Nel mezzo della normalizzazione con Israele, cosa resta delle relazioni tra i Paesi del Golfo e la Palestina?

Gli stati del Golfo hanno una complessa storia di impegni con la causa palestinese. Ora, i cambiamenti regionali li stanno costringendo a rivalutare il loro ruolo.

Fonte: english version

Di Katie Wachsberger  – 1 febbraio 2022

Immagine di copertina: manifestanti palestinesi bruciano una foto del sovrano del Bahrain Hamad bin Isa Al Khalifa, Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, 25 giugno 2019. (Abed Rahim Khatib/Flash90)

“Si parla molto di ‘tradimento’ dopo la normalizzazione, cosa che posso capire”, ha detto Abdulla Shareef, una giovane studentessa universitaria degli Emirati che studia in California. “Ma alla fine, il nostro Paese sostiene da decenni la causa palestinese, solo per vedere che i soldi finiscono nelle tasche di funzionari corrotti. Questo approccio non funziona e lo sanno tutti”.

In un momento di mutevoli dinamiche tra Israele, gli Stati del Golfo e i palestinesi, questi commenti riflettono un sentimento crescente all’interno del Golfo. A seguito degli accordi di normalizzazione con Israele firmati dagli Emirati Arabi Uniti e dal Bahrain nel 2020 (popolarmente noti come “Accordi di Abramo”), l’argomento delle relazioni tra la Palestina e il Golfo ha comunemente evocato denunce di tradimento, corruzione e manipolazione della causa palestinese. Ma dietro queste narrazioni si nasconde una storia più complessa di sviluppi economici, politici e culturali che ora sta emergendo in superficie, mentre le nazioni arabe del Golfo si avvicinano strategicamente a Israele.

Gli stati del Golfo, o “Khaleeji”, hanno una lunga storia di intervento politico e di sostegno finanziario a favore della causa palestinese. Ma ci sono anche profonde fonti di tensione che continuano ad alimentare  percezioni dell’altro basate su pregiudizi e conflitti irrisolti, dal livello governativo al pubblico più ampio. Queste opinioni sono risultate evidenti anche tra le persone intervistate per questo articolo: mentre molti palestinesi intervistati hanno fatto risalire il loro malcontento per le nazioni del Golfo al sostegno minimo dato da queste ultime ai rifugiati siriani e alla guerra nello Yemen, molti Khaleeji hanno citato la mancanza di riconoscimento o apprezzamento tra i palestinesi per il continuo aiuto e sostegno alla loro causa.

Osservazioni come quelle citate sopra sono indicative delle questioni più profonde alla base del recente progresso nella normalizzazione arabo-israeliana. Per comprendere i modi in cui questo processo ha influenzato le relazioni palestinesi con i membri del Consiglio di cooperazione del Golfo e come tali relazioni potrebbero svilupparsi nei prossimi anni, vale la pena esplorare i fenomeni storici e politici alla base dei dibattiti che interessano la regione

I Palestinesi nel Golfo

Il posto dei palestinesi nel Golfo è sempre stato precario. Da un lato, la numerosa popolazione palestinese che risiede negli stati del Golfo (per un totale di oltre 680.000 persone) ha goduto per decenni di una ricchezza di opportunità, influenza e prestigio nel settore privato, nell’istruzione, nei media e nel governo. Dall’altro, i palestinesi continuano a dover affrontare una notevole instabilità e incertezza riguardo al loro status, così come il razzismo sociale e istituzionale.

La maggior parte dei palestinesi nel Golfo risiede in Arabia Saudita (240.000 persone) e negli Emirati Arabi Uniti (200.000), con popolazioni più piccole in Kuwait, Qatar e Bahrain. Questa presenza palestinese nei ricchi paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (GCC) svolge un ruolo significativo nel sostenere l’economia della Palestina stessa, con circa 1,4 miliardi di dollari di rimesse che entrano ogni anno nei territori occupati, creando un rapporto di dipendenza finanziaria informale.

