Nonostante ampi filmati e testimonianze oculari, la copertura dell’omicidio di Shireen Abu Akleh è stata pesantemente distorta dai media occidentali. Forse le notizie più riprovevoli sono arrivate dal “giornale di punta” americano, il New York Times.
Fonte: english version
di Laura Albast – 17 maggio 2022
Immagine di copertina: manifestanti protestano contro l’uccisione della giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh mentre copriva un’incursione israeliana in Cisgiordania, all’interno di eventi che celebravano il 74° anniversario della Nakba del 1948 a Londra, Regno Unito. (Getty)
L’11 maggio, a un’ora dall’omicidio della giornalista palestinese Shireen Abu Akleh per mano delle Forze di Occupazione Israeliane (FOI), il New York Times (NYT) ha pubblicato una bugia. L’articolo riportava falsamente che Al Jazeera e il Ministro della Sanità palestinese avevano affermato che Shireen Abu Akleh era stata colpita durante “scontri tra le forze militari israeliane e uomini armati palestinesi”.
Questa distorsione non è da poco: si trattava di disinformazione, che istigava a credere ci fossero stare provocazioni di “uomini armati palestinesi”, omettendo che i citati “scontri” fossero in realtà incursioni illegali delle FOI nel territorio controllato dall’Autorità Palestinese. Organizzazioni, attivisti e giornalisti, me compresa, hanno creato una tempesta online che ha portato ad una rettifica.
Il Times ha pubblicato una correzione 11 ore dopo, aggiungendo alla firma il nome di Patrick Kingseley, capo dell’ufficio di Gerusalemme del NYT, che è un giornalista esperto di Hasbara (propaganda israeliana). Ma la palese menzogna contenuta nell’articolo era accessibile a milioni di abbonati e non iscritti in tutto il mondo, così come il relativo tweet, che da allora è stato cancellato e ripubblicato con una correzione.
Non è raro che i giornali pubblichino rettifiche degli articoli pubblicati. Le correzioni di solito consistono in errori di battitura, nomi errati, date o, nel peggiore dei casi, errori oggettivi. Succede. Ma è difficile credere che il NYT abbia frainteso una dichiarazione fatta da due gruppi distinti.
Questa non è stata la prima rettifica del NYT in merito ai rapporti su Shireen. Un necrologio scritto dallo stesso giornalista e pubblicato lo stesso giorno, titolava: “Shireen Abu Akleh, giornalista veterana, muore a 51 anni”.
Ha omesso che la sua morte fosse un omicidio, che ha incitato la pressione pubblica da vari gruppi, inclusa una campagna di posta elettronica di Jewish Voice for Peace. Il giorno successivo, il titolo è stato corretto, affermando che Abu Akleh è stata uccisa e non era semplicemente “morta”.
Al contrario, il 13 marzo, il NYT ha pubblicato un necrologio intitolato: “Brent Renaud, un giornalista americano, è stato ucciso in Ucraina”. L’attenta scelta da parte dei redattori di essere il più vaga possibile quando si parla della morte dei palestinesi non è una casualità.
La copertura del NYT sull’uccisione di Shireen Abu Akleh non è che un esempio guida delle politiche editoriali del giornale sulla Palestina: Una voce passiva. Omissiva dei fatti. Non far sembrare Israele l’aggressore. Giustificare la violenza israeliana. Autorevolizzare le fonti israeliane. Non contestare o verificare le affermazioni dei funzionari israeliani. Limitare l’uso di fonti palestinesi.
La riprovevole copertura non è finita li. Il 12 maggio, il NYT ha trasformato l’uccisione di Shireen in un dibattito sulla balistica, che ha il duplice effetto di intrattenere i lettori e disumanizzare i palestinesi.
Il 13 maggio, il NYT ha giustificato l’attacco della polizia israeliana ai palestinesi in lutto che trasportavano le spoglie di Shireen a Gerusalemme. Hanno riferito di un’affermazione della polizia israeliana secondo cui l’attacco è stato provocato dal lancio di “bottiglie di plastica” e che la polizia è “intervenuta” caricando il corteo, aggredendo i portatori e facendo loro cadere momentaneamente il feretro.
Il NYT ha pubblicato una falsa dichiarazione della polizia israeliana secondo cui un accordo stipulato con la famiglia della signora Abu Akleh non era stato rispettato. Il NYT non ha contattato la famiglia della signora Abu Akleh per verificare. Questa bugia è stata confutata dal fratello della signora Abu Akleh in un’intervista separata con l’AFP.
