Lo “sportwashing” viene associato a diversi Paesi, perché non a Israele?

L’obiettivo del soft power dello sport israeliano è di farci concentrare su una squadra di ciclismo o su una visita di Lionel Messi piuttosto che sulla Palestina.

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Jonathan Liew – lun 24 gennaio 2022

Immagine di copertina: Sylvan Adams con i membri del suo team Start-Up Nation al  velodromo di Tel Aviv nel giugno 2020. Foto: Emmanuel Dunand/AFP/Getty Images

Nell’estate del 2020 un gruppo di cinque ciclisti di Ramallah stava facendo un giro quando fu fermato da un gruppo di coloni israeliani. Secondo Reuters, dopo aver scoperto che i ciclisti erano palestinesi, i coloni iniziarono a scagliare pietre contro di loro. Quattro riuscirono a fuggire in un campo vicino. Uno, Samer Kurdi,  perse l’equilibrio e venne ripetutamente picchiato con un’asta di metallo, riportando gravi ferite. Non è noto se siano stati effettuati arresti.

Lo scorso novembre, per Chris Froome e i suoi colleghi della squadra ciclistica Israel Start-Up Nation, mentre attraversavano le colline della Giudea in un giro di allenamento le strade della Cisgiordania occupata sono risultate  essere  un luogo molto più sicuro. I media di lingua inglese erano stati fatti arrivare  in aereo in Israele e hanno avuto pieno accesso alla squadra durante il suo primo campo in Israele dal 2019. La squadra e i suoi followers sono stati trattati con un’ospitalità di lusso, con pomeriggi  in spiaggia ed escursioni in kayak. Ma del resto Israel Start-Up Nation – il team alle prime armi rilanciato la scorsa settimana come Israel-Premier Tech – ha sempre conosciuto il valore di disporre di una buona strategia di PR.

Peter Sagan è stato uno dei suoi primi ambasciatori e il reclutamento di altri top rider come Froome, Sep Vanmarcke e Dan Martin ha contribuito a far crescere la sua reputazione sportiva. Ma il sostenitore più entusiasta della squadra è il comproprietario miliardario Sylvan Adams, un sedicente “ambasciatore generale per lo Stato di Israele” che vede nello sport un mezzo per rafforzare la posizione del paese tra le critiche diffuse sui suoi precedenti in materia di diritti umani, trattamento dei palestinesi e continua violazione del diritto internazionale.

È stato Adams a proporre l’audace offerta di 9 milioni di sterline per ospitare l’inizio del Giro d’Italia nel 2018, la prima parte di un investimento senza precedenti nello sport internazionale. Lo stesso anno ha costruito il primo velodromo olimpico della regione, che ad agosto ospiterà i mondiali di atletica leggera. Nel 2019 Argentina e Uruguay sono stati a Tel Aviv per un’amichevole internazionale, così come il Paris Saint-Germain e il Lille lo scorso agosto per l’equivalente francese del Community Shield. All’interno della Fifa si parla anche di un’offerta congiunta per la Coppa del Mondo 2030 con Emirati Arabi Uniti e Bahrain.

Adams insiste sul fatto che Israel Premier-Tech è apolitico e non è un progetto del governo, sebbene riceva finanziamenti – una “quantità pietosamente piccola”, dice – dall’ente nazionale del turismo. E mentre Paesi del calibro di Bahrain, Emirati Arabi Uniti e Kazakistan sponsorizzano tutti i team del World Tour, nessuno è stato così aperto o esplicito sui suoi obiettivi di soft power. “Siamo percepiti come una zona di guerra qui in Israele, come uno stato in conflitto”, ha detto Adams. “Vogliamo che il team aiuti a conoscere la storia di cui non si sente parlare”. Ron Baron, l’altro comproprietario della squadra, lo descrive come una forma di “diplomazia sportiva”. Secondo Guy Niv, uno dei pochi ciclisti israeliani della squadra ed ex cecchino dell’esercito, ogni ciclista sa che “essendo in una squadra israeliana, è ambasciatore del paese”.

Il ciclista Alaa al-Dali a Rafah, Palestina. Fotografia: Suhaib Salem/Reuters

Quando ci riferiamo allo sportswashing, il tentativo degli stati-nazione di “lavare” la propria reputazione e riciclare i propri crimini, c’è un certo tipo di paese a cui di solito pensiamo. Non abbiamo problemi a collegare i molteplici abusi del Qatar o dell’Arabia Saudita o della Cina ai loro investimenti nello sport. Eppure sembra esserci una certa schizzinosità nel riferirsi a Israele in termini simili, anche se i suoi obiettivi sono dichiarati in modo ancora più esplicito e i suoi crimini sono ben documentati dai gruppi per i diritti umani.

L’obiettivo principale della diplomazia sportiva israeliana è che nel sentire il ​​nome del paese, non si pensi a nulla di tutto ciò. Non si pensi ai posti di blocco militari o ai bombardamenti di Gaza o all’occupazione palestinese, o semplicemente ai palestinesi. Si penserà invece alle spiagge dorate, ai cocktail sul tetto, a Lionel Messi e Chris Froome immersi in un tramonto glorioso. “La maggior parte delle persone non si occupa di politica”, ha detto Adams. “Attraverso eventi culturali e sportivi di livello mondiale, possiamo raggiungere la maggioranza silenziosa”.

Ma se si apre un po’ la porta, si trovano tutti i classici tropi dello sportwashing: la negazione, il disprezzo, la curiosa miscela di incredulità e aggressività. “Questo è un paese pacifico, andate a molestare le persone che lavorano in regimi totalitari”, ha detto Adams al Cycling Weekly nel 2020 in risposta alle domande sulle violazioni dei diritti umani da parte di Israele. Nel frattempo, gli utenti di Twitter si sono affrettati a notare che nel periodo in cui è stato annunciato il trasferimento di Froome all’ Israel Start-Up Nation, la sua foto su Twitter – una fotografia del Giro in cui tra la folla sono visibili alcune bandiere palestinesi– è stata silenziosamente cancellata.

Per molti versi il ciclismo è il partner ideale per lo sportwashing: uno sport senza una vera tradizione di attivismo politico, in cui le squadre a corto di soldi generalmente non si fanno troppi problemi sulla provenienza dei soldi. Ma c’è anche un’altra dimensione: per molti il ​​ciclismo è sinonimo di libertà, di strada aperta, di intima connessione tra l’uomo e la terra. Per i ciclisti palestinesi, che affrontano una sfida quotidiana di posti di blocco, blocchi stradali, violenze e difficoltà economiche, la bicicletta stessa è la loro forma silenziosa di resistenza. “È nostro dovere mantenere il nostro rapporto con questa terra”, ha detto al Guardian un ciclista palestinese di nome Sohaib Samara nel 2020. “Se smettiamo di muoverci, gli occupanti ne ruberanno di più”.

E così per Israele lo sport svolge una duplice funzione: sia rinforzo positivo che strumento di repressione. Nel marzo 2018, un promettente ciclista palestinese di nome Alaa al-Dali partecipò a una marcia a Gaza con la sua bicicletta, indossando la sua divisa da ciclista, per protestare contro il rifiuto di Israele di permettergli di viaggiare all’estero per partecipare a competizioni internazionali. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, un cecchino israeliano gli sparò a una gamba, che venne poi amputata dopo che la sua richiesta di lasciare Gaza per farsi curare venne respinta dalle autorità israeliane. Ora Alaa al-Dali gareggia come paraciclista.

 

Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” – Invictapalestina.org