Sulle orme dei nostri antenati amorrei ed edomiti globalizzati, il gusto e la cucina palestinese continuano ad ampliarsi e svilupparsi all’interno del mercato globalizzato contemporaneo.
Fonte: english version
Di Ali Qleibo – febbraio 2022
Gli archeologi ci informano che a Megiddo, seimila anni fa, i nostri antenati amorrei avevano un debole per le banane importate dall’Africa orientale e per i dolci il cui impasto era speziato con vaniglia, cannella, curcuma e coriandolo dall’India, olio di soia e fave dalla Cina. La loro dieta quotidiana includeva proteine e una vasta gamma di cereali come ceci, lenticchie e semi di sesamo. I nostri cosmopoliti antenati amorrei apprezzavano anche i melograni, l’uva, i pistacchi e le mandorle. Il pane era il loro alimento principale: lo impastavano e lo cuocevano. Secondo gli archeologi ortodontici, il calco fossile sui denti degli uomini dissotterrati nel luogo di sepoltura di Megiddo non contiene tracce né di zeit (olio d’oliva) né di za’atar (miscela di erbe e semi di sesamo): non erano ancora di moda. L’olio d’oliva, poi, veniva utilizzato esclusivamente per l’unzione rituale!
Contro ogni previsione, i palestinesi moderni hanno lo stesso aspetto dei nostri antenati amorrei che a loro volta nei cromosomi Y del maschio avevano fenotipi caucasici e natufiani dominanti. Questi gruppi di alleli ereditati sono alla base di tratti comunemente condivisi che includono pelle chiara, capelli lisci e chiari e occhi colorati. Le comunità palestinesi isolate di Yatta e Samu’ mostrano la carnagione chiara, gli occhi color ramato e i capelli lisci, così come raffigurati nelle incisioni dei templi egizi antichi, mentre i beduini di Al-Naqab, per deriva genetica, mostrano gruppi di alleli natufiani amorrei che, tra i molti altri tratti, includono peli scuri sul viso e mento appuntito, che i genetisti sono ben addestrati a isolare e definire come rappresentanti del nostro fenotipo genetico ereditario.
La continuità genetica che portiamo in relazione ai nostri antenati smentisce il mito secondo cui i palestinesi hanno sempre condiviso stili di vita, tipi di abitazioni o tradizioni culinarie identici. L’identità culturale non è fissa ma, piuttosto, il patrimonio materiale e immateriale sono prodotti dinamici di continui adattamenti ecologici a risorse sempre mutevoli. In effetti, l’uniformità dei palestinesi di oggi, soprattutto in cucina, è uno sviluppo moderno piuttosto recente. Il moderno, tra l’altro, non esclude l’autenticità. L’identità è un sottoprodotto della vita sociale; è un processo dinamico e legato all’ambiente. Avere una visione statica dell’identità culturale significa aspettarsi che i palestinesi vivano la loro vita in un museo del patrimonio culturale a Megiddo, Debir o Aijalon seimila anni fa, a Yebus o Gabaon quattromila anni fa, a Gaza, Beit Jibrin o Subeita duemila anni fa, o a Nablus e a Gerusalemme duecento anni fa! Individuare un luogo e un tempo come un punto di riferimento a cui fissare l’identità palestinese è un enigma nei cui termini si dissolve la ricerca nostalgica e romanzata dell’ideale.
Nel corso della storia, le cucine palestinesi sono state un dominio collettivo amministrato dalla matriarca all’interno della fratria, di cui l’hamula, la famiglia allargata di quattro generazioni, costituiva l’unità sociale. Nelle abitazioni rupestri, fino alla Nakba, un certo numero di hamula della stessa fratria condividevano la stessa grotta. La cucina era collettiva, il cibo immagazzinato e la cucina erano controllati dalla madre dei fratelli e dalla loro prole di tre generazioni che condivideva la singola grotta. Ogni hamula, era posizionata sulla propria sahwah (dais, una piattaforma elevata), circondata da pecore, capre, asini e cammelli sottostanti. All’interno della sottofratria, la matriarca sovrintendeva alla cottura e amministrava la raccolta della legna e il trasporto dell’acqua. Le ricette allora avevano poco attinenza con il cibo consumato nelle città. Inoltre, nel periodo mamelucco e primo ottomano, il cibo da asporto di Gerusalemme, del Cairo o di Aleppo era una pratica comune, con mercati speciali dove i cuochi avviavano le loro imprese. Solo i ricchi mercanti, gli ulama (i guardiani, i trasmettitori e gli interpreti della conoscenza religiosa nell’Islam, comprese la dottrina e la legge islamiche) e gli emiri potevano permettersi lo spazio per una cucina e gli utensili da cucina. Lo stesso valeva per la balneazione, da qui la pletora di stabilimenti balneari pubblici nelle città arabe!
