È un avvocato e attivista francopalestinese. La lotta contro l’occupazione israeliana gli è costata anni di carcere e la separazione dalla famiglia. Ora è di nuovo in cella, e chiede inutilmente l’aiuto di Parigi.
Fonte: INTERNAZIONALE – Numero 1467 1/7 luglio 2022
Carcere militare di Ofer, carcere militare nel deserto del Negev, centro interrogatori e detenzione di Al Moscobiyeh. Da più di vent’anni la vita di Salah Hamouri è scandita dall’arbitrarietà del sistema giudiziario israeliano: assurdo, oscuro, crudele. Una lunga persecuzione il cui ultimo episodio risale al 10 marzo, quando il comando militare israeliano ha emesso un ordine di detenzione amministrativa di quattro mesi (un provvedimento che prevede il carcere senza processo) contro questo avvocato francopalestinese, una delle figure di spicco della lotta per la libertà del popolo palestinese.
Per i suoi sostenitori Hamouri è un’icona politica, per Israele, che lo considera un terrorista, è una minaccia alla sicurezza nazionale. Tutto o quasi nel percorso di quest’uomo, nato nel 1985 a Gerusalemme da madre francese e padre palestinese, ha una potente carica simbolica. La sua storia parla al tempo stesso della centralità della detenzione nell’esperienza palestinese, della battaglia per continuare a esistere nella città santa, del controllo che l’occupazione esercita sulle persone e anche, da un certo punto di vista, dell’evoluzione delle relazioni tra Francia e Israele.
Il carcere è onnipresente nella vita di Hamouri. Lo accompagna, come un’ombra, fin dalla tenera età. “Tutto è cominciato quando Salah aveva tre o quattro anni”, ricorda sua madre, Denise Hamouri, che vive a Gerusalemme. “Suo zio era molto impegnato e durante la prima intifada era regolarmente arrestato. Salah è andato a trovarlo alcune volte in carcere. Questo lo ha segnato”.
Hamouri è già stato arrestato sei volte. La prima aveva solo sedici anni, diciannove quando tutto è cambiato. Era il 13 marzo 2005: fu interrogato e poi portato via dalle forze di occupazione mentre si trovava sulla strada per Ramallah. Era sospettato di aver cospirato con l’obiettivo di assassinare il rabbino Ovadia Yosef, a capo dello Shas, un partito religioso israeliano di estrema destra; e di appartenere a un’organizzazione vicina al Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp), un gruppo di orientamento marxista dotato di un braccio armato e di uno politico, classificato come terrorista da Israele e dall’Unione europea. Ha passato tre anni in detenzione amministrativa.
Nel 2008 è arrivata la sentenza. Hamouri è stato condannato a sette anni di carcere per “cospirazione e appartenenza all’Fplp”. Non è mai stata fornita alcuna prova. Ovviamente, Hamouri si era dichiarato colpevole. Ma nel contesto israeliano questo non vuol dire niente. “Il modo in cui è strutturata la giustizia militare fa sì che il 99 per cento degli imputati palestinesi sia dichiarato colpevole attraverso tutta una serie di strumenti, e soprattutto con le pressioni per spingerli a un’ammissione di colpevolezza”, spiega Stéphanie Latte Abdallah, ricercatrice del Centre de recherches internationales (Ceri), il principale centro di ricerca francese dedicato allo studio delle relazioni internazionali. “I processi sono lunghi e i capi d’imputazione si moltiplicano: l’avvocato incoraggia il cliente a patteggiare per evitare accuse ancora più pesanti”, aggiunge Latte Abdallah.
Senza prove
Nell’agosto 2017 la storia si è ripetuta da capo. Salah Hamouri è stato arrestato di nuovo e messo in detenzione amministrativa per tredici mesi, prima di essere rilasciato nel settembre 2018. Perché? Perché così ha deciso Israele. “Oggi il sistema giuridico israeliano permette d’incarcerare tutti i palestinesi a partire dai dodici anni”, spiega Latte Abdallah.
