Questo progetto intende includere la liberazione nazionale e di classe, non solo un approccio nazionale. Vale a dire che la reclusione o la detenzione è una delle procedure del sistema coloniale che il colonizzatore usa contro il colonizzato.
Fonte: english version
Ayah Kutmah – 22 maggio 2022
Khalida Jarrar è stata direttrice dell’Associazione Addameer per il sostegno e i diritti dei prigionieri per oltre 10 anni. Nel 2006, è stata eletta membro del Consiglio legislativo palestinese (PLC), dove ha guidato la Commissione dei prigionieri e ha svolto un ruolo attivo nella formulazione della domanda di adesione della Palestina alla Corte penale internazionale. Nel 2014 ha resistito a un ordine militare israeliano per il suo trasferimento forzato ad Ariha (Gerico), organizzando una protesta presso il quartier generale del PLC.
La sua sfida le è costata molto: è stata arrestata quattro volte dalle forze di occupazione israeliane e ha trascorso oltre 63 mesi in prigione, gran parte dei quali in detenzione amministrativa, trattenuta senza accusa. Durante il suo ultimo arresto nel 2019, Khalida è stata condannata a due anni di prigione a causa del suo lavoro politico. Nel luglio 2021 le è morta la figlia più giovane, Suha Jarrar. Nonostante le proteste internazionali, i servizi carcerari israeliani hanno negato a Khalida Jarrar un congedo umanitario per partecipare ai funerali.
Mentre era in prigione, Khalida ha operato come insegnante per le altre detenute, avviando programmi educativi secondari e post-secondari, contrabbandando scritti sull’argomento e persino proseguendo i propri studi.
Dal suo rilascio nel settembre 2021, Khalida Jarrar ha assunto un incarico di ricercatrice presso il Muwatin Institute for Democracy and Human Rights presso l’Università di Birzeit, dove sta attualmente conducendo un fondamentale progetto di ricerca sul tema delle prigioniere palestinesi.
In questa intervista, Ayah Kutmah, ricercatrice in visita presso il Muwatin Institute for Democracy and Human Rights ha parlato con Khalida del suo progetto, dei contributi che spera di apportare, della prigione e dell’istruzione e della creazione di un quadro educativo di liberazione.
L’intervista è stata condotta in arabo presso il Muwatin Institute dell’Università di Birzeit. Successivamente è stata trascritta e tradotta in inglese e modificata per chiarezza e brevità.
Puoi parlare di più del tuo progetto? Quando è nato per la prima volta?
L’idea del progetto è iniziata nel 2019, a seguito dei tentativi di intraprendere qualcosa di accademico sul tema delle detenute palestinesi, che fungesse anche da punto di riferimento per studiosi e ricercatori. C’è una mancanza di letteratura accademica che copre l’argomento. Ho iniziato il progetto nel 2019 con il Muwatin Institute for Democracy and Human Rights, presso la Birzeit University. Poco dopo aver presentato la proposta di ricerca, sono stata arrestata. Quando sono stata rilasciata, nel 2021, ho deciso che dovevo continuare il progetto. Ho anche scelto di ampliare il periodo di tempo in cui svolgere lo studio.
Siamo nella fase di revisione della letteratura e di finalizzare la metodologia del progetto. Spero di esaminare il rapporto tra i prigionieri palestinesi nel suo insieme, e tra le detenute più specificamente, con il progetto di liberazione palestinese. Questo progetto intende includere la liberazione nazionale e di classe, non solo un approccio nazionale. Vale a dire che la reclusione o la detenzione è una delle procedure del sistema coloniale che il colonizzatore usa contro il colonizzato… il colonizzatore cerca di imporgli subordinazione e sottomissione.
Per tornare al tuo punto sull’esame del tema della reclusione attraverso un’analisi nazionale e di classe: perché la classe? E perché entrambi?
Perché non possiamo separare le pratiche del sistema coloniale dalle sue pratiche e dal rapporto con il capitalismo.
Parliamo di liberazione nazionale e di liberazione sociale nel movimento palestinese. Ti concentri sulle prigioniere palestinesi, quindi c’è un elemento femminista nel progetto di liberazione. Potresti parlarne di più: ha un ruolo nella tua ricerca, e in che modo?
Dal mio punto di vista femminista, quando esaminiamo gli effetti di questo sistema coloniale sulle donne, non possiamo separare – o non posso separare – il ruolo di questo sistema nel promuovere l’oppressione delle donne per una classe compradora,[1] i cui interessi sono legati agli interessi del colonialismo. Per questo motivo, anche il tipo di persone che partecipano alla lotta e alla resistenza contro questo sistema coloniale mira a dichiarare che non vogliono che i loro interessi siano collegati a quelli del sistema. Questo è ciò che voglio esaminare con le mie interviste alle prigioniere.
