Un viaggio attraverso il regime in continua evoluzione dei checkpoint israeliani

ll valico di Erez a Gaza ricorda come, da Allenby a Qalandiya, Israele ridisegna costantemente le sue strutture di dominio.

Fonte: english version
Di Fatima Abdul Karim – 3 giugno 2022

Immagine di copertina: Palestinesi camminano attraverso il tunnel di rete metallica lungo un chilometro attraverso la “zona vietata” tra il valico israeliano di Erez e Beit Hanoun, nella Striscia di Gaza, 18 dicembre 2013. (Ryan Rodrick Beiler/Activestills)

Sono rimasta sbalordita dal valico di Erez, il posto di blocco controllato da Israele che conduce nella Striscia di Gaza assediata. La distesa di vetri antiproiettile tutt’intorno a me, mentre attraversavo il posto di blocco in un recente viaggio, mi ha fatto pensare alle stanze della borsa valori viste in TV. L’interno del nuovo grande edificio del checkpoint è minimalista, vuoto di quasi tutto tranne che per le telecamere di sorveglianza, i cancelli azionati dall’interno e le guardie di sicurezza armate sparse in giro.

Entrando nel terminal, i palestinesi vengono immediatamente separati dagli stranieri. Il bagaglio viene monitorato su uno scanner e i documenti dei viaggiatori vengono controllati; ho posizionato la mia carta magnetica rilasciata dal COGAT sul lettore elettronico, ho fissato lo scanner dell’iride e mi è stato permesso di passare.

Ho seguito cartelli indicativi con la scritta “Per Gaza” appesi alle pareti spoglie. Mi sono ritrovata a camminare attraverso un lungo corridoio che raccontava storie strazianti di altri viaggiatori: forniture mediche usa e getta e una garza macchiata di sangue erano sparse per terra, accanto a sedie a rotelle in attesa di essere usate.

All’uscita, poco prima di lasciare Gaza, ho sentito quelle finestre di vetro incombere su di me, a vegliare sugli invasivi controlli corporei condotti con forza su ogni viaggiatore; uomini e donne, giovani e meno giovani, sono stati costretti a stare in piedi con le gambe spalancate, le braccia alzate e le mani vicino alle orecchie mentre venivano esaminati da un body scanner.

Una volta terminato, ho aspettato dall’altra parte per recuperare il mio bagaglio e la mia borsa a mano. Erano stati accuratamente perquisiti, con i miei vestiti e oggetti personali, incluso il mio telefono e un minuscolo disinfettante per le mani, chiaramente tirato fuori dalle borse e riposto frettolosamente. È qui che entra in gioco l’applicazione dell’elenco degli articoli vietati dall’ingresso a Gaza, inclusi dentifricio e shampoo. È per questo che mi sono assicurata che non ci fossero nient’altro che vestiti nella mia borsa: nessun deodorante, crema solare o bustine di camomilla che mi piace portare ogni volta che viaggio.

Palestinesi arrivano per attraversare Gaza al valico di Erez tra Israele e Gaza, 3 settembre 2015. (Yonatan Sindel/Flash90)

A Erez, oltre alle postazioni israeliane  ci sono altre due fermate sul percorso per entrare e uscire da Gaza: una gestita dall’Autorità Palestinese controllata da Fatah, chiamata “5-5”, dal nome del codice dato alle chiamate di coordinamento tra l’Autorità Palestinese e gli israeliani al valico; e un’altra gestita dalle autorità di Hamas, a cui è stato dato il nome “4-4”. E’ una disposizione assurda, di facciata, per creare l’impressione di controllo. Era anche la prima volta che mi trovavo faccia a faccia con questo elemento della divisione politica intra-palestinese, iniziata nel 2007 poco dopo le ultime elezioni generali palestinesi. Pensavo di sapere tutto di questa divisione, ma vederla all’attraversamento mi ha comunque colpito.

Il tavolo che espone tutto di noi

Da millennial nata negli anni ’80, ho visto in Erez la storia di quanto il checkpoint israeliano, questa struttura di dominio, si sia evoluto nel corso degli anni. Il labirinto di porte strette, sorvegliato e controllato da osservatori nascosti dietro le finestre di vetro, mi ha ricordato i corridoi del Ponte di Allenby, l’attraversamento tra la Giordania e la Cisgiordania occupata. Erano più simili a tunnel per bambini piccoli, con porte e tende arancioni che nascondevano minuscole sale d’attesa.

