non ricevono pazienti palestinesi senza un previo accordo contrattuale con l’UNRWA, e questo accade raramente”.
Armi in cambio di diritti?
Le stime del numero totale di palestinesi fuggiti in Libano prima del 1948 e fino al 1950 sono tra i 110 e i 130mila rifugiati. Oggi il numero esatto dei palestinesi in Libano è sconosciuto. Mentre “The Palestine Strategic Report” redatto dal “Al-Zaytouna Center for Studies and Consulations” indica che il numero di rifugiati palestinesi registrati presso l’UNRWA all’inizio del 2019 era di circa 534.000, un rapporto intitolato “Population and Housing Census in the Palestine Camps and Gatherings in Lebanon 2017” suggerisce altri risultati. Il progetto, preparato sotto l’egida del Comitato di dialogo libanese-palestinese (LPDC), in collaborazione con l’Amministrazione centrale libanese di statistica (CAS) e l’Ufficio centrale di statistica palestinese (PCBS), indica che il numero di rifugiati palestinesi ha raggiunto il numero di circa 175.000.
Questa discrepanza nelle cifre pone molteplici problemi, in particolare con l’afflusso di 100.000 palestinesi dalla Siria dopo il 2011. Circa 25.000 di questi sono ancora in Libano. Non sono stati in grado di migrare o tornare ai loro campi e alle loro case in Siria a causa di ostacoli legali o di sicurezza.
Questi numeri, distribuiti tra 12 campi e 156 comunità nelle regioni libanesi, hanno reso “l’ambiente dei campi favorevole all’illegalità. In essi, armi e droga dilagano in quanto le leggi libanesi non tengono conto della privacy palestinese, ma anzi ne incoraggiano addirittura la violazione”, secondo al-Ayyi.
Abdel Hadi lega “le ragioni di questa insicurezza e realtà sociale nei campi profughi agli alti tassi di disoccupazione e povertà di oltre l’80% dei suoi abitanti, e al fallimento dell’UNRWA nello svolgere le sue missioni di soccorso e nel fornire servizi, creando così un ambiente favorevole alla droga e al terrorismo”.
Pertanto, il “Comando d’azione palestinese congiunto”, che comprende fazioni e forze palestinesi con orientamenti diversi, ha lavorato per formare comitati di sicurezza nei campi profughi, il tutto in coordinamento con i servizi di sicurezza libanesi. Inoltre, “i palestinesi sono stati in grado di risparmiare ai campi qualsiasi forma di sfruttamento all’interno dei circoli libanesi o durante la guerra siriana, poiché sono neutrali e non interferiscono mai negli affari libanesi”, afferma Abu al-Aradat.
La gestione autonoma dei loro campi risale al 1969 e agli Accordi del Cairo, che prevedevano l’istituzione di comitati per la cura degli interessi dei loro residenti, noti come “Comitati del popolo”. Nonostante la risoluzione del suddetto accordo avvenuta nel 1987, lo stato libanese non entra nei campi profughi e continua a trattare con questi comitati come una sorta di “autorità di fatto”.
Abdel Hadi afferma che le relazioni libanese-palestinesi sono “basate su interazioni di sicurezza, niente di più, mentre i palestinesi vogliono che siano globali. Erano stati ottimisti con l’istituzione del “Comitato per il dialogo palestinese libanese”, sperando di aggirare l’interazione strettamente legata alla sicurezza e costruire relazioni politiche ed economiche, ma questo non è accaduto”.
D’altra parte, al-Ayyi indica che “il comitato è consultivo, non esecutivo, e sta lavorando su una questione spinosa e delicata. È stato in grado di rompere lo stallo, lavorare su alcune leggi e aiutare a ricostruire il campo profughi di Nahr al-Bared”, distrutto negli scontri del 2007 tra l’esercito libanese e l’organizzazione Fatah al-Islam. Ha inoltre potuto “presentare progetti di sviluppo nei campi profughi con finanziamenti di istituzioni e Paesi amici del Libano e della Palestina”.
Abu al-Aradat collega l’istituzione del comitato con il “percorso intrapreso dalla leadership palestinese nel 2005 per stabilire una migliore comunicazione con il governo libanese, lavorare verso una maggiore apertura, che nel 2008 ha portato alla ‘Dichiarazione della Palestina in Libano’, presentare scuse pubbliche per gli errori passati, aprire l’Ambasciata dello Stato di Palestina in Libano, il che significa che le relazioni tra i due stati sono diventate attive”.
