A lungo marginalizzato, il “diritto al ritorno” è ancora una volta una priorità palestinese

L’argomento una volta popolare secondo cui il diritto al ritorno era semplicemente “impraticabile” non ha più importanza, né per i palestinesi comuni né per le loro élite intellettuali o politiche.

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Di Ramzy Baroud – 23 maggio 2022

Immagine di coepertina: palestinesi sventolano le loro bandiere nazionali  durante  una manifestazione nel 74° anniversario della Nakba, a est di Gaza City. (AFP)

La Nakba è tornata nell’agenda palestinese. Per quasi tre decenni, ai palestinesi è stato detto che la Nakba, o “Catastrofe”, era un ricordo del passato. Che la vera pace richiedva compromessi e sacrifici, quindi, il peccato originale che ha portato alla distruzione della loro Patria storica avrebbe dovuto essere del tutto rimosso da qualsiasi dibattito politico “concreto”. Sono stati esortati ad andare avanti.

Le conseguenze di quel cambiamento nella narrativa furono terribili. Rinnegare la Nakba, l’evento più importante che ha plasmato la storia palestinese moderna, ha portato a qualcosa di più di una semplice divisione politica tra i cosiddetti radicali e i presunti veri promotori della pace, come il Presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas. Ha anche diviso le comunità palestinesi in Palestina e in tutto il mondo attorno a linee politiche, ideologiche e di classe.

Dopo la firma degli accordi di Oslo nel 1993,  divenne chiaro che la lotta palestinese per la libertà era stata completamente ridefinita e riformulata. Non era più una lotta palestinese contro il sionismo e il colonialismo dei coloni israeliani che risale all’inizio del 20° secolo, ma un “conflitto” tra due parti uguali, con rivendicazioni territoriali ugualmente legittime che potevano essere risolte solo attraverso “dolorose concessioni”.

La prima di queste concessioni fu  quella di accantonare la questione centrale del “diritto al ritorno” per i rifugiati palestinesi che furono cacciati dai loro villaggi e città nel 1947-48. Quella Nakba palestinese aveva aperto la strada all’ “indipendenza” di Israele,  dichiarata sulle macerie fumanti di quasi 500 villaggi e città palestinesi distrutti e bruciati.

All’inizio del cosiddetto “processo di pace”, a Israele fu  chiesto di onorare il diritto al ritorno dei palestinesi, anche se simbolicamente. Israele rifiutò. I palestinesi  furono  quindi spinti a relegare quella questione fondamentale ai “negoziati sullo status finale”, che non ebbero mai  luogo. Ciò significava che milioni di rifugiati palestinesi, molti dei quali vivono ancora nei campi profughi in Libano, Siria e Giordania, così come nei Territori Palestinesi Occupati,  furono completamente esclusi dalla discussione politica.

Se non fosse stato per le continue attività sociali e culturali degli stessi rifugiati, insistendo sui loro diritti e insegnando ai loro figli a fare lo stesso, termini come la Nakba e il diritto al ritorno sarebbero stati completamente eliminati dal lessico politico palestinese.

Mentre alcuni palestinesi rifiutavano l’emarginazione dei rifugiati, insistendo sul fatto che l’argomento fosse politico e non meramente umanitario, altri erano disposti ad andare avanti come se questo diritto non avesse alcuna conseguenza. Vari funzionari palestinesi affiliati all’ormai defunto “processo di pace” chiarirono che il diritto al ritorno non era più una priorità palestinese. Ma nessuno si è minimamente avvicinato alla posizione di Abbas, che inquadrò la posizione palestinese in un’intervista del 2012 con Channel2 Israele.

“Ora la Palestina per me è il confine del 1967, con Gerusalemme Est come capitale. Questo è ora e per sempre. Questa è la Palestina per me. Sono un rifugiato, ma vivo a Ramallah”, disse allora Abbas.

Abbas  sbagliò completamente, ovviamente. Che volesse o meno esercitare il suo diritto al ritorno, tale diritto, secondo la risoluzione 194 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, è semplicemente “inalienabile”, il che significa che né Israele, né gli stessi palestinesi, possono negarlo o perderlo.

