La violenza israeliana è al centro della crisi di salute mentale in Palestina

La risposta per migliorare il benessere dei palestinesi non risiede nelle soluzioni individualizzate del modello Global North, ma nella fine del colonialismo sionista.

Fonte:  english version
Di Layth Hanbali – 26 maggio 2022

Lo scorso maggio, Israele ha lanciato un assalto di 15 giorni alla Striscia di Gaza, uccidendo 256 palestinesi, ferendone 2.000 e bombardando 232 edifici e palazzi residenziali, costringendo oltre 70.000 persone a fuggire dalle loro case. Da allora, la violenza israeliana contro i palestinesi non è diminuita. Il continuo deterioramento delle infrastrutture dovuto al blocco da parte di Israele, in vigore dal 2007, ha reso non potabile il 97% dell’acqua di Gaza. I palestinesi a Gaza ricevono dalle 12 alle 13 ore al giorno di elettricità. Il 53% degli abitanti di Gaza vive al di sotto della soglia di povertà. Nel frattempo, Israele va avanti con i piani per espropriare i palestinesi delle loro case e della loro terra in tutta la Palestina colonizzata, inclusa la Valle del Giordano, Beita, Gerusalemme, Masafer Yatta e il Naqab. I coloni israeliani in Cisgiordania stanno attaccando i palestinesi con crescente intensità, con la totale complicità dello Stato israeliano.

Purtroppo, non è una sorpresa constatare una diffusa crisi di salute mentale tra i palestinesi. Molti palestinesi sono costantemente afflitti dalla paura della violenza. Come riportato da  Medici Senza Frontiere, che fornisce una serie di servizi medici e psicologici ai palestinesi, Mohammed, un 23enne della Striscia di Gaza, dice di essere preoccupato per la guerra invece che  pensare  a un  futuro radioso. Adel, residente in un villaggio che è stato spesso preso di mira dagli attacchi dei coloni contro i palestinesi, ha detto a Medici Senza Frontiere: “Viviamo in uno stato di costante paura. Ognuno si sente stressato per sè stesso, per i suoi fratelli, per i suoi figli e amici”.

Queste storie sono rappresentative di un campione più ampio. Dopo gli attacchi israeliani alla Palestina del maggio 2021, un team di statistica della Banca Mondiale ha condotto un sondaggio su Facebook, in cui ha scoperto che “il 70% degli abitanti di Gaza e il 57% dei residenti in Cisgiordania intervistati hanno riportato sintomi compatibili con il disturbo da stress post-traumatico”.

La maggior parte delle organizzazioni che lavorano nell’ambito della salute mentale rispondono fornendo servizi psicologici individuali per raggiungere un numero sempre crescente di persone che mostrano sintomi di malattia mentale, cercando di aiutarli. L’ingiustificata focalizzazione su questo modello di cura è radicata nei modelli sanitari del Global North (Il gruppo di Paesi che si trovano in Europa, Nord America e nelle parti sviluppate dell’Asia), che trascurano gli ambienti che determinano la salute e il benessere delle persone, concentrandosi invece esageratamente su servizi individualizzati e ipermedicalizzati che si occupano di ciò che viene percepito come malattie mentali. Questo modello di cura individualizzato è incapace di diagnosticare o curare la crisi di salute mentale in Palestina.

Il concetto fondamentale di una “malattia” è quella di un individuo che subisce un’interruzione della propria quotidianità a causa di qualcosa che lo colpisce personalmente. Ma un palestinese che sperimenta stress, mancanza di speranza o pensieri negativi persistenti in risposta a una colonizzazione che mira a cancellarli non è necessariamente un segno di malattia. Come sottolinea la dottoressa Samah Jabr, direttrice del Dipartimento di Salute Mentale presso il Ministero della Salute palestinese, molti sintomi di malattia mentale “sono una reazione normale a un contesto patogeno”. La violenza coloniale, uccidere, mutilare, incarcerare ed espropriare i palestinesi, è la malattia.

Allo stesso modo, la diagnosi del disturbo da stress post-traumatico, la condizione di salute mentale più comunemente diagnosticata in Palestina, è semplicemente imprecisa. Il trauma in Palestina è spesso indicato nelle  intense campagne di bombardamenti di Israele, i nelle quali vengono uccisi centinaia di palestinesi nel giro di pochi giorni. In realtà, però, il trauma è costante. Dal “cessate il fuoco” dello scorso maggio, Israele ha ucciso 86 palestinesi, tra cui l’icona nazionale Shireen Abu Akleh,  la giornalista  assassinata dalle forze israeliane mentre seguiva un’operazione dell’esercito israeliano nel campo profughi di Jenin. L’incarcerazione di massa, le restrizioni ai movimenti, la demolizione di case, l’accaparramento di terre e il diniego del diritto dei rifugiati di tornare alle loro case continuano. Israele ha persino attaccato i funerali palestinesi, impedendo ai palestinesi  di poter piangere in pace.

Pertanto, comprendere la crisi di salute mentale richiede guardare oltre le diagnosi individuali, per riconoscere la violenza a cui Israele sottopone i palestinesi. Allo stesso modo, prevenire e curare questi sintomi dovrebbe concentrarsi sulla fine della violenza coloniale che li causa.

L’altra inadeguatezza dei modelli occidentali è che trascurano le tradizioni sociali e culturali come potenziali fattori abilitanti del benessere, trattandole invece principalmente come un ostacolo. Nel peggiore dei casi, le iniziative per la salute mentale riprendono false credenze orientaliste, come la stigmatizzazione  della salute mentale in Palestina che “proviene da opinioni religiose che affermano che la malattia mentale è una prova o una punizione di Dio”. Anche i servizi istituiti dai palestinesi, se pure ben intenzionati come il Centro per il Trattamento e la Riabilitazione delle Vittime di Tortura, adottano metodi che individuano la violenza politica e che vanno contro la comprensione di coloro che subiscono tale violenza. Questa imposizione di soluzioni universali da parte del Global North, spesso soppiantando la conoscenza locale, è sintomatica della colonialità.

Affrontare la crisi della salute mentale in Palestina, quindi, richiede lo smantellamento di due strutture coloniali: la colonialità e il colonialismo dei coloni. Spezzare le catene della colonialità significa radicare soluzioni nella conoscenza, nella cultura e nella tradizione locali. Piuttosto che fornire servizi psicologici ancora più individualizzati, ad esempio, gli esperti di salute mentale dovrebbero sostenere la lunga tradizione palestinese del sumud, che descrive la resilienza e la fermezza come resistenza anticoloniale che è il prodotto della solidarietà e del sostegno della comunità. Per farlo è necessario che le comunità riacquistino il potere per articolare e pianificare i servizi di cui hanno bisogno.

Grazie al lavoro instancabile di studiosi e attivisti palestinesi, c’è un crescente riconoscimento della centralità del colonialismo sionista dei coloni nel danneggiare la salute e il benessere dei palestinesi. Gli operatori sanitari sono spesso riluttanti a essere visti come attivisti politici, ma un numero crescente di professionisti e studiosi, politici e sanitari stanno dimostrando che queste cose sono profondamente connesse. Quindi l’impegno di studiosi e professionisti per la salute dei loro pazienti e della popolazione deve portarli a essere politicamente attivi e chiedere coraggiosamente la decolonizzazione. Sebbene questi sembrino obiettivi irraggiungibili, tali soluzioni trasformative sono necessarie se vogliamo arginare la crisi della salute mentale in Palestina.

Layth Hanbali è un consulente politico di Al-Shabaka.

Traduzione di Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org