Contro ogni nazionalismo

…è vitale trovare la forza per prendere le distanze dalla propaganda, e per criticare innanzitutto la nostra parte e la nostra patria. In un momento in cui tutta l’umanità è davvero in pericolo, l’unica identità che conta è quella umana.

23-03-2022 – di: Tomaso Montanari

Fonte: Volere la luna

«Dulce et decorum est pro patria mori». Il celeberrimo verso delle Odi di Orazio è «la vecchia bugia», scriveva Wilfred Owen. Non è dolce, non è dignitoso morire per la patria, gridava il poeta inglese (prima di morire lui stesso in battaglia, a una settimana dalla fine della Grande Guerra):

Piegati in due, come vecchi accattoni sotto sacchi,
con le ginocchia che si toccavano, tossendo come streghe, bestemmiavamo nel fango,
fin davanti ai bagliori spaventosi, dove ci voltavamo
e cominciavamo a trascinarci verso il nostro lontano riposo.
Uomini marciavano addormentati. Molti avevano perso i loro stivali
ma avanzavano con fatica, calzati di sangue. Tutti andavano avanti zoppi; tutti ciechi;
ubriachi di fatica; sordi anche ai sibili
di granate stanche, distanziate, che cadevano dietro.
Gas! Gas! Veloci, ragazzi! – Un brancolare frenetico,
mettendosi i goffi elmetti appena in tempo;
ma qualcuno stava ancora gridando e inciampando,
e dimenandosi come un uomo nel fuoco o nella calce…
Pallido, attraverso i vetri appannati delle maschere e la torbida luce verde,
come sotto un mare verde, l’ho visto affogare.
In tutti i miei sogni, prima che la mia vista diventasse debole,
si precipita verso di me, barcollando, soffocando, annegando.
Se in qualche affannoso sogno anche tu potessi marciare
dietro al vagone in cui lo gettammo,
e guardare gli occhi bianchi contorcersi nel suo volto,
il suo volto abbassato, come un diavolo stanco di peccare;
se tu potessi sentire, ad ogni sobbalzo, il sangue
che arriva come un gargarismo dai polmoni rosi dal gas,
ripugnante come un cancro, amaro come il bolo
di spregevoli, incurabili piaghe su lingue innocenti, –
amico mia, tu non diresti con tale profondo entusiasmo
ai figli desiderosi di una qualche disperata gloria,
la vecchia bugia: Dulce et decorum est
pro patria mori.

(traduzione italiana di Emanuela Zampieri).

Pensieri e parole che dovremmo in fretta ritrovare, prima di essere sommersi dalla retorica patriottarda che in Occidente inneggia alla guerra. «La patria non è l’astrazione che manda gli uomini al massacro, ma un certo gusto della vita che è comune a certi individui: […] la sua vita, i cortili, i cipressi, le trecce di peperoni […] i paesaggi assolati, e non i fondali teatrali in cui un dittatore si inebria della propria voce, e soggioga le masse». Salgono alle labbra queste parole di Albert Camus (1937) quando si vede, su twitter, che il messaggio ucraino in cui si esulta per l’uccisione di un certo, efferato, militare russo (di cui si posta una fotografia) riceve migliaia di like dall’Italia. Putin è un despota criminale, la sua è una guerra di aggressione, l’autodifesa degli ucraini è indiscutibilmente legittima: e però davvero qua, in Italia, dobbiamo esultare per l’uccisione di un umano, guardandolo in faccia?

Non vorrei discutere della legittimità delle scelte (inviare le armi o no), o dell’enormità del rischio nucleare – quello per cui in queste notti mi sveglio di soprassalto. Vorrei solo dire che facendoci risucchiare nel baratro dei nazionalismi stiamo uccidendo «l’umano nell’uomo», per usare un’espressione carissima a Vasilij Grossman, gigantesco scrittore russo, nato in Ucraina ed ebreo, vittima del nazismo e poi dello stalinismo. Chi si trovò a dover combattere contro il fascismo e il nazismo non pensò di farlo per una qualche specifica patria, ma anzi per la fine di ogni nazionalismo: «Siamo antifascisti non tanto e non solo perché siamo contro quel complesso di fenomeni che chiamiamo fascismo; ma perché siamo per qualche cosa che il fascismo nega ed offende, e violentemente impedisce di conseguire. Siamo antifascisti perché in questa epoca di feroce oppressione di classe e di oscuramento dei valori umani, ci ostiniamo a volere una società libera e giusta, una società umana che distrugga le divisioni di classe e di razza e metta la ricchezza, accentrata nelle mani di pochi, al servizio di tutti. Siamo antifascisti perché nell’uomo riconosciamo il valore supremo, la ragione e la misura di tutte le cose, e non tolleriamo che lo si umilii a strumento di Stati, di Chiese, di Sette, fosse pure allo scopo di farlo un giorno più ricco e felice. Siamo antifascisti perché la nostra patria non si misura a frontiere e cannoni, ma coincide col nostro mondo morale e con la patria di tutti gli uomini liberi» (Carlo Rosselli, 1934).

