Il fenomeno dei senzatetto deriva da molti fattori e non ha una definizione univoca.
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Nagham Charaf – 26 giugno 2022
Accampata davanti alla porta d’ingresso del West House Hotel in Hamra Street a Beirut, Maria risponde con un sorriso alla domanda su cosa l‘abbia ridotta in questo stato: “Non sono una senzatetto, sono una suora che risponde alla chiamata. Il Signore è venuto da me chiedendomi di svolgere i miei doveri religiosi vagando per le strade e i quartieri e diffondendo i suoi insegnamenti”.
Maria tiene il viso nascosto dietro i suoi folti capelli ricci. Quando ancora vagava per le strade di Hamra e dormiva sui marciapiedi, camminava molto lentamente, ripetendo ad alta voce frasi incomprensibili che allarmavano i passanti e li spingevano ad evitarla.
Ogni persona senza fissa dimora ha una storia da raccontare, una storia che narra la sua sofferenza e cosa l’ha portata alla condizione in cui si trova. In essa la realtà si mescola spesso alla fantasia, con contraddizioni che rendono difficile indagare le ragioni esatte che hanno ridotto ciascuno di loro allo stato di senzatetto in una società che esagera l’importanza delle relazioni familiari, e dove l’appartenenza alla famiglia, clan e setta ha la precedenza sull’appartenenza allo Stato.
La solitudine nelle strade
Uno dei punti di ritrovo dei senzatetto è sotto il ponte Cola di Beirut, dove arrivano gli autobus provenienti dalla periferia. Qui usano scatole di cartone come materassi e sistemano i loro pochi averi. Nessuno di loro oserebbe invadere lo spazio che altri hanno rivendicato per sè stessi: i confini sono stati tracciati con fermezza.
Nel 2019 Osama al-Ali, 36 anni, si è trasferito a vivere sotto il Ponte Cola, dopo aver perso tutto ciò che possedeva a causa della crisi economica che ha colpito il Libano. Lavorava a “verniciare mobili”, ma “le cose sono cambiate e il dollaro è salito alle stelle”, dice Osama a Raseef22.
Il trentenne descrive in dettaglio come sia passato da artigiano a senzatetto praticamente da un giorno all’altro: “Le continue interruzioni di corrente continuavano a interrompere e fermare il mio lavoro, e così quando sono rimasto senza alcun reddito, ho deciso di vendere la mia casa e trasferirmi a Beirut per cercare un’opportunità di lavoro e fare soldi, ma da allora sono passato da un fallimento all’altro”.
Osama è padre di tre ragazze che vivono con la madre nella casa della sua famiglia nella regione di Ouzai. Secondo lui, «un uomo che non è in grado di provvedere alla famiglia deve partire per non diventare un peso». Continua a cercare un lavoro con un buon stipendio, ma “lo stipendio che mi è stato offerto non supera i tre milioni di lire libanesi (equivalenti a 110 dollari americani)”. E aggiunge: “Questo importo è appena sufficiente per coprire il costo dei mezzi per andare al lavoro. Per poter tornare dalla mia famiglia, devo essere più produttivo, per garantire loro una casa adeguata”.
Secondo il suo racconto, Osama preferisce essere un senzatetto, piuttosto che apparire debole e indifeso di fronte alla sua famiglia. Dice che “mia moglie non mi ha cacciato, l’ho fatto io stesso”. La sua incapacità di provvedere alla famiglia non è l’unico fattore motivante della sua decisione: il suo soggiorno presso la famiglia della moglie non è accettabile dal punto di vista religioso: “Non posso stare con loro. In casa ci sono altre donne con cui non posso vivere ”, riferendosi alle sorelle di sua moglie.
Da parte sua, Abu Ahmad dorme su un marciapiede nella zona di Cola, a pochi metri dal punto in cui dorme Osama. Dalla sua storia, si evince come abbia scelto di diventare un senzatetto piuttosto che trascurare ciò che è socialmente visto come suo dovere di padre.
Abu Ahmad, 66 anni, rifiuta di vivere con i suoi figli, “per non essere un peso” dice a Raseef22. È un siriano di origine curda. Possedeva una casa nella città di Latakia in Siria, dove si rifiuta di tornare. Dice a Raseef22: “Ho sposato tutti i miei figli e non voglio vivere lontano da loro. Li visito di tanto in tanto, ma mantengo formale il mio rapporto con loro”.
Abu Ahmad è un senzatetto da 15 anni. All’inizio dormiva nella zona di Sabra a Beirut. Ripensa a quel tempo e racconta che “là, tutti mi conoscevano e mi amavano”, senza spiegare cosa lo avesse spinto a lasciare le strade di Sabra per i marciapiedi della rotonda di Cola.
