La prima volta che sono stata definita un “ebreo che odia se stesso” è stato quasi 15 anni fa da qualcuno che consideravo un caro amico. Mi ha ferito e confusa. 15 anni dopo non mi sono mai sentita più forte nella mia posizione di ebrea anti-sionista amante di sé.
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Di Leta Hirschmann-Levy – 24 febbraio 2022
Immagine di copertina: una donna palestinese lancia un sasso ai poliziotti di frontiera israeliani. (credit Shadi Hatem)
La prima volta che sono stata definita un “ebreo che odia se stesso” è stato quasi 15 anni fa da qualcuno che consideravo un caro amico. Non avevo mai sentito questo epiteto prima. Mi ha ferito e confusa. Perché dovrebbero descrivermi così? Perché sostenere i diritti dei palestinesi e mettere in discussione l’occupazione israeliana della Palestina dovrebbe farmi odiare me stessa? E cosa c’entra questo con il mio essere ebrea?
Quella di Israele e Palestina mi sembrava una situazione chiara. A quel tempo, non sapevo molto di quella storia, ma sapevo che Israele non esisteva prima del 1948 e che prima c’era solo la Palestina. Come poteva essere giusto togliere la Patria a persone che erano lì da secoli? E come potremmo non condannare tutti un tale atto?
15 anni dopo non mi sono mai sentita più forte nella mia posizione di ebrea anti-sionista amante di sé.
Sono cresciuta a New York. I miei nonni erano sopravvissuti all’Olocausto. Mi è stato insegnato “Mai Più”. Questa lezione, ho capito, doveva applicarsi a tutte le persone. Sono cresciuta guardando i miei genitori lottare per i diritti delle persone oppresse ed emarginate. Negli anni ’90 abbiamo boicottato Nike, per combattere lo sfruttamento nelle fabbriche e il lavoro minorile. Poco dopo la fine dell’apartheid sudafricano nel 1994, i miei genitori portarono me e i miei fratelli a vedere Nelson Mandela parlare alla sua prima apparizione a New York. Abbiamo marciato contro la guerra in Iraq nel 2003. Abbiamo manifestato per i diritti delle donne e contro la profilazione razziale che si stava verificando dopo l’11 settembre. I miei genitori sono stati arrestati numerose volte per aver lottato per ciò in cui credevano, anche contro la violenza della polizia e l’omicidio di Amadou Diallo. Sapevo che la necessità di lottare per l’uguaglianza e la giustizia per tutte le persone derivava inesorabilmente da ciò che ho imparato dai miei genitori e dai miei nonni. “Mai Più”.
Quindi, non è stato diverso quando sono arrivata all’università e mi sono unita a un gruppo studentesco antirazzista. Il primo invito all’azione a cui ho partecipato è stato quello di chiedere che l’università disinvestisse da Israele. Non avevo mai sentito nessuno parlare di disinvestimento prima di entrare a far parte di questo gruppo. Ma al primo anno della mia lezione di Introduzione alla Storia del Medio Oriente ho imparato che, a differenza delle mitologie sioniste che fuorviano la maggior parte degli americani su una terra senza popolo per un popolo senza terra, c’erano infatti milioni di palestinesi che vivevano lì, in quella che era chiamata Palestina. Appresi anche che quasi tre quarti di milione di queste persone erano state espulse dalle loro case e dai loro villaggi, e quelli che erano rimasti ora erano cittadini di seconda classe nella loro stessa terra. Quindi, ovviamente, dobbiamo difendere i loro diritti e le loro libertà.
Nel 2005 la società civile palestinese ha chiesto il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) internazionale di Israele. Eravamo in sette in questo gruppo studentesco antirazzista e avremmo seguito la sua linea. Non c’era ancora lo Students for Justice in Palestine (Studenti per la Giustizia in Palestina) nel campus a quei tempi; che sarebbe arrivato diversi anni dopo. Con il nostro piccolo ma impegnato gruppo abbiamo fatto del nostro meglio per mobilitare i membri della comunità. Abbiamo organizzato una manifestazione che, purtroppo, non ha ricevuto molta attenzione. Tuttavia, questa era per me una chiara questione antirazzista e anticolonialista. A 18 anni mi sono chiesta: perché questo problema non è stato maggiormente discusso nel campus?