L’edificio del comune di Tel Aviv, alla fine di Piazza Rabin, illuminato con i colori della bandiera degli Emirati Arabi Uniti, il 13 agosto 2020. (Avhalom Sassoni/Flash90)

Sebbene i palestinesi abbiano sofferto della generale mancanza di infrastrutture e sostegno per i rifugiati e i richiedenti asilo nel Golfo, sono stati spesso beneficiari di un trattamento speciale a causa della natura ideologica della loro causa. Gli Emirati Arabi Uniti, ad esempio, non hanno una politica ufficiale riguardo ai palestinesi apolidi e quindi non integrano collettivamente i rifugiati palestinesi in un modo diverso dagli altri rifugiati in arrivo. Tuttavia, a molti rifugiati palestinesi è stata concessa la cittadinanza degli Emirati con decreto del governo o decisione reale per il loro contributo alla società, o per volere dello sceicco Zayed bin Sultan Al Nahyan, fondatore ed ex sovrano degli Emirati Arabi Uniti, noto per essere un convinto sostenitore della causa palestinese fino alla sua morte nel 2004.

Di conseguenza, oggi ci sono molti Emiratini in influenti posizioni di governo che sono di origine palestinese. Uno dei più importanti è il ministro di Stato Zaki Nusseibeh, che ha radici a Gerusalemme e Ramle.  E’ stato per molto tempo traduttore e interprete dello sceicco Zayed e dopo l’indipendenza dello stato nel 1971 gli è stata quasi immediatamente offerta la cittadinanza. Sebbene parli apertamente della sua città natale, Nusseibeh oggi non si identifica come palestinese in nessun forum pubblico o media, mostrando piena  fedeltà alla sua nazionalità adottiva.

In molte occasioni durante il suo regno, lo sceicco Zayed ha condannato l’inerzia della comunità internazionale riguardo all’occupazione israeliana e ha esortato le Nazioni Unite a trattare Israele secondo gli standard del diritto internazionale. Il sovrano degli Emirati ha anche sponsorizzato la costruzione del progetto abitativo di Sheikh Zayed City nella Striscia di Gaza per fornire residenza ai palestinesi rimasti senza casa dopo gli attacchi militari israeliani ed era noto per aver promosso relazioni d’affari con la comunità palestinese negli Emirati.

Una storia a scacchi

Parallelamente a questa parziale esperienza di benevolenza e sostegno, i palestinesi del Golfo hanno spesso affrontato il razzismo sistemico e la discriminazione da parte dei sistemi economici e sociali arabi locali, con sullo sfondo il timore di espulsioni arbitrarie costantemente in agguato.

“Siamo venuti per aprire la nostra azienda a Gedda e siamo volati prima in Bahrain”, ha spiegato un giovane imprenditore palestinese della Cisgiordania, che attualmente risiede in Arabia Saudita nel tentativo di espandere la sua attività nella penisola; ha chiesto di rimanere anonimo per evitare ulteriori interazioni discriminatorie. “Nessuno – nessun negozio né consolato – ci permetterebbe di stampare il visto che ci è stato concesso, dicendo che non c’è modo che una società palestinese della Cisgiordania abbia effettivamente ricevuto il permesso di aprire la sua sede in Arabia Saudita”.

Un punto di svolta significativo per questi atteggiamenti, e nelle relazioni CCG-palestinesi più in generale, fu la Guerra del Golfo del 1990. Nei due anni precedenti, e nel bel mezzo della Prima Intifada, il presidente dell’OLP Yasser Arafat aveva perso la faccia tra molti dei suoi sostenitori per aver accettato di riconoscere Israele nel 1988, in parte come strategia per ingraziarsi gli Stati Uniti. Per rettificare la sua posizione, il presidente dell’OLP si avvicinò al presidente iracheno Saddam Hussein, nella speranza che l’allineamento con la retorica anti-occidentale di quest’ultimo avrebbe rafforzato la sua popolarità interna. Il sostegno militare dell’Iraq all’OLP durante gli anni ’80 portò Arafat a credere ulteriormente che Hussein sarebbe stato un alleato più affidabile degli stati del Golfo.