La cucina palestinese, uno dei simboli più sacri della famiglia, ha subito grandi cambiamenti prima di raggiungere il suo status contemporaneo. Dalla sua tradizionale collocazione spaziale al di fuori dell’area giorno/notte, quasi alla pari con la “dependance”, si è spostata nel soggiorno, con il sogno americano che ha sopraffatto l’immaginazione palestinese. La cucina/soggiorno è diventata una caratteristica architettonica popolare, modernista e contemporanea di molte case locali. Ben diversa dalla cucina della prima metà del Novecento, quando lo spazio cottura, la cucina, era relegato in una parte remota, quasi separata della casa, accanto al bagno. Sia il bagno che la cucina erano designati come “impuri” e l’entrata e l’uscita richiedevano di infilarsi apposite pantofole (da qui la sopravvivenza del lavamani fuori dal bagno, retaggio della tradizionale opposizione binaria del crudo/cotto e del puro/ impuro (tahara/najaseh). Ci si poteva lavare le mani senza entrare nel bagno. Di ritorno dal mercato (impurità) o da un funerale (impurità maggiore), il padre doveva entrare in casa attraverso la porta della cucina. Si lavava le mani nel lavandino e poi procedeva nello spazio abitativo.
La cucina si trasferì in casa solo negli anni Cinquanta quando le abitazioni si ingrandirono e quando le camere da letto divennero architettonicamente separate dai soggiorni. Con l’aumento del tenore di vita, alla cucina venne assegnato un proprio spazio architettonico all’interno della casa. Il mio amico, Abd el Latif Bargouthi, mi ha riferito che anche allora suo padre, nella sua nuova casa costruita a Kufor Ein, alla fine degli anni ’50, non aveva voluto né la cucina, né il bagno sotto lo stesso tetto. Entrambi erano relegati in uno spazio annesso, ma esterno, diviso dall’area giorno/notte, con le rispettive porte che davano sull’esterno. Negli anni Sessanta e Settanta la cucina e il bagno si trasferirono nello spazio giorno/notte, ma era necessario utilizzare due paia di scarpe speciali, una per il bagno e una per la cucina. Negli anni Ottanta, l’intera opposizione binaria di puro e impuro crollò. L’introduzione della cucina/soggiorno all’americana segnò silenziosamente il passaggio dal vecchio mondo.
Sebbene tutti i palestinesi condividessero la comune separazione categorica di puro e impuro, le ricette che usavano differivano tra le popolazioni nomadi, rurali e urbane. Sebbene la “cucina” fosse concepita in modo diverso, le categorie simboliche di base definivano il simbolismo dello spazio in base alla funzione. Nella Palestina rurale non c’era una stanza specifica dove si lavassero i piatti o gli alimenti, niente acqua corrente e nessun impianto idraulico; la preparazione del cibo e la pulizia degli utensili da cucina venivano eseguite nel cortile della casa. Tradizionalmente il taboon (forno contadino) era una piccola costruzione circolare di pietre grezze ricoperte di argilla, costruita nel cortile di casa, la cui dimensione non superava i due metri quadrati e il cui combustibile era costituito da escrementi secchi di pecore. Tutta la preparazione dei pasti avveniva qui e vi veniva cotto il khubiz taboon (pane), l’alimento quotidiano. In effetti, il taboon può essere visto come un forno ed è indissolubilmente legato al musakhan, pollo cotto in olio d’oliva e cipolle caramellate, condito con sommacco e servito sul pane taboon. Un fuoco aperto, sotto un vecchio, grande albero, serviva per cucinare i vari tipi di stufato.