Per non parlare della mancanza di integrità intellettuale nel separare la tragica realtà del presente dalla sua principale causa principale:anche ad Abbas mancava la saggezza politica. Con il suo “processo di pace” in difficoltà e con la mancanza di una soluzione politica concreta, decise  semplicemente  di abbandonare milioni di profughi, negando loro la speranza stessa di ritrovare la propria casa, la propria terra o la propria dignità.

Da allora, Israele, insieme agli Stati Uniti, ha combattuto i palestinesi su due fronti diversi: negando loro qualsiasi orizzonte politico e tentando di smantellare i loro diritti storicamente sanciti, principalmente il loro diritto al ritorno. La guerra di Washington all’agenzia per i rifugiati palestinesi, UNRWA, rientra in quest’ultima categoria poiché l’obiettivo era, e rimane, la distruzione delle stesse infrastrutture legali e umanitarie che consentono ai rifugiati palestinesi di considerarsi un collettivo di persone in cerca di rimpatrio, risarcimento e giustizia.

Eppure tutti questi sforzi continuano a fallire. Molto più importante delle concessioni personali di Abbas a Israele, del bilancio sempre più ridotto dell’UNRWA o del fallimento della comunità internazionale nel ripristinare i diritti dei palestinesi, è il fatto che il popolo palestinese, ancora una volta, si sta unendo intorno all’anniversario della Nakba, insistendo così sul diritto al ritorno per i sette milioni di profughi in Palestina e nella diaspora.

Ironicamente, è stato Israele ad aver involontariamente riunificato i palestinesi attorno alla Nakba. Rifiutando di concedere un solo centimetro di Palestina, per non parlare di consentire ai palestinesi di rivendicare qualsiasi vittoria, un loro Stato, smilitarizzato o meno, o consentire a un singolo rifugiato di tornare a casa, i palestinesi sono stati costretti ad abbandonare Oslo e le sue numerose illusioni. L’argomento un tempo popolare secondo cui il diritto al ritorno era semplicemente “impraticabile” non ha più importanza, né per i palestinesi comuni né per le loro élite intellettuali o politiche.

Nella logica politica, perché qualcosa sia impossibile, dovrebbe essere raggiungibile un’alternativa. Tuttavia, con il peggioramento della realtà palestinese a causa della continua espansione del colonialismo e dell’Apartheid dei coloni israeliani, i palestinesi ora capiscono che non hanno alcuna alternativa possibile se non la propria unità, la resistenza e il ritorno ai fondamenti della lotta. L’Intifada dell’Unità, del maggio scorso, è stata il culmine di questa nuova realizzazione. Inoltre, le manifestazioni e gli eventi per la commemorazione dell’anniversario della Nakba in tutta la Palestina storica e nel mondo il 15 maggio, hanno ulteriormente contribuito a concretizzare il nuovo lessico secondo cui la Nakba non è più simbolica e il diritto al ritorno è la richiesta centrale e collettiva della maggior parte dei palestinesi.

Israele è ora uno Stato di Apartheid nel vero significato della parola. L’Apartheid israeliano, come qualsiasi altro sistema di segregazione razziale, mira a proteggere le conquiste di quasi 74 anni di colonialismo sfrenato, furto di terre e dominio militare. I palestinesi, che siano ad Haifa, a Gaza o Gerusalemme, ora lo capiscono pienamente e stanno combattendo sempre più come un’unica nazione.

E poiché la Nakba e la successiva pulizia etnica dei profughi palestinesi sono il denominatore comune dietro tutte le sofferenze palestinesi, il termine e i suoi fondamenti sono tornati al centro di ogni discussione significativa sulla Palestina, come avrebbe dovuto essere sempre stato.

Ramzy Baroud è giornalista ed editore di The Palestine Chronicle. È autore di cinque libri. Il suo ultimo è “Queste Catene Saranno Spezzate: Storie Palestinesi di Lotta e Sfida Nelle Carceri Israeliane” (Clarity Press, Atlanta). Baroud è un ricercatore senior non residente presso il Centro per l’Islam e ,gli Affari Globali (CIGA), Università Zaim di Istanbul (IZU).

Traduzione di  Beniamino Rocchetto -Invictapalestina.org