Quarant’anni dopo l’invasione del Libano nel 1982, Israele persiste con i suoi folli impulsi omicidi in Palestina e altrove.
Fonte: english version
Belen Fernandez – 4 giugno 2022
Immagine di copertina: La ‘Linea Verde’ che separava Beirut Ovest dall’est della città, durante l’assedio israeliano nel 1982 [James Case/Wikimedia Commons]
La copertina dell’annuario dell’American University of Beirut (AUB) del 1982 presenta uno schizzo in bianco e nero di un edificio del campus, con sullo sfondo le immagini ritagliate e colorate di una dozzina di studenti. Alcuni di loro indossano un abbigliamento sportivo che è vistosamente degli anni ’80; altri sono raccolti attorno a un venditore di succo d’arancia.
Aprendo l’annuario alla prima pagina, la scena diventa decisamente meno piacevole. Un’immagine del cancello principale dell’AUB – blasonato con il motto dell’università in inglese e arabo: “Che possano avere vita e averla più abbondantemente” – è sovrapposta a una fotografia del fumo che sale dagli edifici. Il Comitato “Annuario AUB” spiega nella sua introduzione che, mentre intendevano dedicare le prime 16 pagine del libro al tema del “ripristino della rappresentanza studentesca”, quel piano era fallito quando, il 4 giugno, Israele invase e occupò il Libano.
Il Libano era già da sette anni funestato dalla sua sanguinosa guerra civile del 1975-90, ma l’invasione israeliana portò a un altro livello di ferocia. L’assedio israeliano di “Beirut Ovest ” – l’etichetta riduzionista assegnata in tempo di guerra alla cosiddetta metà “musulmana” della capitale libanese, dove si trova AUB – durò dal giugno all’agosto del 1982, lasciando i residenti senza cibo, acqua, elettricità, o carburante. Il termine “Beirut Ovest ”, ha osservato il Comitato dell’Annuario, era “diventato sinonimo di disastroso”.
Eppure anche “disastroso” era dire poco, come si evince dalle 16 pagine di foto di attacchi aerei, edifici crollati, macerie, veicoli in fiamme, bambini con la testa fasciata, una donna anziana in un letto d’ospedale e una mano a terra, staccata dal suo corpo. Gli Stati Uniti, naturalmente, avevano dato il via libera all’invasione.
Mi sono imbattuta nell’annuario del 1982 a casa di un mio amico, uno studente dell’AUB, qui a Beirut, dove inconsapevolmente sono arrivata giusto in tempo per il 40° anniversario dell’invasione israeliana. Prima della pandemia, ero una visitatrice abituale del paese fin dal 2006, per inciso l’anno di un’altra invasione israeliana, quando l’esercito israeliano aveva allo stesso modo deriso l’idea che le persone in Libano potessero “avere la vita e averla in abbondanza”.
L’invasione del 1982, che il governo israeliano vendette come “Operazione Pace per la Galilea”, avrebbe avuto luogo come rappresaglia per il tentato omicidio di Shlomo Argov, l’ambasciatore di Israele in Gran Bretagna. Anni dopo, il Guardian osservò drammaticamente: ” E’ dall’uccisione dell’arciduca Ferdinando a Sarajevo nel 1914, che una squadra di sicari ha reso la guerra un risultato così probabile”, fornendo un “pretesto” all’allora ministro della Difesa israeliano Ariel Sharon per la sua “campagna a lungo pianificata per eliminare” l’OLP, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina con sede a Beirut.
Non importa che l’OLP avesse condannato il tentativo di omicidio – o che in primo luogo non ci sarebbe mai stato un’OLP se Israele nel 1948 non avesse massacrato 10.000 palestinesi e trasformato altri tre quarti di essi in milione in rifugiati.
