E’ altamente improbabile che l’uccisione di una giornalista come Shireen Abu Akleh sia stata la decisione di un solo soldato o di un comandante sul campo.
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Di Miko Peled – 23 maggio 2022Immagine di copertina: Persone in lutto portano la bara della giornalista di Al Jazeera uccisa Shireen Abu Akleh durante il suo funerale nella Città Vecchia di Gerusalemme, 13 maggio 2022. Mahmoud Illean | AP
JENIN, PALESTINA OCCUPATA – L’annuncio di Israele di non portare avanti un’indagine sull’uccisione della famosa giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh non sorprende. Le ragioni specifiche addotte per giustificare la decisione fanno poca differenza. Tuttavia, una cosa è certa: è altamente improbabile che l’uccisione di una giornalista come Shireen Abu Akleh sia stata la decisione di un solo soldato o di un comandante sul campo.
Abu Akleh era ben nota e rispettata. Era chiaramente identificabile come una non combattente e una giornalista che non rappresentava una minaccia per le forze israeliane. Si era già trovata in situazioni simili e sapeva come prendere le precauzioni necessarie, incluso indossare un elmetto e un giubbotto antiproiettile. Doveva essere uccisa da un cecchino ben addestrato e la sua identità doveva essere nota alle autorità israeliane.
Ci doveva essere un ordine o, come minimo, un’approvazione data dai più alti livelli dell’apparato di difesa israeliano, fino al Ministro della Difesa o persino al Primo Ministro, prima che il cecchino potesse eseguire questo assassinio. Poi, in un tentativo apparentemente trasparente di coprire l’assassinio, Israele ha finto di voler condurre un’indagine e ha chiesto all’Autorità Palestinese, che ha condotto l’autopsia, di consegnare il proiettile che ha ucciso Abu Akleh.
Citando un funzionario militare israeliano, il Times of Israel ha riferito che “l’esercito israeliano ha identificato l’arma di un soldato che potrebbe aver ucciso la giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh”. Tuttavia, continuano ad affermare che “non può essere accertato a meno che i palestinesi non consegnino il proiettile per l’analisi”. L’intento ingannevole è palesemente ovvio in questa affermazione. Dal momento che doveva essere stato un cecchino a mirare e poi a sparare, non ci possono essere dubbi su chi ha premuto il grilletto.
Militanti palestinesi?
Il quotidiano britannico The Guardian ha scritto di recente: “Abu Aqleh è stato uccisa durante una retata di arresti da parte di un’unità speciale israeliana contro militanti palestinesi”. Affermazioni come questa dimostrano il problema più grande. Le incursioni delle unità speciali israeliane non hanno giustificazione e sono responsabili di innumerevoli morti di civili palestinesi. Inquadrare i combattenti palestinesi, difensori del loro campo, della loro città e del loro popolo, come “militanti” e gli invasori israeliani come “unità speciali”, dà immediatamente il senso della colpevolezza dei palestinesi e giustifica l’attacco israeliano, giustificando così ogni incursione israeliana.
Questa inquadratura, tipica dei media, consente all’uccisione costante e senza fine di giovani palestinesi da parte di Israele di continuare ininterrottamente. Sorge la domanda: quanti palestinesi devono morire prima che l’informazione diventi onesta e Israele sia costretto a fermare le uccisioni?
Ogni tanto, un evento fa sì che le persone alzino la testa e riconoscano che Israele è andato troppo oltre e che forse è necessario fare qualcosa. Quando Shireen Abu Akleh è stata assassinata, c’è stato un momento del genere. Quando, pochi giorni dopo l’omicidio, il suo corteo funebre è stato brutalmente attaccato dalle forze israeliane, quello è stato un altro di quei momenti. Ma questi momenti sono pochi e lontani tra loro.
E questi momenti, anche quando arrivano, non durano molto e non danno risultati reali. A volte una lettera viene inviata da un membro del Congresso degli Stati Uniti; a volte vengono fatte alcune affermazioni che richiedono un’indagine su ciò che è accaduto. Poi la gente va avanti e dimentica, e lo spargimento di sangue palestinese, per lo più giovani, uomini promettenti, continua senza sosta.