La mia prima visione della differenza radicale tra passato e presente e tra cucina contadina, beduina e borghese palestinese e la diversità dei gruppi sociali palestinesi è stata innescata dai ricordi nostalgici della mia amica Yasmine. Totalmente parigina per aspetto, lingua e cultura, ricorda con affetto la sua prima infanzia. Ramallah era un villaggio piccolo, polveroso e povero. Ricorda “l’attesa di quella prelibatezza speciale, il panino al kebab, che mio padre [il mukhtar di Ramallah ottant’anni fa] avrebbe portato dalla grande città. Tornava da Gerusalemme a cavallo del suo asino nel tardo pomeriggio, il kebab già freddo e raffermo, ma io lo mangiavo con grande gusto. La carne era riservata alle occasioni festive, ai matrimoni o alle feste speciali in cui si macellava un agnello”. Allora non c’erano né venditori di falafel né hummus. Za’atar, olio d’oliva e olive erano disponibili in abbondanza. Tutti cuocevano il pane nel taboon, nel cortile di casa.
Nel polveroso villaggio di Yasmine, il pasto quotidiano consisteva principalmente in verdure stufate e/o cereali servite in un grande vassoio di legno (batieh), in cui venivano intinti bocconcini di pane taboon. Gli alimenti base che dominano la cucina palestinese contemporanea, vale a dire yakhanee (carne in umido con verdure in varie salse) e mahashee (verdure ripiene), erano tipici della cucina borghese e si erano sviluppati sotto l’influenza turca. Le ricette turche furono tramandate attraverso matrimoni misti tra notabili locali e le élite dominanti ottomane e adattate al gusto locale. Questi standard urbani erano relativamente sconosciuti nelle campagne. Yasmine ha inoltre spiegato che a Ramallah “non conoscevano marmellate o conserve. Queste cose sono arrivate con tempo e denaro”. I contadini mangiavano i prodotti locali della terra. Gli stufati erano fatti di lenticchie, grano integrale (freekeh) o fagioli secchi che venivano cotti insieme a cipolle, porri, zucca o zucchine. Non si conoscevano i pomodori.
I pomodori, oggi un ingrediente essenziale nella cucina palestinese non solo nelle insalate, ma come base per la maggior parte dei mahashee o yakhanee, non furono introdotti in Palestina fino al 1870! Portati in Europa dai conquistadores del Sud America nel XVI secolo, fiorirono nel giardino all’italiana come una pianta ornamentale colorata con palline dorate. I pomodori originali erano infatti di colore giallo dorato. Solo dopo decenni di sperimentazione hanno acquisito la dimensione che oggi conosciamo, il colore rosso, e sono diventati commestibili. Mangiare i pomodori in un periodo in cui i piatti erano per lo più di peltro era pericoloso, si ossidavano e l’impasto era velenoso. I pomodori arrivarono in Palestina come pianta commestibile solo alla fine del XIX secolo. Sostituirono prugne, albicocche e mele cotogne usualmente utilizzate nella preparazione degli stufati.
La modernità implicava la dissoluzione delle categorie alla base dell’estetica tradizionale. La mia generazione ha assistito all’omogeneizzazione della cultura palestinese e, come corollario, alle reminiscenze nostalgiche di come era la vita di un tempo. Lo sviluppo socioeconomico in Palestina è stato parallelo all’urbanizzazione dei beduini e dei contadini e alla standardizzazione della cucina palestinese. Il processo di cambiamento aumentò rapidamente in seguito agli sconvolgimenti politici ed economici della seconda parte del Novecento. La Nakba, la diaspora palestinese, il Golfo, gli Usa e il corollario afflusso di denaro contante hanno dissolto gli stili di vita tradizionali e distintivi dei consumatori. Nel deserto, in campagna e in città, ogni casa ha preso a cucinare lo stesso tipo di cucina e ogni famiglia a mangiare lo stesso cibo!