Palestinesi camminano vicino a un murale raffigurante il defunto leader palestinese Yasser Arafat a Rafah, nella striscia di Gaza meridionale, 11 novembre 2020. (Abed Rahim Khatib/Flash90)

Durante l’invasione irachena del Kuwait nel 1990, Arafat esortò la Lega Araba a bloccare l’intervento occidentale. “Il nostro lavoro oggi è trovare una soluzione araba non internazionale. Se optiamo per la soluzione internazionale, la mappa della regione non rimarrà com’è ora”, affermò il leader palestinese. Hussein inviò persino una lettera scritta a mano a Washington offrendo di ritirare le sue forze dal Kuwait quando “tutte le questioni dell’occupazione israeliana saranno risolte”, unendo il sostegno alla liberazione palestinese con le proprie ambizioni territoriali. Molti analisti indicano questa alleanza come il punto di rottura nell’unità regionale araba attorno ai palestinesi.

Dopo la breve guerra, tra molti governi del Golfo la percezione della causa palestinese si era inasprita. Il Kuwait espulse oltre 400.000 palestinesi come punizione collettiva per la posizione dell’OLP con l’Iraq. Funzionari sauditi  dichiararono che l’OLP non avrebbe ricevuto ulteriore assistenza finanziaria dagli stati del Golfo, sebbene gli aiuti continuassero a fluire attraverso vari canali. La memoria di questo scisma storico gioca ancora un ruolo importante nel discorso dei Khaleeji sulla sfiducia nei confronti dei palestinesi.

Le ricadute dell’invasione del Kuwait portarono gli stati del Golfo a una maggiore disponibilità  per quanto riguardava le potenziali opportunità di impegno con Israele nel caso in cui la questione palestinese  si fosse dissolta.. Dal 1976 l’Arabia Saudita ha svolto un ruolo di mediazione attiva nel conflitto israelo-palestinese, cercando di trarre vantaggio dalla risoluzione del conflitto. A seguito degli accordi di Oslo, tuttavia, molti altri paesi del Golfo normalizzarono informalmente le relazioni con Israele, creando legami commerciali e di sicurezza che furono mantenuti anche quando gli accordi fallirono.

Aiuti in calo

Anche se i paesi del CCG si sono lentamente avvicinati a Israele, a porte chiuse i palestinesi hanno continuato a ricevere sostegno finanziario dal Golfo attraverso vari meccanismi. Una quantità significativa di aiuti sauditi, emiratini e kuwaitiani, ad esempio, è stata incanalata nell’agenzia per i rifugiati palestinesi UNRWA.

Il Qatar, dal canto suo, ha trasferito miliardi di dollari di aiuti per le necessità quotidiane di Gaza, in particolare dall’inizio della divisione Hamas-Fatah e del blocco Israele-Egitto, con l’approvazione di Israele e il coordinamento del Mossad. Il ruolo del Qatar a Gaza è stato sia umanitario che politico, due ambiti che spesso si sovrappongono nel contesto palestinese, poiché gli aiuti sono usati come strumento per affermare la propria influenza e consolidare le alleanze.

Palestinesi della città di Rafah, nel sud di Gaza, ricevono razioni alimentari mensili da un centro di distribuzione dell’UNRWA, 23 gennaio 2017. (Abed Rahim Khatib/Flash90)

Il Qatar Development Fund, ad esempio, contribuisce con ingenti fondi sia alle infrastrutture pubbliche che ai progetti di sviluppo a sostegno del popolo palestinese a Gaza, nonché ai pagamenti diretti ai funzionari e ai progetti del governo di Hamas. Questa differenza di approccio per quanto riguarda il sostegno a entità che rifiutano l’intervento occidentale nella regione, è una delle numerose ragioni alla base delle gelide relazioni tra il Qatar e il blocco saudita.