Nel suo libro di memorie sulla guerra civile libanese “Beirut Fragments”, Jean Said Makdisi – una scrittrice e studiosa palestinese residente a Beirut e sorella del defunto Edward Said – ricorda che, all’inizio di “Peace for Galilee”, si sentì molto parlare di Argov, il nominato casus belli. Ma che alla fine una simile motivazione aveva avuto vita breve: “Dopo un po’ nessuno menzionò più l’ambasciatore, finché – parecchie decine di migliaia di morti dopo; diverse centinaia di migliaia di profughi più tardi; dopo che gran parte di Tiro, Sidone, Damour e Beirut, per non parlare di dozzine di altre città e villaggi, erano state distrutte, sul giornale apparve un breve articolo nel quale si informava che era sopravvissuto ed era stato dimesso dall’ospedale”.
A un certo punto, Said Makdisi si chiede se sia possibile esprimere a parole l’orrore dell’assedio, descrivendo “il cielo arancione con la luce innaturale delle bombe al fosforo che esplodono; le urla sibilanti dei jet che sfrecciano verso la morte”. Il 4 agosto il figlio le sussurra: “Mamma, oggi moriremo; di sicuro, moriremo”.
Gli orrori continuano. Le famiglie impossibilitate a raggiungere il cimitero a causa dei pesanti bombardamenti sono costrette a gettare in mare i corpi dei propri cari e il crematorio dell’ospedale AUB non è in grado di tenere il passo con la domanda. Il debutto a Beirut della bomba termobarica vede un edificio di otto piani nel quartiere di Sanayeh polverizzato insieme a tutti quelli che vi si trovano. Il 12 agosto – il giorno del cessate il fuoco, a seguito dei negoziati per l’imminente evacuazione dell’OLP da Beirut – Said Makdisi è in piedi sul balcone mentre l’esercito israeliano continua il suo bombardamento: “Era come se gli israeliani avessero raggiunto un parossismo di odio violento; un impulso folle e distruttivo di uccidere, cancellare ogni essere vivente, non lasciare nulla in piedi, sradicare la città”.
Questo, ovviamente, non è stato l’ultimo parossismo di odio violento sponsorizzato da Israele. Il mese successivo, dal 16 al 18 settembre, diverse migliaia di civili palestinesi e libanesi disarmati furono massacrati nei campi profughi di Sabra e Shatila a Beirut dalle milizie libanesi di destra sostenute da Israele. Le forze armate israeliane avevano circondato i campi e usato razzi per illuminare la strada degli assassini. Come documenta Bayan Nuwayhed Al-Hout nel suo libro “Sabra and Shatila: September 1982”, l’uccisione di bambini e fanciulli non ancora nati fu “un fatto comune” durante il massacro, con i miliziani che accoltellavano le donne incinte e ne strappavano i feti dal ventre.
Alla fine di settembre 1982 Israele si ritirò dalla capitale libanese, sebbene per altri 18 anni l’esercito avrebbe continuato a presiedere una pesante occupazione nel Libano meridionale. Dopo il ritiro da Beirut, osserva Said Makdisi, i residenti della città cominciarono a sentire “l’aspetto più straordinario” dell’occupazione; i soldati israeliani avevano defecato dappertutto: su libri, vestiti, tappeti, mobili, banchi di scuola, ecc..
Al posto della morte sfrenata e della distruzione, quindi, rimase un “grande mucchio di escrementi” – un “fetore cosmico” che fungeva da memoriale dell’assedio. Ora, 40 anni dopo l’invasione del Libano nel 1982 – mentre Israele persiste con i suoi folli impulsi di uccidere in Palestina e altrove – il fetore è ancora cosmico.
Le opinioni espresse in questo articolo sono proprie dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.
Belen Fernandez è l’autrice di Checkpoint Zipolite: Quarantine in a Small Place (OR Books, 2021), Exile: Rejecting America and Finding the World (OR Books, 2019), Martyrs Never Die: Travels through South Lebanon (Warscapes, 2016), e The Imperial Messenger: Thomas Friedman al lavoro (Verso, 2011). È redattrice e collaboratrice di Jacobin Magazine e ha scritto per il New York Times, il blog London Review of Books, Current Affairs e Middle East Eye, tra numerose altre pubblicazioni.
Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono oralmente uguali! -Invictapalestina.org