Anche Samir, 54 anni, sta vivendo una storia da senzatetto iniziata nel 2010, quando si è trasferito da Tripoli a Beirut. Dice: “All’inizio dormivo di notte sulle panchine della passeggiata panoramica di Ain Al Mraiseh, o mi nascondevo sulla spiaggia per sfuggire alla polizia municipale”.
Samir è marito e padre di due figli. Racconta di aver vissuto con la sua famiglia in Kuwait e parla di “una donna kuwaitiana che mi ha incastrato per il reato di traffico di droga, mettendomene nella mia borsa dopo che mi ero rifiutato di stare con lei”.
Secondo la sua storia, è stato deportato dal Kuwait in Libano nel 2008, dopo aver trascorso un decennio nelle carceri kuwaitiane. E aggiunge: “Quando arrivai in Libano, andai a casa di mio fratello a Tripoli e rimasi con lui per un anno intero, ma sua moglie mi odiava, quindi mi trasferii a vivere nella casa di mio fratello minore, che non si oppose mai alla mia presenza, almeno fino a che i miei figli non smisero di inviarmi denaro ogni mese, dopo che avevo annunciato loro che mi ero convertito al cristianesimo. Fu allora che mi chiese di andarmene”.
A quel tempo, Samir iniziò durante il giorno un lavoro di pulizia nel parco di Horsh Beirut, ma si mise a chiedere l’elemosina dopo che la sua salute peggiorò. “I mendicanti sono le persone più ricche del Libano”, spiega, “raccolgo circa 500mila lire libanesi al giorno, che distribuisco ai bisognosi perché Gesù ce lo ha comandato”. Alla domanda sulle istituzioni statali, dice: “nessuno chiede di me e solo i passanti si preoccupano per me”, dice.
Vivere da senzatetto non è solo non disporre di un alloggio adeguato. Significa anche la perdita di identità, del benessere emotivo e della sicurezza fisica ed emotiva, e questa è una questione sociale importante
Circa un anno fa, Samir è passato dall’essere “senzatetto a tutte le ore del giorno, all’essere senzatetto part-time”, come dice lui. Durante il giorno va di strada in strada e la sera va all’ “Al-Saada Hotel”, un hotel molto semplice situato all’inizio di Gemmayzeh Street. Lì, affitta un letto in una delle stanze condivise per 50mila sterline libanesi.
Parla di un forte calo del suo stato mentale durante gli anni in cui è stato in prigione . D’altra parte, crede che la sua conversione al cristianesimo sia stata la ragione per “riafferrare la mia mente”. Di conseguenza, nonostante si senta solo e nonostante il desiderio di avere accanto “moglie e figlia”, rifiuta “di aderire alla condizione che la sua famiglia – moglie e figli – pongono perché possa tornare a vivere con loro, che è quella di ritorno all’Islam”. Quindi, Samir ha scelto di trascorrere le sue giornate per strada. “Questo è l’unico modo per me di entrare in contatto con altre persone e magari salutare qualcuno ogni tanto”, dice.
Il resoconto di Abu Ahmad, insieme alle storie di Osama e Samir, potrebbe avere altri aspetti che non sono stati esplorati da questo rapporto, poiché dettaglia solo i resoconti delle condizioni dei senzatetto, specialmente in termini di atteggiamenti delle loro famiglie riguardo al loro stato. Tuttavia, la questione centrale riguarda il ruolo delle autorità interessate – siano esse organizzazioni ufficiali o non governative – nell’affrontare la condizione di senzatetto vissuta da queste persone.
Mentre la paura di Samir di dormire sulle panchine della passeggiata panoramica di Ain Al Mraiseh getta luce sull’approccio adottato dal Comune di Beirut per contrastare i senzatetto, non è nota l’implementazione di alcuna politica per affrontare e risolvere il problema o per dare una qualche assistenza ai senzatetto.
Numeri in aumento
Il direttore dell’ospedale “Divine Providence Zgharta” (sotto alla chiesa Couvent Mission De Vie ad Adma), Boutros al-Rahi, segnala che il monastero aiuta i senzatetto e accoglie gli anziani che rischiano di rimanere senza fissa dimora. Dice: “Quando un senzatetto si rifiuta di recarsi al centro di accoglienza dell’ospedale – ed è ciò che di solito accade – garantiamo i suoi bisogni fornendogli cibo e medicine, dandogli una determinata somma di denaro e visitandolo regolarmente”. Quanto a chi va al rifugio, il direttore conferma che «Noi li aiutiamo in tutti i modi, oltre a fornire loro cure mentali da parte di professionisti».