Nel corso degli anni la questione di come trasferire in modo sicuro ed efficace i fondi del Golfo in Palestina ha dovuto affrontare diverse sfide. Ad esempio, i sauditi hanno fornito a lungo un significativo aiuto finanziario ai palestinesi utilizzando capitali provenienti da enti governativi, banche, fondi filantropici e persino campagne telethon. Il Fondo di sviluppo saudita gestito dal governo, istituito a metà degli anni ’70, ha trasferito miliardi di dollari di aiuti alla leadership palestinese e all’UNRWA nel corso dei decenni. Tuttavia, altre iniziative del governo, come il Comitato per l’Intifada di Al Quds, sono state accusate dagli Stati Uniti di sostenere la violenza e il terrorismo tra i palestinesi.

Il collegamento tra le accuse di finanziamento al terrorismo e il sostegno dell’Arabia Saudita alla causa palestinese, potrebbe influenzare il suo percorso di normalizzazione con Israele. In effetti, gli atti del Regno nei confronti di Israele possono essere visti in parte come un tentativo di riparare il danno arrecato alle sue relazioni con Washington a causa del suo coinvolgimento nella guerra in Yemen e del famigerato assassinio del giornalista saudita Jamal Khashoggi. Ciò è considerato particolarmente cruciale in quanto i nuovi governanti sauditi stanno cercando di attrarre maggiori investimenti occidentali nel paese.

In generale, il flusso di denaro del Golfo in Palestina attraverso questi vari meccanismi è diminuito. Il sostegno del Golfo all’UNRWA è calato in modo significativo negli ultimi due decenni, portando i rappresentanti dell’UNRWA a chiedere maggiori aiuti agli stati arabi, anche durante una conferenza del 2007 in Bahrain. La decisione dell’amministrazione Trump nel 2018 di sospendere tutti i finanziamenti statunitensi per l’UNRWA ha lasciato l’organizzazione zoppicante, mentre le ricorrenti accuse di corruzione interna hanno portato vari paesi donatori a interrompere il loro sostegno.

Il presidente palestinese Mahmoud Abbas vicino alla guardia d’onore fuori dal suo ufficio nella città di Ramallah, in Cisgiordania, 12 gennaio 2010. (Issam Rimawi/Flash90)

Anche i finanziamenti diretti degli stati arabi all’Autorità Palestinese (AP) sono diminuiti drasticamente, con Riyadh in testa: da 265,5 milioni di dollari nel 2019 a soli 40 milioni nel 2020, con un calo dell’81,4%. Le ragioni di questo calo, presente in misura minore anche riguardo gli aiuti degli Emirati Arabi Uniti, rimangono poco chiare. Alcuni affermano che questa mossa sia stata in ossequio all’amministrazione Trump, con l’ex presidente che richiedeva esplicitamente che i paesi ricchi del Golfo riducessero il loro sostegno finanziario all’Autorità Palestinese; altri vedono tali cambiamenti come collegati all’interesse di questi paesi per la normalizzazione. Al contrario, l’AP ha rifiutato di accettare l’assistenza medica degli Emirati, trasportata in aereo attraverso Israele, poiché facilitata dalle relazioni sempre più normalizzate con quest’ultimo.

Questi aspri sentimenti rimangono saldamente rivolti all’Autorità Palestinese, come mi ha detto un funzionario del governo degli Emirati in un’intervista privata: “La pace si fa tra i governi, non tra le cause”. Il funzionario ha inoltre sottolineato che la simpatia della sua nazione per la lotta palestinese non cambia la natura del governo, che in definitiva è il partner negoziale.

La politica  Khaleeji nell’arena palestinese

Attraverso il loro coinvolgimento finanziario e non, gli stati del CCG hanno stabilito relazioni uniche con la leadership e la causa palestinese, spesso proiettando le loro rivalità sull’arena palestinese o contendendosi l’influenza al suo interno.

In effetti, il conflitto diplomatico tra Arabia Saudita e Qatar – iniziato nel 2017 e parzialmente placatosi nell’ultimo anno – è stato spesso visibile nel sostegno della prima all’AP e nel patrocinio della seconda ad Hamas, due fazioni che rimangono rivali nonostante i casi di “falsa unità ” seguiti alla firma degli Accordi di Abraham. Tuttavia, dopo la revoca del blocco saudita al Qatar, a dicembre il presidente palestinese Mahmoud Abbas è stato accolto a Doha nonostante il continuo sostegno della piccola nazione ai suoi rivali politici, con l’anziano leader che ha elogiato il sostegno di Doha alla causa palestinese.