Ogni estate da bambina, mentre la mia famiglia viveva in esilio per scelta (il mio defunto padre, però, era stato esiliato con la forza), viaggiavamo da Sharjah negli Emirati Arabi Uniti ad Amman in Giordania, poi a Gerico in Cisgiordania. Questa tradizione annuale ha creato una serie di ricordi, fondendo le procedure di sicurezza dell’aeroporto con la matrice dei controlli di sicurezza in quei tunnel arancioni ad Allenby.

I miei amici e la mia famiglia, inclusa mia madre che organizzava questi viaggi quasi da sola, hanno ancora forti ricordi di aver attraversato quei valichi negli anni ’80. Mi hanno raccontato come, dopo che i loro passaporti o documenti d’identità erano stati controllati dai soldati, i palestinesi venivano mandati in un’area d’attesa dove facevano togliere loro le scarpe per ispezionarle. Il loro bagaglio svuotato e controllato su un nastro scorrevole. Poi, uno per uno, i viaggiatori venivano perquisiti in stanze separate. In una terza sala d’attesa, un soldato riportava le scarpe ispezionate in una scatola di plastica, gettandole in una pila di altre scarpe che i viaggiatori dovevano cercare da soli.

Un autobus attraversa il Ponte di Allenby/Re Hussein che collega Gerico in Cisgiordania alla Giordania. (Flash90)

Anch’io ho molti ricordi d’infanzia di quei posti di blocco. Ricordo che ero abbastanza alta da poter sbirciare sopra il tavolo di ispezione su cui erano stati riversati i nostri effetti personali e perquisiti a mano, mentre ero anche in grado di vedere facilmente sotto di esso. Ricordo di aver allungato la mano per afferrare i pennarelli da colorare che i soldati lanciavano in una scatola di plastica a terra, il che significava che potevamo portarli con noi.

Ricordo come una maglietta della maratona con la bandiera palestinese scatenò il panico tra i soldati mentre frugavano tra i nostri vestiti. Ricordo la tristezza sul volto di mia madre quando un barattolo di miele preparato da mio zio  fu confiscato e gettato in un cestino sotto il tavolo, quel tavolo che  esponeva  tutto di noi palestinesi, dai nostri preziosi doni alle nostre mutande.

Un goffo tentativo di allietare i dominati

La trasformazione del checkpoint di Qalandiya, costruito tra Gerusalemme Est e Ramallah pochi mesi dopo la Seconda Intifada, ha forse subito la trasformazione più profonda. Originariamente era nato come una postazione militare israeliana temporanea con uno stretto e lungo corridoio recintato, adatto solo per le pecore, mi dicevo ogni volta che passavo, dove  i pendolari che vanno a Gerusalemme Est e anche tutti quelli che escono o entrano da Ramallah venivano controllati.

Alla fine, le postazioni dei soldati si trasformarono in guardiole di calcestruzzo; il tetto, costruito per fornire copertura ai palestinesi di passaggio dal sole cocente estivo o dalla pioggia battente invernale, è arrivato più tardi. Subito dopo è arrivato l’alto muro di separazione in cemento, che si estende da entrambi i lati del checkpoint come le ali di un uccello.

Quando è stato completato intorno al 2005, il muro di separazione di Qalandiya ha isolato il “quartiere dell’aeroporto” che un tempo ospitava l’aeroporto di Gerusalemme, il fulcro del sogno palestinese di volare fuori dal Paese a nostro piacimento. Ha anche lasciato dietro di sé diversi quartieri come Kufr Aqab e Dahiyet al-Barid, allora casa di circa 20.000 palestinesi, che possedevano carte di residenza permanente a Gerusalemme ma ora erano tagliati fuori dalla barriera di cemento.