“In passato, di solito si firmavano contratti con i ministeri competenti”, spiega al-Rahi, “ma al momento l’assistenza statale si è interrotta e ora dipendiamo principalmente dalle donazioni che riceviamo”. Inoltre, il monastero “è in contatto con il Ministero degli Affari Sociali con l’obiettivo di creare un nuovo piano alla luce della situazione attuale”.
Il monastero sta attualmente assistendo 250 persone che vivono all’esterno, mentre il numero di coloro che vi risiedono è di 37 anziani, oltre a quattro letti che sono stati riservati ai casi di emergenza.
Parlando della crescente necessità di questo servizio fornito dal monastero, al-Rahi afferma: “Prima del crollo economico (2019), ricevevamo circa tre chiamate a settimana, ma oggi ne riceviamo quattro in un solo giorno e questo purtroppo è al di là delle nostre effettive capacità di aiuto”.
Al-Rahi ritiene che la crisi economica, la pandemia di Covid e la migrazione dei giovani fuori dal Paese abbiano reso gli anziani un anello debole, che li espone al rischio di diventare dei senzatetto, in particolare le donne. Spiega: «Il numero delle donne che risiedono nel monastero è di 23 su un totale di 37. Ancora oggi non conosciamo il motivo principale di questa percentuale, forse perché le donne nel tempo si indeboliscono socialmente e quindi vengono purtroppo abbandonate, e forse gli uomini sono maggiormente in grado di trovare un modo per portare avanti la propria vita”.
Spiega: “Li raccogliamo dalla strada, dove sono stati esposti a danni fisici e mentali e dove le loro malattie mentali hanno iniziato a manifestarsi; qui il loro trauma viene curato e si tenta di riconnetterli con le loro famiglie”. Conclude: “Se in questo momento decidessimo di fornire 400 posti letto, questo numero non sarebbe sufficiente per ricevere e curare tutti i casi che ci giungono. Vorremmo poter fornire aiuto e assistenza a tutti, ma il crollo (economico) ha interessato anche noi, limitando le nostre risorse”.
I senzatetto non sono visibili
La professoressa di Sociologia all’Università libanese, Layla Chamseddine, sottolinea che i senzatetto sono un fenomeno in crescita in tutti i paesi del mondo. Dice a Raseef22: “Il fenomeno dei senzatetto deriva da molti fattori e non ha una definizione univoca, e questo è il problema principale. Essere senzatetto significa andare oltre l’assenza di un alloggio adeguato. Significa anche una perdita di identità, benessere emotivo e sicurezza fisica interiore ed esteriore, e questo è un grave problema sociale. E dare la definizione di senzatetto, se vogliamo definirlo nella sua accezione più ampia, non è limitarsi solo alle persone che hanno perso la casa, ma anche a ogni persona che rischia di perdere la propria residenza sia per motivi privati che pubblici, o ogni persona che non ha le capacità finanziarie per mantenere la propria casa”.
Mi ero trasferito a vivere a casa di mio fratello minore, che mi aveva accolto. Quando i miei figli smisero di inviarmi denaro dopo che ho annunciato la mia conversione al cristianesimo, mi chiese di andarmene
In Libano, Chamseddine attribuisce l’aumento del numero dei senzatetto all’inasprimento dei “fattori che contribuiscono alla diffusione dei senzatetto”, che sono “povertà, disoccupazione, frammentazione familiare, mancanza di servizi, sfollamento causato da guerre o conflitti , disastri (ad esempio, l’esplosione del porto di Beirut nel 2020), violenza domestica e dipendenza”. Insieme, questi fattori si combinano con “la mancanza di protezione attraverso i sistemi sociali che devono essere forniti dallo stato, in particolare l’assistenza sanitaria, il sostegno sociale, l’abbassamento dei tassi di disoccupazione e la definizione delle politiche per i disoccupati”. Di conseguenza, “in assenza di politiche pubbliche affidabili, gli individui sono lasciati in una posizione debole e diventano vulnerabili alla sofferenza, in modo molto più esponenziale di fronte alle crisi, raddoppiando la probabilità che si verifichino senzatetto, a causa di tutte le ragioni sopra menzionate”.
Tra la legge sugli affitti e l’esplosione del porto di Beirut
Maya Saba Ayon, ricercatrice del Public Works Studio e coordinatrice legale del progetto Housing Monitor (HM), spiega che il governo libanese non garantisce il diritto alla casa e non applica le leggi ad esso relative.