Oltre alla revisione della letteratura, hai menzionato la conduzione di interviste con ex detenute; quali sono i diversi approcci metodologici che stai adottando per questo progetto?
Ho cercato di leggere, esaminare e vedere come la letteratura disponibile potesse essere utile per il mio studio. Sto anche esaminando casi comparativi, come l’esperienza irlandese nel contesto coloniale; l’esperienza algerina; l’esperienza della prigione di Khiam nel sud del Libano… perché tutte si sono svolte sotto un più ampio sistema coloniale.
Prima di essere arrestata, stavo approfondendo ciò che era stata la prigione da parte di intellettuali che hanno vissuto questa esperienza, come Michel Foucault, Gramsci, o anche la sua relazione con la discriminazione razziale, come Angela Davis negli Stati Uniti. Ho anche letto di come tali concezioni della prigione siano correlate al capitalismo, che ha consentito e intensificato la privatizzazione delle carceri.
Ho lavorato per 10 anni come Direttore dell’Addameer Prisoner Support and Human Rights Association, che si occupava di casi di prigionieri palestinesi nelle carceri di occupazione israeliana. Quindi c’è stato un tipo di contatto diretto o indiretto con gli avvocati che seguono i casi dei prigionieri palestinesi. Inoltre anch’io provengo da una famiglia di prigionieri politici: mio marito è stato arrestato molte volte, e anche io sono stata arrestata, quattro volte.
Mentre ero in prigione nel 2015-2016, ho condotto un breve studio in cui ho cercato di esaminare la relazione tra reclusione, genere e privacy attraverso svariate interviste. Soprattutto perché all’epoca c’era l’Habbet Al-Quds (Ribellione di Gerusalemme),[2] durante la quale un gran numero di detenute furono arrestate e ferite. Ho cercato di esaminare l’argomento in un mio studio che è stato pubblicato nel 2016. Ma lo studio era limitato, esaminava solo un aspetto. Ho pensato di scrivere mentre ero in prigione, ma sentivo che la letteratura disponibile non mi bastava per il tipo di approccio che volevo perseguire. Quindi quelle letture fanno parte delle fonti da cui attingerò. Inoltre, condurrò interviste a circa 50 ex detenute in diverse fasi della reclusione, dalla fine degli anni Sessanta fino al dopo Oslo; quali sono i tipi di detenute imprigionate in ogni fase, qual è l’approccio che le ha portate ai loro atti di resistenza, qual è il loro status di classe, ecc.
In che modo le tue esperienze in carcere influenzano lo studio?
Ciò che guida questo studio, oltre alla sola letteratura, è che c’è un’esperienza personale nei confronti dell’argomento, sia attraverso il mio lavoro nelle istituzioni carcerarie che seguono i casi dei detenuti, sia perché proveniente da una famiglia che è stata sottoposta ad arresti più che una volta, sia per le mie stesse esperienze di reclusione. Non è un argomento che guardo dall’esterno. Questo è un’aggiunta rispetto alle interviste che condurrò con le detenute e che parleranno delle proprie esperienze.
Ci sono ostacoli alla conduzione dello studio, ma non insisterò per condurre le interviste o porre domande, perché faccio parte del sistema. Ecco perché potrebbe essere più facile per le detenute dare liberamente le loro risposte.
Naturalmente, le detenute non possono parlare di tutto, e non posso scrivere tutto ciò che mi dicono, perché siamo ancora sotto il colonialismo, e ci sono ostacoli in termini di come salvaguardare queste informazioni, perché potrebbero esporre le detenute a un nuovo arresto.
Lavori come attivista e ora come ricercatrice. In che modo pensi che i due ruoli si uniscano e come sei arrivata alla ricerca dopo il tuo attivismo. O è stato il contrario?
È una relazione integrata, perché anche il mio precedente lavoro all’Addameer seguiva casi di prigionieri palestinesi. Il mio background accademico era imprenditoriale, ma il mio lavoro in ruoli amministrativi in ONG e istituzioni legate alle tematiche dei prigionieri e dei detenuti mi ha portato a continuare i miei studi in democrazia e diritti umani. Quindi per me è molto importante legare la lotta con la pratica e con il mondo accademico.
C’è uno stato di armonia tra i due ruoli. Quando si parla dell’idea che anche i munadalin e le munadilat (combattenti per la libertà) possano fare passi da gigante nel campo della ricerca e dell’accademia, si arriva a ciò che è noto come l'”intellettuale organico”.[3]
Mentre ero in carcere, ero convinta che una forma di resistenza all’interno del carcere fosse l’istruzione. Ecco perché, ad esempio, durante la detenzione ho tenuto un corso sui diritti umani. I giornali scritti dalle detenute erano molto interessanti, perché legavano ciò che le convenzioni stabilivano con il tipo di oppressione o violazione che avevano subito.