Alcune cose sono cambiate negli ultimi 15 anni. Le università e i college negli Stati Uniti ora hanno molti gruppi come Students for Justice in Palestine e Jewish Voice for Peace. E il movimento BDS e il sostegno alla giustizia in Palestina si è diffuso in tutto il Paese.
Ciò che non è cambiato è che la critica a Israele o al sionismo è ancora spesso equiparata all’antisemitismo. Ciò che non è cambiato è il trattamento oppressivo, spesso brutale, dei palestinesi da parte di Israele e sostenuto dal governo degli Stati Uniti. Quello che non è cambiato nella mia mente, è che questo è ancora un problema evidente: quello che doveva essere “Mai Più” è tornato. Questa volta le ex vittime sono i carnefici.
Tra la mia educazione in una famiglia radicata nella giustizia sociale e la specializzazione in Studi Etnici al college, dove ho imparato è approfondito molto su razzismo, classismo, colonialismo e imperialismo, pensavo di avere una profonda comprensione dell’oppressione. Quindi, nel 2011, quando sono andata in Palestina, sentivo di essere preparata come poteva esserlo chiunque altro. Tuttavia, quello a cui ho assistito è stato assolutamente devastante.
Ciò che ho visto in Cisgiordania e a Gerusalemme era un vero sistema di apartheid. I palestinesi avevano carte d’identità che dicevano dove potevano e non potevano andare, con chi potevano e non potevano vivere. Dovevano passare attraverso i posti di blocco e venivano regolarmente molestati da soldati, coloni e israeliani che sostenevano l’occupazione. Erano esclusi dalle forniture d’acqua, non avevano libertà di movimento, diritti limitati di culto o di espressione e venivano spesso arrestati per quella che negli Stati Uniti chiameremmo “libertà di parola”. Ci sono strade che sono per “soli ebrei”. Ricordando l’era del “solo per bianchi” di Jim Crow negli Stati Uniti, i palestinesi sono murati, recintati e spesso le loro case vengono demolite e le terre prese. Nel 1948, almeno 750.000 palestinesi furono cacciati dalla loro terra, dalle loro case per creare lo Stato di Israele. La Nakba del 1948, o Catastrofe, era il risultato previsto del progetto di colonizzazione sionista, il cui scopo era creare uno Stato ebraico, Israele. Quelle espulsioni continuano oggi a Sheikh Jarrah e altrove. Questi non sono “sfratti” ma brutale furto di terra. Ed è uno dei tanti travestimenti che il colonialismo dei coloni indossa mentre epura e cancella il nativo.
Come affermato da Human Rights Watch nel 2021, e come recentemente dichiarato da Amnesty International nel febbraio 2022, entrambi in rapporti ben documentati, si tratta realmente di apartheid.
Gaza, con tutta la retorica orientalista e islamofoba impiegata per disumanizzare i suoi abitanti, è infatti la più grande prigione a cielo aperto del mondo. Gli abitanti di Gaza non hanno la libertà di andarsene se vogliono o se ne hanno bisogno. Sono in gran parte rifugiati costretti a lasciare le loro case in quello che oggi viene chiamato Israele. Non possono accedere liberamente ad acqua pulita, forniture sanitarie, materiale da costruzione, materiale didattico, i loro diritti di pesca sono limitati, non possono partire per matrimoni, funerali o studio. Bombardare una prigione a cielo aperto, bombardare scuole, ospedali, strade e moschee non è “autodifesa”, non importa quanti razzi vengono lanciati verso Israele. Non è “autodifesa” quando si è occupanti. E Israele ha uno degli eserciti più avanzati del mondo.