Per costruire questa “cittadinanza universale”, la cultura è la leva fondamentale. Per questo, imporre agli artisti russi di rilasciare pubbliche dichiarazioni di condanna del loro governo, o chiudere le collaborazioni di ricerca con gli studiosi russi, è un terribile errore. In questi giorni, è stato Alberto Leiss a evocare (su il manifesto) l’antidoto più giusto. Sono parole di un arabo cristiano che, studiando la percezione occidentale dell’Oriente, cita un tedesco che studiava filologia romanza, che a sua volta cita un monaco medioevale: un intarsio di tempi, di diversità e di luoghi che basterebbe a mostrare il valore universale di questo messaggio. Ebbene, a Edward W. Said (in Orientalismo, 1978) stava a cuore «la tradizione umanistica di coinvolgimento in culture e letterature nazionali differenti dalla propria», e per questo ricordava come il grandissimo Erich Auerbach concludeva le sue riflessioni sulla filologia di una “letteratura mondiale” (1952) «con una significativa citazione dal Didascalicon di Ugo di San Vittore (XI secolo): “L’uomo che trova dolce il luogo natale è ancora un tenero principiante; quello per cui ogni suolo è come il suolo nativo è già più forte; ma perfetto è quello per cui l’intero mondo è un paese straniero”». Il monaco medievale, commentava Auerbach, «si riferisce a chi ha come mèta la liberazione dall’amore per il mondo. Ma anche per chi voglia raggiungere il giusto amore per il mondo, questa è sempre una buona strada». La morale, spiega Said, è che «più si è capaci di staccarsi dalla propria patria culturale, più è agevole giudicarla, e giudicare il mondo stesso, con quel distacco culturale e quella generosità indispensabili per un’autentica visione delle cose. E tanto più, inoltre, si riuscirà a valutare se stessi e le altre culture con l’identica combinazione di intimità e distanza».

Ebbene, in queste ore in cui chi protesta in Russia contro una guerra fratricida è arrestato perché “filo ucraino”, e in Italia chi protesta contro la corsa alla guerra atomica è bollato come “filorusso”; in queste ore in cui leggere Dostoevskij è sospetto; in queste ore in cui torna a risuonare nei discorsi di politici e giornalisti «un terribile amore per la guerra» (James Hilmann); in queste ore in cui «le azioni sono considerate buone o cattive non per il loro valore intrinseco, ma a seconda di chi le compie» (così Orwell nei suoi Appunti sul nazionalismo, 1945), è vitale trovare la forza per prendere le distanze dalla propaganda, e per criticare innanzitutto la nostra parte e la nostra patria. In un momento in cui tutta l’umanità è davvero in pericolo, l’unica identità che conta è quella umana.

(*)Tomaso Montanari insegna Storia dell’arte moderna all’Università per stranieri di Siena. Prende parte al discorso pubblico sulla democrazia e i beni comuni e, nell’estate 2017, ha promosso, con Anna Falcone l’esperienza di Alleanza popolare (o del “Brancaccio”, dal nome del teatro in cui si è svolta l’assemblea costitutiva). Collabora con numerosi quotidiani e riviste. Tra i suoi ultimi libri Privati del patrimonio (Einaudi, 2015), La libertà di Bernini. La sovranità dell’artista e le regole del potere (Einaudi, 2016), Cassandra muta. Intellettuali e potere nell’Italia senza verità (Edizioni Gruppo Abele, 2017) e Contro le mostre (con Vincenzo Trione, Einaudi, 2017)