La rottura con lo stile di vita tradizionale e l’emergere della moderna identità nazionale palestinese trovano la loro piena espressione nelle nostre cucine: mangiamo tutti lo stesso cibo preparato in una cucina quasi uniforme. Da Khan Yunis nella Palestina meridionale a Ein al-Duke nella Valle del Giordano, tutti i palestinesi cucinano e mangiano lo stesso cibo. Uno stile di vita suburbano contemporaneo ha sostituito i tre rigidi sistemi culturali: beduino, contadino e urbano.
I beduini sono diventati sedentari e si sono trasferiti in case di cemento con cucine moderne. Le tende sono arrivate ad assumere un valore decorativo, una questione di prestigio. Qua e là si intravede il tannour, il fuoco aperto su cui è appoggiata una teglia di metallo simile a un wok per la cottura del pane. La zootecnia prospera. Pastori e pecore punteggiano il paesaggio. Le donne beduine preparano ancora le tradizionali palline di formaggio, burro e yogurt essiccato (jmeed) per cucinare il mansaf (carne di agnello cotta in una salsa densa di yogurt e servita su pane sottile, cosparsa di pinoli tostati o mandorle). Si possono ancora vedere donne beduine in attesa dei mezzi pubblici sulle autostrade mentre trasportano i loro prodotti domestici da vendere a Gerusalemme, Gerico, Ramallah e Nablus.
Oggi ad Al-Naqab le donne beduine lavorano a fianco degli uomini. Entrambi impiegano molto tempo nel pendolarismo. Per soddisfare il bisogno di un pasto abbondante quotidiano, in tutta Al-Naqab il cibo da asporto è diventato una prassi comune. Molte donne hanno allestito cucine per fornire pasti tradizionali da asporto per la coppia che lavora. Le stesse imprese abbondano a Gerusalemme e Ramallah, Gaza e Nablus. In alcune famiglie la moglie si sveglia presto al mattino e prepara gli ingredienti del pasto che prepara e cucina appena torna a casa dal lavoro. I prodotti surgelati aiutano a risparmiare tempo; il maftoul viene venduto congelato come la maggior parte delle verdure. In alternativa, nuovi prodotti esteri sono diventati comuni: pizze, cotolette e hamburger surgelati, noodles Indomie…. Nei ristoranti, fettuccine e lasagne, sushi e ramen e Kentucky Fried Chicken hanno trovato il loro posto nel palato palestinese. Ovunque spuntano sempre più capsule di caffè espresso. La propensione per i dolci continua immutata con la cheesecake, la torta al cioccolato e nella pletora di bancarelle di crepes. Sulle orme dei nostri antenati amorrei ed edomiti globalizzati, il gusto e la cucina palestinese continuano ad ampliarsi e svilupparsi all’interno del mercato globalizzato contemporaneo. Il nostro palato rimane flessibile e aperto a nuovi sapori, consistenze e aromi!
Mentre guidiamo attraverso le nostre montagne, l’aroma del taboon aleggia ancora. Nella fresca brezza serale alla fine di una calda giornata estiva, l’odore dello sterco di pecora secco ha un effetto magico e calmante: siamo a casa. I villaggi sono diventati periferie tentacolari. I palestinesi contemporanei guardano le stesse soap opera satellitari e accedono agli stessi Yahoo e Google. Viviamo nelle stesse case, le arrediamo con gli stessi mobili e, soprattutto, mangiamo tutti lo stesso cibo. L’urbanizzazione della Palestina è diventata completa. È nata un’identità palestinese totalmente nuova e vitale. Contro ogni previsione, i palestinesi, sha’ab al-jabareen, eponimo per gli Amorrei, sono qui per restare.
Dr. Ali Qleibo: antropologo, ha tenuto conferenze all’Università Al-Quds, ha ottenuto una borsa di studio allo Shalom Hartman Institute ed è stato professore in visita all’Università di Tokyo e all’Università di Kyoto, in Giappone. In qualità di specialista in storia sociale palestinese e attraverso il suo lavoro presso il Centro di ricerca di Gerusalemme, ha sviluppato l’Itinerario del turismo sociale e musulmano palestinese. Il dottor Qleibo è autore di molti libri su Gerusalemme e la sua storia. Rinomato pittore ad olio, ha tenuto numerose mostre d’arte.
Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” – Invictapalestina.org