L’elenco dei nomi dei giovani palestinesi uccisi da Israele è troppo lungo per essere elencato; e, inoltre, quando si prova a scriverlo, ne vengono aggiunti altri. L’età varia, ma molti hanno meno di 21 anni. Le immagini di genitori e fratelli in lacrime, a volte una moglie e un figlio, se erano abbastanza grandi per sposarsi, continuano a fluire come se si trattasse di una maledizione inevitabile e imprescindibile.
In un’intervista aperta e franca che ho recentemente condotto con il veterano giornalista israeliano Gideon Levy, lui parla della sua frustrazione per i media israeliani e il pubblico che li segue. “I media non vogliono riferire e il pubblico non vuole sapere”, esclamò appassionatamente Levy.
Seguire la linea
Quando la stampa israeliana riferisce di un omicidio, non manca mai di seguire la linea del governo, quindi il palestinese è sempre un terrorista o fa parte di una violenta rivolta. Lui o loro, a seconda dei casi, dovevano essere neutralizzati e i coraggiosi combattenti israeliani lo hanno fatto. Di tanto in tanto, per dimostrare quanto siano professionali le forze israeliane, vengono mostrate in azione. Vengono mostrate immagini di queste forze che entrano in un campo profughi, cosa che, negli ultimi tempi, hanno fatto spesso, in particolare nella parte settentrionale della Cisgiordania.
Israele dispiega diversi battaglioni di reparti speciali, unità della polizia segreta Shabak (Shin Bet) o forze antiterrorismo, tutti pesantemente armati e dotati delle migliori apparecchiature di comunicazione e protezione del mondo e dotati di quantità illimitate di munizioni. Le forze israeliane hanno anche i medici meglio addestrati, le migliori capacità di pronto soccorso ed elicotteri pronti per evacuare rapidamente un soldato ferito. Una volta evacuato, un soldato israeliano ferito riceve le migliori cure mediche in strutture moderne e ben attrezzate.
Tutto questo per affrontare alcuni giovani palestinesi armati di poco più di M-16. I palestinesi non hanno elmetti, giubbotti antiproiettile, non dispongono di quantità illimitate di munizioni e rischiano un’altissima possibilità di essere feriti o uccisi. Un palestinese ferito in battaglia non ha accesso allo stesso livello di cure mediche di emergenza delle forze israeliane. Nemmeno lontanamente. Le ambulanze palestinesi, se riescono ad arrivare sul posto, sono scarsamente attrezzate e le strutture mediche sono lontane e raramente sono sufficientemente attrezzate per far fronte a ferite gravi.
La vita va avanti
Da parte israeliana, la vita va avanti come se non fosse successo nulla di significativo. La società israeliana è assuefatta alle notizie. Scontri, palestinesi uccisi, governo di coalizione che affronta l’ennesima crisi, Netanyahu potrebbe o meno essere vicino a tornare alla carica di Primo Ministro; chi lo sa. Di tanto in tanto, un colono israeliano o un agente viene ucciso, il loro nome viene menzionato nei notiziari e la gente piange per alcuni giorni e dimentica. Si stanno costruendo insediamenti, molti migliaia nel Naqab, altre migliaia a Gerusalemme Est, e la gente di Masafer Yatta nelle colline a Sud di Hebron viene costretta ad abbandonare le proprie terre, ma è tutto normale, niente di cui preoccuparsi. Gli israeliani viaggiano all’estero per le vacanze e vanno nei bar e nei ristoranti: ne aprono di nuovi tutti i giorni. Uno deve provarli tutti.
Miko Peled è uno scrittore e attivista per i diritti umani, nato a Gerusalemme. È autore di “The General’s Son. Journey of an Israeli in Palestine” (Il figlio del generale. Viaggio di un Israeliano in Palestina) e “Injustice, the Story of the Holy Land Foundation Five” (Ingiustizia, Storia dei Cinque Della Fondazione Terra Santa).
Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org