Ho anche contribuito agli sforzi per aiutare le bambine detenute – che erano state arrestate e ferite e che erano state condannate a lunghi anni di carcere – a continuare la loro istruzione. Prima con il liceo, in modo che potessero ottenere il diploma di tawjihi[4] (scuola superiore). Dopodiché, ci siamo battute per il nostro diritto all’istruzione superiore, anche se, tra l’altro, l’istruzione nelle carceri israeliane è vietata. Ma la pratichiamo come una forma di resistenza, perché dobbiamo sempre trovare il modo per imparare, con un’amministrazione carceraria che ci minaccia di confiscare i libri o dichiara il lockdown quando nota ragazze che si radunano in una stanza. Ecco perché l’educazione è una forma di resistenza… Non trovo una separazione tra i due ruoli.
Cosa puoi dire del termine “studioso attivista “, che è strettamente legato alla tua stessa prassi?
Ho scritto una lettera su questo per una conferenza internazionale di letteratura (La lettera è stata contrabbandata dalla prigione di Damon ed è stata scritta nell’ottobre 2020). Le mie figlie hanno parlato all’evento, anche Suha.
Nel 2015, durante il mio secondo arresto, c’era un numero enorme di detenute che erano bambine, quindi ho chiesto perché non ci fosse l’istruzione superiore. Perché nelle carceri, per i detenuti maschi c’è, ma per le detenute non c’è. Il motivo è che ci sono requisiti accademici da parte del Ministero dell’Istruzione palestinese, ovvero che devono esserci prigionieri che hanno una laurea o un master per poter insegnare. A quel tempo, purtroppo, non c’erano detenute che avessero una laurea, e quindi la mia presenza in prigione aveva aiutato.
Qui è dove diciamo che anche la pratica insegna, perché c’erano idee innovative da parte di tutte. Ad esempio, non c’è un tavolo, come possiamo crearne uno? C’era una piccola finestra di plastica: la smontavamo e ci mettevamo sopra un foglio, così potevamo trasformarla in un tavolo e usare un asciugamano per cancellare il pennarello.
I carcerieri israeliani hanno iniziato ad entrare e a perquisire le stanze. Una volta hanno confiscato ogni penna e taccuino. È una lotta, ed è qui che si parla di educazione che è resistenza, educazione e intellettualizzazione di chi resiste.
Qual è il ruolo delle detenute nel movimento dei detenuti o nella resistenza dall’interno del carcere?
Le detenute fanno parte del movimento dei detenuti. I prigionieri guardavano le prigioniere e dicevano: “No, abbiamo paura per loro, non hanno bisogno di prendere parte ad alcuna azione collettiva “. Ma anche questo faceva parte della lotta femminista: dichiarare che anche noi detenute facciamo parte del movimento e non possiamo essere escluse. Questa era una discussione in corso, perché le detenute volevano esercitare il loro diritto a far parte della guida di questo movimento. È anche una questione di nidal (lotta) tra una mentalità patriarcale che guarda alle detenute in un certo modo – dal loro punto di vista era una forma di empatia verso le donne – ma dal mio punto di vista, le donne rappresentano qualcosa di diverso. Anche noi siamo parte di questa lotta, e quindi anche noi possiamo scegliere, non vogliamo che le persone decidano per noi.
In che modo l’amministrazione carceraria cerca di separare le detenute dagli altri detenuti e dal mondo esterno?
Ad esempio, l’amministrazione carceraria cerca di negare le visite. Il mio ultimo arresto è stato durante il COVID-19. Con il pretesto del COVID, avevano implementato procedure per isolarci. Non c’erano visite di famiglia, anche se i carcerieri andavano e venivano. Avevano notevolmente ridotto le visite degli avvocati; avevamo smesso di andare in tribunale, quindi praticamente non vedevamo nessuno, davvero. Abbiamo vissuto per quasi due anni in un isolamento quasi completo fino a quando non hanno iniziato a consentire le visite, ma anche allora hanno posto delle restrizioni. I membri della famiglia dovevano essere vaccinati – due o tre dosi – e solo una persona della famiglia poteva far visita una volta al mese.
Cosa speri di ottenere dal tuo studio di ricerca?