Al-Ayyi attribuisce “l’incapacità del comitato di raggiungere un importante passo avanti nelle condizioni politicamente complesse del Libano e alle ricorrenti dimissioni dei governi “. Dice: “Consideriamo il comitato un punto focale tra Palestina e Libano, e stiamo cercando di istituzionalizzare la questione palestinese, ma le controversie partigiane si frappongono, soprattutto perché i partiti in parlamento sono divisi in due direzioni: la prima respinge completamente i palestinesi, mentre la seconda simpatizza con loro ma non è pronta a mettere la pratica sul tavolo per motivi interni”.
Da parte sua, Abdel Hadi critica la mancanza di membri palestinesi nel comitato e chiede l’istituzione di un ministero esecutivo per i rifugiati palestinesi, invece di mantenere un comitato che possa svolgere solo un’azione consultiva. Pensa che “la base fondamentale per il rifiuto di alcuni libanesi di concedere diritti ai palestinesi è il razzismo settario, niente di più, con alcuni partiti libanesi che lo esprimono esplicitamente”.
Nel 2018, il presidente palestinese Mahmoud Abbas affermò che “i palestinesi sono sotto la legge libanese e che non ci sono problemi a consegnare le armi allo stato e all’esercito che entra nei campi”. Secondo al-Ayyi, “il disarmo o la consegna delle armi aiuterà a smantellare la questione”, sebbene sia d’accordo con Abu al-Aradat che la questione dei diritti è una questione separata dalla questione sulle armi e che esse non sono collegate in alcun modo.
Spostamento o reinsediamento
Ahmad sta pensando di immigrare, anche se illegalmente, per raggiungere il fratello Mahmoud, entrato anch’egli illegalmente in Germania attraverso la Turchia cinque anni fa. Dice: ” In Libano non ci sono più opzioni, se non morire lentamente o correre dei rischi”.
Aggiunge che “Mahmoud si è laureato in economia aziendale presso un’università privata libanese ed è rimasto senza lavoro per tre anni. Abbiamo raccolto cinquemila dollari per farlo partire e ora ci manda soldi per sostenerci finanziariamente”.
Mahmoud non è l’unico ad essere immigrato illegalmente. Alcuni sono arrivati, altri sono tornati indietro. Non ci sono numeri chiari su questi “uccelli migratori”, come li descrive Abu al-Aradat, ma “ci sono campagne sospette organizzate da individui assunti per spingere all’emigrazione con l’aiuto di alcune ambasciate”
Un dialogo approfondito sull’immigrazione dei rifugiati palestinesi dal Libano e l’impatto della loro dispersione nel mondo sulla causa palestinese non è mai cessato. Abdel Hadi racconta di un “piano per spostare i rifugiati e reinsediare il resto sfruttando le circostanze attuali”. Dice: “Secondo le nostre informazioni, ci sono paesi pronti ad assorbire il loro numero, al fine di rimuoverli dalla Palestina, e questo coincide con le campagne per cancellare il ‘diritto al ritorno’ e cambiare lo status dei rifugiati”.
Lo stesso vale per l’idea di farli reinsediare in Libano. Il discorso politico libanese ruota spesso attorno al pericolo del cambiamento demografico, mentre nel discorso palestinese si parla di minare il “diritto al ritorno”. Tuttavia, “sono tutte scuse inconsistenti per negare ai rifugiati i loro diritti umani”, secondo Suleiman.
Negli ultimi due anni, la pandemia di Coronavirus e la crisi economica che affligge il Libano hanno esacerbato le sofferenze dei rifugiati. Quindi gli eventi politici che hanno seguito la rivolta dell’ottobre 2019 hanno ostacolato il lavoro per risolvere i problemi esistenti.
Al-Ayyi sottolinea che “il cambiamento nella prospettiva di garantire i diritti ai rifugiati palestinesi richiede un momento di intersezione interna ed esterna per risolvere questo problema cronico”.
Ritiene responsabili delle loro condizioni “i paesi occidentali che hanno enormi responsabilità nella difficile situazione dei palestinesi e che ora si rifiutano di aiutarli nelle loro crisi di sussistenza, come se stessero spingendo per la loro dispersione in paesi diversi”.
Alla luce di tutto ciò, i circoli politici libanesi e palestinesi non escludono che la situazione dei palestinesi porterà a un’implosione della società. Pertanto, al-Ayyi afferma che “la questione dei diritti è nell’interesse dei libanesi più che dei palestinesi, perché stabilizzare la questione palestinese significa impedirne l’implosione”.
Poiché i loro problemi variano e danno luogo a numerose valutazioni, i palestinesi continuano ad essere visti come “una carta da giocare con gli stranieri e con gli arabi”, come dice Umm Mohammad.
Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” -Invictapalestina