Le autorità israeliane giustificano l’incarcerazione senza processo né accuse formali sostenendo di farlo per prevenire un illecito. Ma le prove su cui si fonda l’arresto non sono rese note né al detenuto né ai suoi parenti e neanche ai suoi avvocati. Questi provvedimenti, della durata massima di sei mesi, sono rinnovabili a tempo indefinito e lasciano nell’incertezza fino all’ultimo minuto. Così la famiglia di Salah Hamouri è venuta a sapere il 5 giugno che la sua detenzione, che avrebbe dovuto concludersi il giorno successivo, era stata prolungata fino al 5 settembre. “La cosa più angosciante è non ricevere notizie”, aveva detto qualche giorno prima Denise Hamouri. Una volta al mese la Croce rossa organizza delle visite per i parenti stretti. L’ultima volta che Hamouri ha visto suo figlio, ovviamente dietro una lastra di vetro, risale al 9 maggio. Tra un incontro e l’altro le telefonate sono vietate. In queste circostanze le notizie arrivano più spesso attraverso gli avvocati. “Quando riesco a vederlo fa di tutto per dirmi che sta bene, ma ho paura che sia molto stressato e spaventato. Sono molto preoccupata, e quando penso a quello che sta passando lui, lo sono ancora di più”, dice la madre di Hamouri.
Il caso di Salah Hamouri è un buon esempio della strategia messa a punto dallo stato ebraico a Gerusalemme
Dal 1967 quasi il 40 per cento degli uomini palestinesi è stato incarcerato almeno una volta. Addameer, l’organizzazione per la quale lavora Salah Hamouri, che si occupa di difendere i diritti dei detenuti, stima che oggi ci sono 4.650 prigionieri politici palestinesi, tra cui seicento in detenzione amministrativa, 170 bambini e 32 donne. Un universo che nasconde la violenza dell’occupazione nella sua dimensione più subdola.
La stessa Addameer fa parte delle sei organizzazioni che dall’ottobre 2021 sono classificate come terroriste dallo stato ebraico, con il pretesto che sarebbero legate al Fronte popolare per la liberazione della Palestina. Un accanimento che va avanti da anni. “Siamo stati regolarmente colpiti da campagne di diffamazione. E gli uffici di Addameer sono stati presi d’assalto due volte, nel 2014 e nel 2019. I nostri avvocati e i nostri dipendenti sono stati arrestati e messi in detenzione amministrativa”, ricorda Milena Ansari, una dei responsabili dell’organizzazione. Stavolta però la pressione sta prendendo una piega più intensa. “Viviamo sotto la minaccia di una chiusura forzata che potrebbe avvenire da un momento all’altro. Non c’è alcuna stabilità nelle nostre vite”, afferma Ansari.
La prova di questa sorveglianza diffusa è stata la scoperta, nel 2021, del software spia israeliano Pegasus sui telefoni personali e di lavoro di Salah Hamouri. Secondo le associazioni Front line defenders, Amnesty international e Citizen lab, questo hackeraggio è cominciato nell’aprile 2021 quando l’avvocato si trovava in Palestina ed è poi proseguito in Francia tra il 27 aprile e il 13 maggio dello stesso anno.
In questo labirinto in cui s’intrecciano violenze politiche e simboliche, la paranoia dello stato ebraico nei confronti di Salah Hamouri a stento maschera il suo obiettivo: la battaglia per mantenere l’egemonia a Gerusalemme. Un progetto che conduce sui fronti politico, giuridico e demografico, e in cui l’attivista – che è conosciuto all’estero – dev’essere tagliato fuori. Tutto dunque dev’essere fatto per rendergli la vita impossibile. Così la sua storia è anche quella di una coppia e di una famiglia separate dall’occupazione.
Nel 2011 – in seguito alla liberazione anticipata dopo un arresto, grazie a uno scambio di prigionieri – Hamouri è andato in Francia, il paese della madre, per incontrare i suoi molti sostenitori. Lì ha conosciuto Elsa Lefort, la sua futura moglie. Proveniente da una famiglia comunista impegnata nel movimento di solidarietà ai palestinesi, Lefort si era impegnata in prima persona per difendere l’avvocato. È stato l’inizio di una storia d’amore che, molto rapidamente, si è scontrata con le strategie dello stato ebraico.