La prima cosa è che mancano studi sulle prigioniere palestinesi da cui i ricercatori possano trarre vantaggio. In secondo luogo, è un’opportunità per creare un database – e credo che Birzeit sia particolarmente ben strutturato per questo, per documentare non solo le prigioniere, ma anche i prigionieri maschi, e non solo dal 1967, ma anche i prigionieri al tempo del mandato britannico. Il terzo obiettivo, ovviamente, è fare luce sulla questione. Siamo un popolo colonizzato, abbiamo subito molte prigionie, quindi vale la pena documentare queste esperienze.
Come pensi che l’università possa essere un incubatore per il discorso e la ricerca sui detenuti, considerato che si rivolge a persone che non hanno, o hanno un rapporto limitato, con queste esperienze di molti ex detenuti? E qual è il ruolo di questa ricerca nella società palestinese, o nel movimento di liberazione palestinese?
Dobbiamo andare alla materia o al concetto di educazione liberatoria.[5] Credo che questo tipo di educazione sia fondamentalmente legato alla partecipazione, e all’insegnamento partecipato. Prima di tutto, un gran numero di studenti è minacciato di arresto o di morte. Quindi è molto importante, se vogliamo stabilire il concetto di un’istruzione liberatoria – che è molto lontana dall’istruzione di mercato – che le nostre università servano da esempio, perché stiamo parlando di università che sono sotto una forma di controllo coloniale che è praticato contro il popolo palestinese. L’importanza delle università è la produzione di conoscenza, non solo la trasmissione della conoscenza. Ci sono già tali innovazioni in molte università, inclusa Birzeit. Ad esempio, il corso del professor Abdelrahim Al Shaikh, “Quaderni della prigione: il movimento dei prigionieri palestinesi”.
Un’ultima domanda sul recente evento che ha avuto luogo a Birzeit a cui lei ha partecipato – “Gilboa 2021: The Tunnel and the Horizon”[6] – come ha fatto a riunire diverse parti della società palestinese per co-produrre questa conoscenza?
Credo che il processo stesso di ospitare l’evento – ancor più di quanto si è detto – abbia catturato questo quadro. Stiamo parlando di cosa significa ottenere la libertà, sul concetto di libertà dal punto di vista dei prigionieri, e la stessa fuga è stata una forma di partecipazione collettiva a un evento che ha avuto luogo in tutta la Palestina.
Il workshop è stato un esempio di quella che può essere nella pratica una forma di educazione liberatoria. C’era un pubblico enorme, che in termini di studenti, è importante, perché ultimamente c’era stato un minor coinvolgimento in tali eventi. Quindi questo numero enorme di studenti – diversi tra loro e provenienti da diverse parti della società – il livello di coinvolgimento, il silenzio durante l’evento mentre tutti cercavano di ascoltare gli oratori… se solo avessimo potuto entrare in contatto con i prigionieri stessi, ma almeno erano testimoni indiretti dell’evento. Credo che questi tipi di seminari siano davvero importanti e servano da esempio di ciò che dovrebbe essere ampliato per sviluppare il tipo di istruzione che vogliamo qui in Palestina.
[1] Comprador è un termine per una persona che funge da agente locale per organizzazioni straniere, ma che è stato successivamente sviluppato da Franz Fanon nell’idea di una classe comprador, o élite nativa, che ha assunto il ruolo di classe dirigente coloniale .
[2] L’habba del 2015, che in arabo significa “impennata” o “rivolta”, è iniziata a Gerusalemme nel 2015 ed è stata caratterizzata da atti di resistenza, attacchi e proteste individuali.
[3] L’intellettuale organico, o المثقف العضوي in arabo, è un concetto sviluppato da Antonio Gramsci, di intellettuali che, a differenza degli intellettuali d’“élite” classici, sono organicamente legati alle classi che rappresentano e si preoccupano delle condizioni delle classi nel suo insieme.
[4] Diploma di scuola media superiore.
[5] Un concetto sviluppato dalla Pedagogia degli oppressi di Paulo Freire, 1972.
[6] L’evento, ospitato dal Prof. Abdelrahim Al Shaikh per il corso “Quaderni della prigione”, ha visto la partecipazione dei fratelli di tre dei sei prigionieri palestinesi dalla famosa fuga dalla prigione di Gilboa avvenuta nel settembre 2021, tra cui Yahya Zubeidi, Ahmad Aradah, Sari Orabi, anche loro ex prigionieri. La tavola rotonda è stata moderata da Khalida Jarrar.
Ayah Kutmah è Visiting Research Fellow presso il Muwatin Institute for Democracy and Human Rights presso la Birzeit University. Ayah ha conseguito la laurea presso l’Università del Michigan ed è una beneficiaria dell’ETA Fullbright degli Stati Uniti 2020-21 nella Cisgiordania occupata.
Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” -Invictapalestina.org