Dice a Raseef22: “Le condizioni, gli standard e i controlli non vengono effettuati, manca la criminalizzazione degli sgomberi forzati e non vengono fornite soluzioni alternative per impedire alle persone di essere a rischio di restare senza alloggio”. Aggiunge: “Lo stato non svolge alcun ruolo nella regolamentazione del settore abitativo e ha ceduto questo ruolo ai proprietari immobiliari che stipulano contratti e li violano ogni volta che vogliono”.
Continua: “Secondo un rapporto diffuso dall’Housing Monitor (HM), negli ultimi dieci mesi sono stati registrati 180 casi di minacce di sgombero forzato, il 78% dei quali è stato accompagnato da pratiche abusive da parte del proprietario sotto forma di aggressione fisica o verbale insieme al taglio di acqua ed elettricità dall’appartamento. “Il motivo principale di queste minacce è stato il costo dell’affitto, che è salito a oltre i due terzi del salario minimo e che gli inquilini non possono più pagare”.
Il problema degli alloggi in Libano, secondo Maya, è che “lo Stato libanese interviene, ma senza un piano globale o una chiara politica. Piuttosto, il suo intervento si basa su una risposta derivante da disastri e crisi, cioè con l’obiettivo di riparare le conseguenze”. A suo avviso, ciò che è peggio sono i cambiamenti avvenuti negli anni passati nel concetto stesso di casa, a causa in particolare delle leggi sugli affitti: “Il concetto di casa è cambiato da servizio sociale urgente, a merce soggetta alle fluttuazioni del mercato, e la prima crisi è iniziata quando lo Stato ha liberalizzato i contratti di affitto nel 1992, lasciando ogni presupposto e condizione nelle mani dei cittadini, senza standard o controlli che garantiscano i diritti dell’inquilino e del padrone di casa, che ha così posto proprietari e inquilini in un ciclo di conflitto permanente”.
Quanto all’esplosione del porto di Beirut, Maya afferma che “molti degli inquilini hanno perso la casa, sia a causa del processo di restauro intrapreso dalle organizzazioni non governative, che ha richiesto molto tempo per portare a termine i lavori e che ha portato le stesse a non soddisfare le necessità urgenti degli inquilini di riparare le loro case, sia perché i proprietari dell’immobile si sono rifiutati di far tornare gli inquilini dopo aver completato le riparazioni, con l’obiettivo di affittare le loro case a prezzi più elevati. Dopo l’esplosione del porto di Beirut, L’Housing Monitor ha ricevuto 127 segnalazioni e, di conseguenza, “abbiamo preparato un rapporto in cui abbiamo denunciato che circa 500 persone erano state in vari modi minacciate di sfratto e di perdita della loro residenza”, spiega Maya. Inoltre, è stato riscontrato che “circa il 29% si è lamentato di gravi danni alla casa dopo l’esplosione, il 42% è stato minacciato di sfratto e il 21% è stato sottoposto a sgombero forzato”.
Emanata dopo l’esplosione del porto, la legge 194 sul recupero post-disastro e la protezione delle aree colpite e dei loro residenti dalla speculazione immobiliare, avrebbe dovuto impedire gli aumenti degli affitti e la modifica dei termini o l’annullamento del contratto, se non da parte dell’inquilino stesso. La maggior parte degli inquilini tuttavia non era a conoscenza dell’esistenza della legge, che inizialmente non venne neppure applicata.
Maya conclude dicendo: “Oggi stiamo assistendo a una vera emergenza. Alla luce della crisi i proprietari vogliono fare profitto e gli inquilini vendono i loro mobili solo per poter pagare l’affitto del mese e non finire in strada. A volte per risparmiare sono costretti a smettere di mandare i figli a scuola. La situazione è ancora peggiore per i lavoratori stranieri e per i siriani sfollati che evitano di rivolgersi alla giustizia per chiedere aiuto per non essere espulsi, soprattutto se la loro residenza è illegale”.
Anche nel caso dei titolari di permessi di soggiorno regolari, l’anno scorso il sistema giudiziario libanese è rimasto paralizzato e non avrebbe potuto garantire loro alcuna giustizia.
Essere senzatetto è meglio che convivere con gli abusi
Nel 2013 Maryam (pseudonimo), 52 anni, decise di porre fine alle violenze che suo marito le infliggeva da quando aveva 20 anni. Chiese il divorzio e lasciò il figlio e la figlia nella casa del padre, diventando, come lei stessa dice, “senza casa”.
