Come Mashrou’ Leila abbiamo assistito alla repressione dei nostri fan LGBTQ+ e alla devastazione del nostro paese d’origine, il Libano. La musica è ciò che ci aiuta a condividere questo peso.
Fonte: english version
Haig Papazian – mercoledì 22 giugno 2022
Immagine di copertina: Haig Papazian della band libanese Mashrou’ Leila nel documentario del Guardian “Beirut Dreams in Colour”. Fotografia: Il Guardiano
Nel 2017, la nostra band Mashrou’ Leila chiese agli studenti statunitensi di immaginare un evento musicale, intitolato “The Great Gig in the Sky “, che “salvasse” il mondo e nel quale avrebbero potuto decidere quale storia raccontare.
Da quando siamo nati in Libano 10 anni fa, la nostra musica sembra aver creato continue polemiche come band indie rock, rimasta ferma nel sostenere i diritti queer e nel criticare la società e la politica libanese.
Nel 2017 eravamo artisti interni presso l’Hagop Kevorkian Center della New York University, esplorando come la musica può catalizzare il cambiamento sociale e politico. Il giorno prima del nostro arrivo, ci eravamo esibiti in un concerto al Cairo che finì per cambiare radicalmente il corso della band. Il giorno successivo, il governo egiziano avviò la repressione contro la comunità LGBTQ+ e arrestò molti dei nostri fan dopo che sulle piattaforme dei social media furono pubblicate le foto con loro che sventolavano una bandiera arcobaleno . Allora non sapevamo che quello sarebbe stato il nostro ultimo concerto in Egitto, e che avrebbe influenzato la nostra possibilità di esibirci in altri paesi arabi. Il nostro seminario alla New York University si trasformò in una piattaforma per discutere di ciò che era accaduto, poiché la notizia non veniva riportata da nessuno dei media statunitensi. E il nostro tour continuò in Nord America, il che ci illuse che le cose alla fine sarebbero andate bene.
Ma quando tornammo a Beirut nel 2018 per incidere il nostro quinto album, la gioia si trasformò in disperazione. La casa che avevamo creato si trasformò da luogo di magia a luogo di persecuzione. Eravamo completamente esauriti. Crescendo a Beirut, il dolore e i traumi che condividiamo ci perseguitano. Dalle guerre passate e dalle occupazioni, alle catastrofi più recenti: crollo economico, svalutazione della moneta. Eravamo bloccati in una spirale emotiva, incapaci di andare avanti, una crisi dopo l’altra, senza tempo per piangere. Sapevo che non c’era futuro per me in quella città.
Entro la fine dell’anno mi trasferii a New York in modo più stabile e per un breve periodo mi convinsi che tutto era possibile. Continuai a fare tournée con Mashrou’ Leila ma nel 2019 la serie di eventi che in Libano hanno preso di mira la band, oltre che la crisi economica e politica, cambiarono tutto. Mesi prima della pandemia, sentivo già la solitudine e l’isolamento di chi è stato esiliato, non solo dalla mia casa ma dalla mia vita. Le difficoltà finanziarie furono esacerbate dalla pandemia e anche, direttamente, dalle crisi in Libano (crollo economico, corruzione bancaria e svalutazione della valuta). L’attesa costante, in ogni aspetto della vita, era devastante per lo spirito.
I miei pensieri andavano spesso a Sarah Hegazi, l’attivista egiziana che aveva subito tragiche conseguenze dopo aver sventolato la bandiera arcobaleno al nostro concerto al Cairo e che poi era stata esiliata in Canada. Vogliamo che le nostre storie queer abbiano un lieto fine, ma la realtà è spesso molto più dura. Le persone queer che cercano rifugio e sicurezza in Europa e Nord America per sfuggire alla violenza e alle minacce nei loro Paesi, ora devono affrontare una serie completamente nuova di ingiustizie e discriminazioni. Mentre per tutto il tempo i traumi del nostro passato tornano a perseguitarci. Quindi siamo qui, isolati, lontani da casa, senza l’amore incondizionato e il sostegno delle nostre famiglie e della nostra comunità. Dalle nostre nuove case sicure, guardiamo i nostri mondi e i nostri sogni cadere a pezzi.
Nei primi giorni della pandemia, a New York, cercavo di dimenticare il passato per affrontare i miei traumi, quasi dimenticandomi chi ero una volta. Ero alienato dalla mancanza di empatia di molte delle persone attorno a me. C’era un rumore costante nei miei sogni. Il dolore e l’ansia avevano reso le parole inadeguate e il mondo intero sembrava andare in pezzi, ma attraverso la musica e l’arte potevo creare una casa dove cercare rifugio, piangere, riflettere e trovare speranza. Presi in mano il violino per la prima volta da mesi e suonai per il mondo fuori dalla finestra della mia camera da letto, per i miei vicini, amici e estranei al parco.
Uno dei ricordi più vividi che ho della mia infanzia è mia madre che canta una vecchia canzone popolare, “Groong”, su una gru migrante che può guidarci a casa. Nella cultura armena, la musica andouni è una forma di lamento per gli esiliati che desiderano la propria casa. Dalla mia camera da letto ho condiviso una registrazione video di “Groong” con amici e parenti a Beirut e in Armenia. Come una gru, il video è migrato altrove, moltiplicandosi attraverso copie, registrazioni, modifiche, versioni a bassa risoluzione e solo audio, il tutto condiviso tramite WhatsApp e social media. La registrazione è riuscita a ritrovare la mia strada, con messaggi di gratitudine da sconosciuti di tutto il mondo. C’era speranza.
A volte chiudo gli occhi e vengo riportato a quel concerto al Cairo nel 2017. Riesco a sentire la folla nella mia mente e provo una grande euforia. Trentacinquemila voci che cantano all’unisono la nostra canzone “Kalaam”. Questo è orgoglio. Una casa di 35.000 corpi, voci, anime; il nostro rifiuto collettivo di essere umiliati e messi a tacere. Piangiamo insieme, ci sosteniamo a vicenda, ci celebriamo a vicenda.
In armeno, il detto “tsavet danim” si traduce approssimativamente come “lasciami portare il peso del tuo dolore”. Imparando dalla mia comunità armena che ha subito così tante atrocità nel secolo scorso, ora capisco che la sopravvivenza passa attraverso un senso di comunità in cui tutti sono pronti ad aiutare ad alleviare il dolore dell’altro, qualunque cosa accada.
Più che mai, le nostre voci queer e la rappresentanza pubblica regionale sono così importanti in quanto cerchiamo compassione e coraggio per raccontare le nostre storie e unirci nella nostra pericolosa, spesso letale, lotta per essere noi stessi. Raccogliamo forza e libertà dalle nostre comunità, amicizie e relazioni. La nostra casa, il nostro orgoglio, la costruiremo insieme. Ora forza, facciamo un po’ di rumore.
Haig Papazian è un artista multidisciplinare libanese-armeno e membro fondatore della band libanese Mashrou’ Leila, protagonista di un nuovo film di Guardian Documentaries, Beirut Dreams in Colour. Attualmente vive a New York dove sta sviluppando opere basate sulla natura multiforme della “casa”.
Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” -Invictapalestina.org