La doppia oppressione delle donne palestinesi

Le donne palestinesi sono state inestimabili nella lotta di liberazione, ma la continua occupazione di Israele sta rafforzando la mascolinità tossica tra i palestinesi che sta avendo un impatto negativo sulla loro partecipazione politica.

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Di Emad Moussa – 2 aprile 2022

Immagine di copertina: Donne palestinesi camminano lungo il muro della Cisgiordania. La rappresentanza delle donne palestinesi nella vita politica è ancora molto bassa. (Getty)

Le donne palestinesi spalla a spalla, con gli uomini, sono state una parte attiva della lotta per la liberazione, fin dall’inizio dell’afflusso di ebrei europei in Palestina alla fine del 19° secolo.

Il progresso, tuttavia, non è mai stato lineare. Il collasso sociale che seguì la Nakba del 1948 vide l’impegno politico delle donne passare dall’attivismo visibile al ruolo di preservare principalmente la memoria collettiva e l’identità nazionale, spesso attraverso il mantenimento di manufatti culturali e tramandando la narrativa storica raccontata.

Con il raggiungimento della maggiore età della generazione post-Nakba e l’istituzione dell’OLP negli anni ’60, il Movimento Nazionale Palestinese è stato ringiovanito, così come gran parte dell’attivismo femminile. Il periodo vide l’emergere dell’Unione Generale delle Donne Palestinesi dell’OLP, il cui approccio rivoluzionario femminista divenne presto parte del quadro operativo e ideologico di molte fazioni politiche palestinesi, in particolare di sinistra.

La formazione dell’Autorità Palestinese a seguito dell’accordo di Oslo del 1994 con Israele ha spinto la costruzione di istituzioni della società civile, portando, tra le altre cose, a un ulteriore riconoscimento dei diritti delle donne e a una maggiore partecipazione politica femminile.

Nel linguaggio delle statistiche, le donne palestinesi hanno davvero fatto molta strada, ma sul campo, questo deve ancora tradursi in un’effettiva uguaglianza di genere, o almeno una parvenza di partenariato paritario nel processo decisionale.

Secondo i dati delle Nazioni Unite, le donne rappresentano solo l’8% del Consiglio Nazionale dell’OLP, ricoprono 3 su 24 incarichi ministeriali in Cisgiordania e solo 1 a Gaza. La quota elettorale per le donne, sebbene aumentata dal 20% al 24% nel 2021, non soddisfa ancora il requisito minimo del 30% richiesto dalle attiviste. Negli istituti di istruzione superiore, il 60% degli studenti sono donne, ma rappresentano solo il 26% dei membri dei consigli studenteschi universitari.

In quanto tale, gli sforzi per aumentare la rappresentazione delle donne sono stati superficiali o estetici. Si è pensato molto poco al fatto che un progresso significativo è subordinato allo smantellamento dell’atteggiamento patriarcale profondamente radicato.

La Palestina è una società patriarcale, molto simile alle vicine società arabe, a volte di più. Ma le dinamiche che sostengono il patriarcato tradizionalista sono più contorte di un semplice ordine sociale radicato. Sono intrecciate con le complessità politiche che, tra le altre cose, continuano a concedere il primato a una forma di mascolinità sopravvalutata.

Ci si aspetta che gli uomini palestinesi, come i loro coetanei nella maggior parte delle società, si allineino alle norme di genere della mascolinità egemonica, concepibilmente dominata da aspettative pratiche come il prendersi cura e la protezione.

Ma, a differenza della maggior parte delle società, la prestazione di questi tre atti tipicamente maschili è regolarmente minata dal potere superiore dell’occupazione militare israeliana. Gli uomini sono spesso i principali bersagli di interrogatori, incarcerazioni e abusi da parte dell’IDF. Il loro contesto generale di mascolinità, quindi, è uno di sottomissione e coercizione politica. Questo erode efficacemente alcuni dei componenti socialmente approvati che credono li rendano uomini, non ultima è la loro capacità di agire come protettori e accuditori.

Questa dinamica ha portato alla sovracompensazione della mascolinità, diretta, interiorizzata o manifestata come abuso domestico e/o freno all’indipendenza delle donne, o nella maggior parte dei casi, esternamente a Israele attraverso il muqawama (resistenza).

Ad ogni modo, questo è un meccanismo di difesa; e per molti uomini palestinesi, è il loro modo di ripristinare il ruolo sociale che hanno perso a causa dell’occupazione. E, poiché nazionalismo e mascolinità sono strettamente intrecciati, la mascolinità è vista come una forma di sopravvivenza nazionale.

Ma questo ha un prezzo elevato.

La necessità di riaffermare costantemente questo tipo di mascolinità ha sostenuto l’ordine patriarcale e limitato la liberazione delle donne così come la partecipazione politica.

Recentemente, i capi clan della Cisgiordania occupata hanno chiesto all’Autorità palestinese di ritirarsi dalla Convenzione sull’Eliminazione di Ogni Forma di Discriminazione Contro le Donne (CEDAW). Si sono spinti fino a chiedere il divieto di tutte le organizzazioni femministe. Le giustificazioni per questo erano deboli e includevano la citazione di tradizioni, la presentazione di un’interpretazione ristretta dell’Islam e l’inquadramento del trattato come una cospirazione occidentale per corrompere le donne musulmane.

Dall’altro lato della questione c’è l’occupazione, che è una forma globale di oppressione, applicata a tutti i palestinesi indipendentemente dal genere. Ma, poiché le donne si trovano già in una posizione sociale vulnerabile, alcune pratiche israeliane sono doppiamente oppressive per loro. Le chiusure e le restrizioni alla libertà di movimento, rendono tutte le donne palestinesi incapaci di prendere parte ad attività nazionali o internazionali, attraverso le quali sarebbero altrimenti più coinvolte politicamente. Queste restrizioni impediscono inoltre alle associazioni femminili e ai sindacati di sviluppare una strategia per promuovere le donne nelle posizioni decisionali.

Le donne palestinesi detenute in Israele sono particolarmente vulnerabili alle violazioni sistematiche. Vengono regolarmente perquisite fisicamente e maltrattate dalle guardie israeliane; in quanto tali, i loro diritti umani fondamentali vengono violati e sono bloccati dal peso degli stigmi sociali che circondano le nozioni di onore e dignità.

Pressate tra il martello patriarcale e l’incudine dell’occupazione, molte donne sono cresciute nella convinzione di essere meno in grado di svolgere un ruolo significativo nel processo decisionale, tanto meno di apportare un cambiamento concreto. Altre hanno interiorizzato la convinzione che il coinvolgimento politico annulli la loro identità femminile.

Le donne palestinesi sono glorificate per essere madri e mogli e viene loro detto che questi ruoli sono importanti quanto la militanza maschile e il potere politico. Sono sostenute come la genesi della rivoluzione e l’arma biologica contro Israele per allevare i bambini che un giorno marceranno verso la liberazione.

Ciò ha anche portato le donne a votare per candidati maschi che ritengono più capaci di azione politica e assunzione di responsabilità rispetto alle candidate donne.

La società rimane in qualche modo cieca di fronte alla prospettiva di un’equa integrazione delle donne nel sistema politico e al fatto che ciò aiuterebbe effettivamente la costruzione dello Stato e, infine, la liberazione nazionale.

Nel frattempo, il sistema continua a zoppicare su una gamba, la gamba maschile, pensando che sia tutto ciò che serve per raggiungere il traguardo.

Emad Moussa è un ricercatore e scrittore specializzato in politica e psicologia politica della Palestina/Israele.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org