Maryam ci racconta che la sua agonia iniziò quando “mi opposi ai desideri di mio padre e sposai un uomo di un’altra fede. A quel tempo, la mia famiglia interruppe i rapporti con me per due anni, fino a quando diedi alla luce mio figlio. L’abuso fisico era già iniziato, e il mio ex marito stava attento a non lasciare tracce di percosse sul mio corpo; negli anni però smise di preoccuparsi e di avere paura, e il motivo principale fu che la mia famiglia non mi sosteneva e quindi non avevo nessun posto dove andare”.
Maryam non uscì di casa finché non fu sicura che non avrebbe perso suo figlio e sua figlia, che quando se ne andò avevano 21 e 18 anni. Spiega: “Ogni volta che chiedevo il divorzio, minacciava di portarmi via i figli e io mi tiravo indietro. Quando loro crebbero e furono e in grado di capire cosa stava succedendo, mi incoraggiarono ad andarmene e mi trovarono un luogo di residenza sicuro in un appartamento per ragazze (dormitorio), nella zona di Tariq El Jdideh”.
Maryam rimase nella stessa residenza condivisa fino al 2019, quando iniziò la crisi economica, e “mio figlio perse il lavoro e sua sorella non riuscì a pagare l’affitto, che costava 600mila lire libanesi, e all’epoca equivaleva a 300 dollari Usa .” Aggiunge: “All’epoca, l’unica opzione a mia disposizione era cercare rifugio a casa di mia sorella, che vive con suo marito”.
A differenza di Samir, che si è considerato un senzatetto solo quando non ha più avuto alcun parente a cui poteva rivolgersi per essere ospitato, Maryam si considera senzatetto da quando ha perso la sua privacy. “Non riesco a muovermi liberamente nè dentro nè fuori casa, devo obbedire alle regole stabilite da mio cognato e da mia sorella”, dice, e aggiunge: “I miei figli hanno difficoltà finanziarie, e mi stanno aiutando fornendomi cibo e bevande, il che non mi lascia altra scelta che stare zitta e rispettare le regole stabilite dalla famiglia di mia sorella”.
“Non posso tornare a casa di mio padre, non mi accoglierebbe”, dice Maryam. “E di certo non posso tornare a casa del mio ex marito. Poiché non sono, e non sono mai stata, economicamente indipendente, le mie opzioni sono limitate: devo stare a casa di mia sorella, vivere per strada o tornare agli abusi di mio marito”.
Maryam spera che la sua situazione migliori presto in modo da poter tornare a vivere in una sistemazione propria: suo figlio sta attualmente cercando di trovare una alloggio per lei e sua figlia in modo che possano tornare e vivere “sotto un unico tetto, come una famiglia”.
L’attivista femminista e direttrice esecutiva della ONG femminile Hayat Mirshad osserva che “molte donne maltrattate non sanno come accedere ai servizi messi a loro disposizione dalle organizzazioni che lavorano nel campo della protezione contro la violenza domestica”.
Mirshad fa riferimento alla normalizzazione culturale della violenza, il male più grande “in assenza dell’attuazione di leggi che tutelino le donne, oltre al fatto che molte donne maltrattate non sono finanziariamente indipendenti e non hanno una casa sicura a cui rivolgersi. Per i casi in cui un’abitazione sicura è fornita dalle organizzazioni femminili, “il processo a volte può richiedere molto tempo”.
Mirshad dice a Raseef22: “In molti casi, la società incolpa le donne e ritiene loro responsabili per avere subito violenza domestica, e questo senso di colpa, insieme ai fattori che abbiamo già menzionato, impedisce loro di cercare un rifugio sicuro”. Aggiunge che “c’è anche la pressione esercitata nel caso ci siano bambini, dal momento che le donne hanno paura di essere private dell’affidamento, o addirittura di non poterli più vedere”.
Mirshad ritiene che la soluzione per dare alle donne la scelta tra l’essere senzatetto o vivere in una casa non sicura, sotto il peso della violenza, risieda “nell’informare le donne dei loro diritti e di come possono beneficiare delle leggi in vigore”. In cambio, chiede una maggiore “pressione per l’applicazione della legge sulla violenza domestica, e in particolare l’attivazione del fondo finanziario stabilito dalla legge e il cui scopo è sostenere le donne che hanno subito violenza”.
“Attualmente, in assenza del governo, solo le organizzazioni per i diritti stanno fornendo rifugi sicuri per le donne” conferma Mirshad, sottolineando che esse “non sono in grado di sostituire lo Stato, come si è visto durante la pandemia di COVID e il lockdown, durante il quale c’è stato un aumento significativo di denunce si casi di violenza domestica, senza che ci fossero rifugi sicuri disponibili per le donne.
Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” -Invictapalestina.org