Ho riflettuto molto prima di decidere se tornare a Gaza per visitare mia madre malata, sapendo che il viaggio sarebbe stato pieno di sfide.
Fonte: english version
Abeer Ayyoub – 3 gennaio 2022
Immagine di copertina “Nella mia testa, ho rivissuto le umiliazioni che ho dovuto sopportare semplicemente perché sono nata a Gaza” (Illustrazione di Mohamad Elaasar/MEE)
Ho lasciato Gaza nel 2016, promettendo di non tornarvi mai più. All’epoca ero single, alla ricerca di un’istruzione migliore, di opportunità di lavoro e diritti fondamentali, compreso l’accesso all’acqua pulita, all’elettricità regolare, alla libertà di movimento, alla sicurezza e all’incolumità. Negli ultimi cinque anni ho vissuto tra Germania, Regno Unito, Giordania e Turchia.
Ma le cose sono cambiate quando all’inizio di quest’anno mia madre è risultata positiva al Covid-19 e ha subito un ictus debilitante. Solo allora ho iniziato a contemplare il ritorno a Gaza, la più grande prigione a cielo aperto del mondo.
Dopo avermi abbracciata, mia madre mi ha detto che era felicissima di avermi visto prima di morire
Ho passato diversi mesi a vagliare la decisione, difficile non solo per le mie responsabilità lavorative a Istanbul, ma anche perché ora sono mamma di un bambino di 20 mesi. Ho riflettuto senza sosta sulle mie opzioni, giorno e notte. A volte mi sentivo egoista; a volte mi sentivo debole; ma soprattutto, sentivo l’oppressione dell’assedio israelo-egiziano che ha reso la vita miserabile a due milioni di palestinesi a Gaza.
Lo scorso maggio, una nuova ondata di violenza iniziata a Gerusalemme ha rapidamente raggiunto Gaza, uccidendo più di 250 persone e ferendone altre centinaia. Dopo la fine della guerra, ho sentito che sarebbe stato un buon momento per andare, perché probabilmente non ci sarebbe stata presto un’altra esplosione del conflitto. Ho considerato se avrei dovuto tentare di arrivare a Gaza da Rafah, che è un processo complicato, o da Erez, che tende ad essere più veloce e più facile, ma richiede anche il permesso israeliano. Alla fine ho optato per Erez, presentando una domanda tramite il Ministero degli Affari Civili palestinese per due permessi: uno per me e uno per il mio bambino, Jumana.
Siamo stati “approvati” entro una settimana e ne sono stata felice. I permessi erano per il 30 ottobre, quindi abbiamo dovuto volare ad Amman la notte precedente per assicurarci di non perdere la nostra finestra per l’attraversamento. La mattina dopo, abbiamo lasciato il nostro hotel alle 9 e abbiamo attraversato tre posti di blocco ad Allenby Bridge: giordano, israeliano e palestinese. Al checkpoint israeliano, siamo stati ritardati di oltre quattro ore in mezzo a un gruppo di circa 70 viaggiatori diretti a Gaza.
Nuovi cumuli di macerie
Fuori dal checkpoint, dopo che i soldati israeliani ci avevano tolto passaporti e carte d’identità per paura che durante il viaggio potessimo “scappare” nella Cisgiordania occupata, un bus navetta ci ha aspettato per portarci al valico di Erez. Alle 14:30, l’autobus ha iniziato a muoversi verso Gaza. Jumana ha dormito per tutto il tragitto, finché non siamo finalmente arrivati al valico di Gaza alle 17:00, due ore prima della chiusura prevista.
Abbiamo trascorso un’ora e mezza a Erez, dove i nostri bagagli sono stati controllati dalle autorità israeliane, per poi passare a un checkpoint amministrato dall’Autorità Palestinese (AP), prima di raggiungere il checkpoint finale. Dopo aver fatto controllare i miei bagagli a quest’ultimo checkpoint alle 8 di sera, sono stato accolta da un ufficiale il cui sorriso mi ha detto che finalmente ce l’avevamo fatta.
Al nostro arrivo a casa della mia famiglia a Gaza City, tutti sono stati sorpresi e felici di vedere me – per la prima volta in cinque anni! – e il mio bambino, che non avevano mai incontrato. Dopo avermi abbracciata, mia madre mi ha detto che era felicissima di avermi potuto vedere prima di morire.