Palestinesi attraversano il checkpoint di Qalandiya, fuori dalla città di Ramallah, in Cisgiordania, il 9 giugno 2017, per partecipare alla seconda preghiera del venerdì del mese di digiuno del Ramadan nel complesso della moschea di Al-Aqsa. (Flash90)

Oggi, Qalandiya è diventato un grande complesso chiamato “Valico di Atarot”. Come i suoi posti di blocco gemelli, i lunghi corridoi esterni conducono a un secondo corridoio labirintico, largo appena un metro, che immette in un edificio simile a un terminal. La traversata è quasi costantemente affollata, o progettata per esserlo. L’Amministrazione Civile, il braccio burocratico dell’occupazione, ha spostato i propri uffici per i richiedenti dall’intera area del distretto di Ramallah al posto di blocco, aggiungendosi all’ingorgo.

Quando oltrepasso il checkpoint riesco a vedere i soldati  e posso vedere che loro vedono me. Sono seduti dietro quelle che sembrano finestre insonorizzate e antiproiettile, senza alcun interesse a sentire quello che ho da dire. Ci parlano attraverso altoparlanti, per lo più incomprensibili a causa del loro scarso accento arabo e degli altoparlanti di bassa qualità. Se non si riesce a capire cosa si deve fare, si è lasciati soli a capirlo mentre i palestinesi in attesa irritati e impazienti, che stanno cercando di superare questa umiliazione il più rapidamente possibile, perdono la calma.

L’intero checkpoint è un supplizio mentale e psicologico. È lo stesso se si passa attraverso Kufr Aqab, un quartiere palestinese fuori dal muro di separazione ma sotto l’amministrazione israeliana, o Al-Ram, dove l’Autorità Palestinese afferma di avere un certo controllo, entrambi simili alle diverse sfumature di caos e illegalità sotto l’occupazione.

Quest’anno il checkpoint è stato addirittura decorato con le luci del Ramadan, un goffo tentativo di allietare i dominati. È stata un’altra indicazione di quanto l’effettiva annessione dei Territori Occupati da parte di Israele sia diventata fin troppo chiara e si sia spinta troppo oltre per arretrare, specialmente nella mente dei palestinesi più giovani, per i quali la Linea Verde è poco più che un’idea astratta.

Cancellazione della memoria intergenerazionale

Camminando lungo il viale della memoria dall’Allenby degli anni ’80 all’Erez del 2022, non ho potuto fare a meno di pensare all’evoluzione dei checkpoint e dei valichi. In qualche modo, inconsciamente, l’emergenza della maglietta della maratona, gli occhi di mia madre sul barattolo di miele confiscato e il mio desiderio per quei pennarelli colorati hanno oscurato i miei preparativi per il mio viaggio a Gaza. E a Erez, ho riconosciuto come, man mano che il divario generazionale palestinese si allarga, anche la nostra memoria spaziale collettiva è stata decostruita.

Lavoratori palestinesi aspettano al valico di Erez a Beit Hanoun, nel Nord della Striscia di Gaza, mentre attendono di entrare in Israele per lavoro, il 13 marzo 2022. (Attia Muhammed/Flash90)

Uscendo da Gaza, mi ha colpito il fatto che i punti di riferimento intergenerazionali all’interno dell’enclave, dai boomer nati negli anni ’50 alla generazione Z, i nati approssimativamente tra la fine degli anni ’90 e i primi anni del 21° secolo, con i millennial intrappolati nel mezzo, fossero stati completamente devastati dal blocco.

C’è un’intera generazione di giovani palestinesi a Gaza, circa 1 milione sotto i 18 anni, che hanno vissuto tutta la loro vita sotto assedio e sotto il governo di Hamas. Un terzo di quella popolazione ha meno di 15 anni, il che significa che in pochi anni più della metà della popolazione avrà poca memoria della storia precedente della Striscia o del paesaggio fisico che è stato gradualmente distrutto nelle guerre successive. Mancando quei ricordi, avranno sempre meno in comune con i loro genitori.

I millennial potrebbero essere l’unica generazione a ricordare questo legame. Per la nostra generazione, oltre all’esaurimento e alla devastazione di Gaza, nulla sembra essere sufficiente per descrivere il dolore per la perdita dei principali monumenti ed edifici distrutti nell’ultima guerra appena un anno fa, fatta eccezione per gli spazi vuoti dove una volta si trovavano. Per tutto il tempo, i checkpoint israeliani, nonostante le loro continue riprogettazioni, rimangono in piedi.

Fatima Abdulkarim è una giornalista residente a Ramallah.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org