Notevoli sono anche i precedenti tentativi della leadership saudita di moderare il conflitto israelo-palestinese. Nei primi anni Ottanta i sauditi furono i primi membri della Lega Araba a offrire una completa normalizzazione regionale in cambio di una giusta soluzione al conflitto. Il “Fahd Eight Point Peace Plan”, proposto nel 1981, si è sviluppato nelle Risoluzioni di Fez l’anno successivo e successivamente nell’Iniziativa Abdullah (più comunemente nota come Iniziativa di pace araba) offerta nel 2002 e nel 2007; tutti questi piani erano basati sulla creazione di uno stato palestinese lungo i confini precedenti al 1967 con Gerusalemme Est come sua capitale.

Gli studiosi hanno affermato che questi tentativi di moderazione dimostrano i tentativi del regno di mantenere sia la sua influenza regionale che la sicurezza nazionale, consolidando al contempo una relazione reciprocamente vantaggiosa con gli Stati Uniti che mirano a “elaborare una strategia antiterrorismo comune”. Basandosi su queste manovre, il “Deal of the Century” di Trump nel 2020 ha presentato una visione di risoluzione dei conflitti in cui il regno avrebbe svolto un ruolo centrale.

Tuttavia, l’Arabia Saudita cerca continuamente di assicurarsi che qualsiasi informazione sui suoi incontri o collaborazione con i funzionari israeliani rimanga sotto tono, pur mantenendo una posizione ufficialmente pro-Palestina che potrebbe consentire ai suoi leader di svolgere un ruolo di mediazione tra le due parti, e di continuare ad agire come leader sociale e politico della regione.

Il principe saudita Al-Walid bin Talal al suo arrivo al Muqata’a Compound durante una visita ufficiale a Ramallah nella Cisgiordania occupata, 4 marzo 2014. (Issam Rimawi/Flash90)

Nel frattempo, le relazioni tra l’Autorità Palestinese e gli Emirati Arabi Uniti hanno subito un duro colpo dopo che questi ultimi hanno sviluppato uno stretto rapporto con l’ex capo della sicurezza di Fatah, Mohammad Dahlan. Acerrimo oppositore di Abbas, Dahlan ha trovato rifugio ad Abu Dhabi dopo il suo esilio da Ramallah nel 2011. Questa offerta di rifugio a Dahlan è stata interpretata da alcuni analisti come una mossa emiratina volta a sfidare l’influenza del Qatar a Gaza, dove Dahlan aveva costruito la sua base di supporto; altri affermano che Dahlan potrebbe essere stato uno degli architetti degli Accordi di Abraham, che sperava di utilizzare per promuovere i propri interessi economici e mettere alle strette il suo rivale Abbas.

Dall’esilio Dahlan ha finanziato progetti di sviluppo e filantropici, in particolare a Gaza ea Gerusalemme est, aggravando ulteriormente le tensioni con Abbas. Data la sua posizione controversa, Dahlan è stato descritto dai sostenitori di Hamas e Fatah come un agente canaglia del Mossad o di altri attori esterni che cercano di intervenire a favore di Israele.

Normalizzazione e oltre

Nell’ultimo decennio, le relazioni GCC-palestinesi sono diventate ancora più complesse. Le rivolte del 2011 in tutta la regione hanno reindirizzato l’attenzione delle nazioni del GCC a preservare il controllo interno e le alleanze politiche che favoriscono lo status quo autoritario. In quanto tali, i governanti del Golfo hanno distolto l’attenzione dalla questione palestinese adottando varie tattiche di liberalizzazione e aumentando la sorveglianza per mantenere la stabilità, preoccupati dalla minaccia di brutali guerre civili e della radicalizzazione religiosa seguita a molte delle rivolte.