Ci viene detto che israeliani e palestinesi devono scendere a compromessi. Avremmo detto agli africani del Sud Africa che avrebbero dovuto scendere a compromessi durante il loro periodo di apartheid? Avrebbero dovuto accettare meno della piena uguaglianza? Avremo esitato a prendere una posizione inequivocabile contro l’apartheid sudafricano?
Si dice spesso che questo problema è “complesso” o “complicato”, ma non lo è. E se le mie radici ebraiche mi hanno insegnato qualcosa, in realtà è chiaro come il giorno. “Mai Più”. Per chiunque.
Quello a cui stiamo assistendo è una pulizia etnica. E come ebrea che sa esattamente dalla storia della mia famiglia che aspetto ha, dico che Israele non parla a mio nome. Il sionismo è razzismo. Lasciatemelo ripetere. Il sionismo è razzismo. Il progetto sionista è fondamentalmente legato alla disumanizzazione dei palestinesi, alla cancellazione della loro cultura, al furto delle loro terre, al loro sfollamento dalle proprie case; uno sforzo di colonizzazione in corso che li rende cittadini di seconda o terza classe nella migliore delle ipotesi e soggetti/abitanti confinati nella peggiore (come nel caso dei circa 5 milioni di palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza).
Non possiamo scegliere con quali comunità emarginate essere solidali se crediamo veramente nella libertà, nella giustizia e nella liberazione per tutti. Se ci siamo opposti alle fabbriche sfruttatrici e alla guerra in Iraq, se abbiamo marciato su Washington per i diritti delle donne, se ci siamo schierati per le vite degli afroamericani, la comunità AAPI (Asiatici Americani e Isolani del Pacifico nella Filantropia), per i diritti LGBTQIA+, allora dobbiamo difendere i palestinesi. Non si può avere a cuore la vita degli afroamericani e non essere favorevoli alla liberazione e alla libertà della Palestina. Nessuno è libero finché tutti non sono liberi.
Sono entusiasta di vedere quanto è cambiato e quanta più consapevolezza c’è ora rispetto a 15 anni fa, quando mi definirono per la prima volta un “ebreo che odia se stesso”. Ciò è senza dubbio dovuto al coraggio dei palestinesi e all’incredibile resistenza e organizzazione che sta avvenendo in Palestina e da parte dei palestinesi di tutto il mondo che stanno combattendo per la libertà. Possano tutti continuare a seguire il loro esempio e far crescere la nostra consapevolezza.
Il ben documentato sistema di apartheid in Israele/Palestina, il furto di terra, l’assedio, la violenza e il progetto sionista del colonialismo sono tutti attualmente è ampiamente in corso. È quindi imperativo continuare a capire più chiaramente come il sionismo sia intrecciato con la supremazia bianca e come la nostra lotta contro il razzismo negli Stati Uniti debba quindi estendersi a Israele. Che possiamo diventare più consapevoli nella nostra comprensione del sistema di apartheid di Israele e della necessità di spezzarlo. E possiamo continuare a lottare per vedere il giorno in cui i palestinesi non solo saranno liberati, ma riceveranno ciò che è loro dovuto. La loro patria. Senza muri. Senza permessi. Senza la violenza e il terrore che è il loro quotidiano.
Nel 2019 ho ricevuto la cittadinanza tedesca, dovuta a me per lo sfollamento e le atrocità perpetrate dalla Germania nazista alla mia famiglia durante l’Olocausto. Possa io vivere per vedere il giorno in cui i miei fratelli palestinesi, e tutti i palestinesi, potranno tornare nella loro Patria, riavere le loro case, i risarcimenti che gli spettano, la piena uguaglianza. E possiamo noi tutti vedere la loro umanità. Ricordate chiaramente la lezione. “Mai Più”. Per chiunque.
Leta Hirschmann-Levy è un’attrice di New York City. È anche un’artista che insegna con Voices of a People’s History of the United States (Voci di Una Storia Popolare Degli Stati Uniti). Ha visitato la Palestina nel 2011 in una delegazione per la salute e i diritti umani e da allora è stata una sostenitrice di gruppi attivi nel lavoro di liberazione della Palestina.
Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org
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