Il New York Times è stato spesso criticato per aver dato spazio permanente alle voci anti-palestinesi. Da Patrick Kingsley, che distorce regolarmente i fatti, a Isabel Kershner, il cui figlio e marito hanno prestato servizio nell’esercito israeliano, i giornalisti filo-israeliani sono in grado di mascherare l’occupazione. E la posizione filo-israeliana del NYT arriva fino ai vertici.
Il NYT, sin dalla sua fondazione, è gestito dalla famiglia Sulzberger. Arthur Ochs Sulzberger Jr. è stato presidente della The New York Times Company dal 1997 al 2020, quando ha passato la carica a suo figlio. Sulzberger Jr. ha trascorso un periodo in Israele da giovane studente, il che, dato il tono anti-palestinese e anti-arabo del suo giornale, fa presumere che questa visita a uno Stato coloniale abbia influenzato la sua visione del mondo.
Diversi membri del Consiglio di Amministrazione del NYT guidano o hanno guidato società che hanno ampi interessi finanziari in Israele. Amanpal S. Butani, amministratore delegato di GoDaddy, fa pubblicità alla TV israeliana. Manuel Bronstein è il direttore della produzione di Roblox, che ospita società di gioco israeliane. Beth Brooke è stata in precedenza Vicepresidente Globale di Ernst & Young LLP, un’azienda con uffici a Tel Aviv. Hays N. Golden ha ricoperto vari ruoli presso la Compagnia Assicurativa Israeliana AIG Insurance.
Riferire sulle violazioni dei diritti umani da parte di Israele danneggerebbe la propaganda diffusa da Tel Aviv, influendo successivamente sugli interessi commerciali della maggior parte del Consiglio di Amministrazione del NYT. Questo sicuramente influenza le decisioni editoriali.
La cosa peggiore è che l’attuale amministratore delegato del NYT, Meredith Kopit Levien, ha stretti legami personali e professionali con Israele. Era sposata con Jason Levien, un agente sportivo e proprietario di un franchising che da bambino ha trascorso un periodo in Israele, ha rappresentato atleti israeliani e ha un ampio interesse per gli investimenti in Israele.
Kopit Levien era membro dell’Istituto filo-israeliano Aspen, il cui mentore era Mark Thompson, un dirigente dei media notoriamente pro-Israele, che dirigeva sia la BBC (2004-2012) che il New York Times (2012-20). Kopit Levien gli è succeduta e ha continuato a far rispettare la sua linea editoriale.
Sotto la direzione dell’editore, A.G. Sulzberger, e Kopit Levien, la New York Times Company ha investito decine di milioni di dollari in OpenWeb, una piattaforma di coinvolgimento della comunità dei social media israeliana.
Il NYT è chiaramente interessato a utilizzare la tecnologia israeliana per rafforzare la propria portata online, il che non fa che aumentare l’avversione della società di mass media nel criticare un socio commerciale chiave. Questo intreccio di interessi finanziari tra le due parti è estremamente preoccupante, soprattutto considerando l’enorme portata e influenza del Times.
Il NYT ha coperto le violazioni dei diritti umani commesse da una serie di Stati, dal Venezuela a Cuba, dall’Ungheria alla Cina, vantandosi del loro coraggio e incentivando i principali media di tutto il mondo a partecipare al cosiddetto “Progetto Fiducia”. Il giornale ha il monopolio dell’informazione; anche i palestinesi sono costretti a presentare editoriali al NYT a causa dell’enorme portata globale che la testata ha tra i lettori “acculturati”.
Eppure, nonostante voglia trarre vantaggio dalla sua presunta etica idealista e inclusività, il NYT non è in grado di prendere posizione sull’assassinio di una delle giornaliste più famose del mondo, semplicemente perché era palestinese e perché è stata presa di mira e uccisa da un cecchino delle Forze di Occupazione Israeliane.
Shireen non è un’eccezione. La copertura del NYT sul suo omicidio faceva parte di un modello di cancellazione e propaganda filo-israeliana. Se fosse stata uccisa da un soldato o da un militante di qualsiasi altra istituzione o regime, sarebbe stata una notizia da prima pagina e il comitato editoriale avrebbe inveito contro i criminali. Invece, hanno offuscato la storia, l’hanno seppellita e si sono lavati le mani del sangue.
Laura Albast è una giornalista e analista dei media palestinese-americana. Attualmente collabora con l’Instituto di Studi Palestinesi negli Stati Uniti. I suoi articoli sono stati pubblicati da The Washington Post, Arab American News e altri organi di stampa. È apparsa su Al-Jazeera, WEAA, WMNF e Black Star Network.
Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org