Le relazioni del Golfo con Israele, al contrario, sono aumentate. Gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrain, l’Oman, l’Arabia Saudita e persino il Qatar si stanno muovendo o si sono già mossi verso relazioni completamente normalizzate con Israele. Il governo israeliano, a sua volta, ha portato avanti con successo gli sforzi per influenzare l’opinione pubblica del Golfo contro la causa palestinese e la sua leadership, promuovendo al contempo Israele come centro economico e turistico per i cittadini e le imprese del Golfo.

Il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, il Ministro degli Affari Esteri del Bahrain Dr. Abdullatif bin Rashid Al-Zayani, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il Ministro degli Affari Esteri per gli Emirati Arabi Uniti Abdullah bin Zayed Al Nahyan partecipano alla firma degli Accordi di Abraham, su il South Lawn della Casa Bianca, 15 settembre 2020. (Foto ufficiale della Casa Bianca di Shealah Craighead)

Diversi incidenti pubblici hanno ulteriormente inasprito la percezione pubblica dei palestinesi nel Golfo. Nell’aprile 2020, ad esempio, sui social media è stata lanciata una campagna con l’hashtag “#Palestine_is_not_my_cause” dopo che un fumettista palestinese in Europa aveva pubblicato una caricatura di un cittadino saudita inseguito da un barile di petrolio, alludendo alla dipendenza del regno dal petrolio e dal suo potenziale destino di fronte al calo dei prezzi del petrolio a causa degli effetti della pandemia di COVID-19.

Ciò scatenò una massiccia ondata di sentimento anti-palestinese tra gli utenti sauditi dei social media, portando molti ad accusare i palestinesi di ingratitudine. L’incidente  fu rapidamente concluso con le scuse ufficiali dell’Ap. Gli sforzi per allentare tali tensioni hanno incluso donazioni all’UNRWA nel 2019, quando l’organizzazione fallì a causa del sostegno interrotto dall’amministrazione Trump e l’istituzione di consigli d’affari congiunti designati per mostrare un sostegno continuo al successo economico palestinese.

Gli attacchi israeliani del maggio 2021 contro i palestinesi a Gerusalemme est e a Gaza sono stati condannati dai leader delle nazioni del Golfo, ma ciò non ha influito sul costante progresso delle relazioni commerciali o della cooperazione in materia di sicurezza. L’esplosione di violenza, tuttavia, ha suscitato un’ondata di sentimento pro-palestinese tra i cittadini del GCC e gli espatriati, inclusa la rimozione dei prodotti israeliani dagli scaffali dei grandi fornitori al dettaglio.

Diversi mesi dopo, Majed Faraj, capo della Forza di sicurezza preventiva dell’Autorità Palestinese, ha visitato il padiglione palestinese all’Expo di Dubai. In tal modo, è diventato il primo funzionario dell’AP a recarsi negli Emirati Arabi Uniti dopo agli Accordi di Abraham. Faraj ha anche incontrato il sovrano di Dubai Sheikh Mohammed bin Rashid al-Maktoum.

Mentre i funzionari dell’Autorità Palestinese hanno espresso interesse a inaugurare una nuova era di relazioni, per molti altri sembra che la normalizzazione dei legami tra Israele e il mondo arabo porrà fine alla soluzione dei due stati, che a sua volta emarginerebbe ulteriormente l’Autorità Palestinese. Mentre la lotta palestinese per uno stato all’interno dei confini precedenti al 1967 si trasforma sempre più in una lotta per la democrazia in un unico stato per ebrei e palestinesi, potremmo iniziare a assistere a ridefinizione delle relazioni tra le nazioni del CCG e la Palestina.

Katie Wachsberger è una ricercatrice associata al Forum for Regional Thinking specializzata nel GCC, con particolare attenzione alle relazioni Israele-Golfo e al discorso orientato alle riforme in Oman, negli Emirati Arabi Uniti e in Arabia Saudita. Lavora come consulente con enti del settore privato e ONG che cercano di esplorare reti più ampie del GCC attraverso il coinvolgimento con la questione palestinese e guida varie iniziative ambientali regionali. Katie ha un master alla Ben Gurion University sulla riforma dei contratti sociali tra gli intellettuali dell’Oman.

 

Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente  uguali” -Invictapalestina.org