Il giorno dopo dovevo fare quello che fa ogni viaggiatore dopo essere arrivato a Gaza: fare domanda sia al valico di Rafah che a quello di Erez per aggiungere il mio nome all’elenco dei viaggiatori entro le successive due settimane. Non c’è mai alcuna garanzia che il tuo nome venga aggiunto.
Guardandomi intorno a Gaza, ho sentito che era sempre la stessa, come se fossi partita solo ieri. Ho capito quanto mi mancasse. Allo stesso tempo, dovevo imparare a ricordare il numero di ore di elettricità che ricevevamo in casa ogni giorno, in modo da poter gestire il bucato e le altre attività domestiche.
Gli unici grandi cambiamenti che ho riscontrato a Gaza sono stati i nuovi cumuli di macerie nel centro della città, dove gli aerei da guerra israeliani avevano colpito durante la recente offensiva militare. Era più difficile muoversi nell’area vicino a casa mia, poiché molte strade principali erano chiuse per lavori di sgombero delle macerie, ancora in corso mesi dopo la fine della guerra.
Ripetute umiliazioni
Una settimana dopo, fui sorpresa di trovare il mio nome elencato tra i viaggiatori al valico di Rafah per la settimana successiva. Era un preavviso molto breve; la gente di solito aspetta mesi prima di avere il permesso di viaggiare, ma mi è stato detto che la maggior parte di coloro che vivevano fuori Gaza se ne erano già andati, dato che era iniziata la scuola.
L’elenco è stato pubblicato tramite il sito web del ministero degli interni gestito da Hamas e molti amici mi hanno inviato screenshot del mio nome e di quello del mio bambino. A Gaza, tutti hanno il diritto di conoscere i tuoi piani di viaggio. Volevo rimanere più a lungo, ma ho ritenuto che fosse un rischio saltare la data programmata e iscrivermi di nuovo, quindi alla fine ho deciso di partire alla data programmata, il 14 novembre
La mattina dopo, mentre mi sedevo nella caffetteria dell’hotel con il mio bambino e sorseggiavo il caffè, le lacrime hanno cominciato a scorrere
Un giorno prima di partire, ho ricevuto una telefonata dal Ministero degli Affari Civili gestito dall’Autorità Palestinese, che mi diceva che mi era stato rilasciato anche un permesso israeliano per partire da Allenby Bridge. Ho scelto di tornare da lì, immaginando che il viaggio via Amman sarebbe stato più breve e più facile; non lo era. E viaggiare attraverso Erez significava che non potevo portare trolley, dispositivi elettronici o articoli da toeletta, in conformità con le restrizioni israeliane. Non ho idea del perché questi articoli non siano consentiti per i palestinesi, ma lo siano per persone di altre nazionalità che attraversano Erez.
Sulla strada per Amman, abbiamo dovuto passare attraverso la stessa serie di posti di blocco, e di nuovo, siamo saliti sul bus navetta dopo che i nostri documenti d’identità ci erano stati presi, per paura che qualcuno delle diverse dozzine di viaggiatori cercasse di “scappare” nella Cisgiordania occupata .
Non ci è stato permesso di scendere dall’autobus, nemmeno per usare il bagno; mi ha fatto pensare a come gli animali vengono trasportati attraverso le frontiere, e tale trattamento non dovrebbe essere accettabile nemmeno per gli animali. Alla fine sono arrivata nella mia stanza d’albergo ad Amman alle 21:30, completamente esausta.
La mattina dopo, mentre con il mio bambino ero seduta nella caffetteria dell’hotel e sorseggiavo il caffè, le lacrime hanno cominciato a scorrere. Nella mia testa, ho rivisto le umiliazioni che avevo dovuto sopportare semplicemente perché sono nata a Gaza. Se c’è così tanta preoccupazione che i palestinesi di Gaza vogliano “scappare” in cerca di una vita migliore, le autorità statali non dovrebbero concedere loro una vita dignitosa, piuttosto che lasciarli soffrire a Gaza?
Abeer Ayyoub è un giornalista palestinese di Gaza. Ha lavorato lì come giornalista freelance per cinque anni, prima di trasferirsi nel Regno Unito per una borsa di studio accademica presso l’Università di Oxford. Attualmente risiede ad Amman, dove sta studiando nuovi media in un programma di laurea magistrale.
Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” – Invictapalestina.org