Il 5 giugno 2014 Salah Hamouri ed Elsa Lefort si sono sposati a Gerusalemme, dove lei si è trasferita. “All’inizio avevamo fatto richiesta di ricongiungimento familiare come ogni coppia mista, per ottenere un visto, e magari un permesso di soggiorno”, ricorda. Dopo una lunga attesa, Elsa Lefort è riuscita finalmente a ottenere il documento attraverso il suo datore di lavoro, il consolato francese. Cosa che normalmente le avrebbe permesso di lasciare il territorio israeliano e di tornarci.
Ma nel 2016, al suo ritorno, incinta di sei mesi, Lefort è stata arrestata all’aeroporto di Tel Aviv e poi espulsa in Francia. Da allora, a lei e ai suoi due bambini – la minore è nata nel 2021 – è vietato l’ingresso in Israele. I suoi figli non hanno il permesso di soggiorno, un documento destinato ai palestinesi di Gerusalemme, che può essergli strappato via in qualsiasi momento. “Uno dei loro obiettivi era questo: impedirmi di partorire lì per fare in modo che i miei figli non avessero il permesso di soggiorno permanente”, denuncia Lefort.
Costretti a scegliere
Il caso di Salah Hamouri ed Elsa Lefort è un buon esempio della strategia messa a punto dallo stato ebraico a Gerusalemme, che, in contrasto con il diritto internazionale, Israele considera sua. Occupata nel 1967 durante la guerra dei sei giorni, la parte orientale della città è stata annessa nel 1980. Sono vent’anni che la riunificazione delle famiglie palestinesi non è più autorizzata.
Se una donna di Gerusalemme ha la sfortuna di innamorarsi di un uomo della Cisgiordania e vuole sposarlo, dovrà scegliere: vivere separata da lui o perdere il proprio status di residente. “L’occupazione ha costretto Hamouri a fare una scelta. La moglie e i figli non possono più stare lì. Allora cosa sceglierà l’avvocato: il paese o la famiglia?”, commenta Lefort.
Nell’ottobre 2021 le autorità israeliane hanno deciso di fare un salto di qualità. Il ministero dell’interno ha ufficialmente notificato a Salah Hamouri la revoca del suo permesso di residenza permanente sulla base di una “rottura della lealtà allo stato di Israele”. “Se una persona non è leale a Israele secondo i criteri della legge, le si può vietare di restare a Gerusalemme, perché lo stato considera la città territorio israeliano”, spiega Milena Ansari. “Anche per questo bisogna lottare per Hamouri. Perché se fosse davvero espulso questo creerebbe un precedente per tutti i palestinesi di Gerusalemme”.
Una delle cose che colpiscono in questa vicenda è che l’onnipotenza israeliana contrasta con l’apparente impotenza della Francia. In questa storia Parigi è latitante, anche se ne va della sorte dei suoi cittadini. Per questo il calvario dell’avvocato sembra essere una spia delle relazioni tra i due paesi.
◆ 1985 Nasce a Gerusalemme da madre francese e padre palestinese. Questo gli permette di avere la doppia nazionalità.
◆ 2001 Durante una manifestazione contro l’occupazione è arrestato per la prima volta ed è condannato a cinque mesi di carcere per “propaganda antisraeliana”.
◆ 2016 Sua moglie Elsa Lefort, incinta di sei mesi, è arrestata all’aeroporto di Tel Aviv ed espulsa da Israele.
◆ marzo 2022 È arrestato di nuovo, ma le accuse non sono rese pubbliche. Il 7 giugno il suo regime di detenzione è prolungato fino a settembre.
Un tempo citato per il suo carattere relativamente equilibrato nel mondo occidentale, l’atteggiamento francese verso il conflitto tra Israele e Palestina oggi sembra dalla parte dello stato ebraico. Una svolta le cui premesse risalgono agli anni del presidente Nicolas Sarkozy (2007-2012), ma che si è consolidata nel corso della presidenza di Emmanuel Macron.
“Durante l’ultimo mandato l’atteggiamento dell’Eliseo è peggiorato in modo davvero preoccupante”, osserva Bertrand Heilbronn, presidente dell’associazione France Palestine solidarité (Afps). Anche Heilbronn è stato interrogato il 12 maggio 2021 all’uscita da una riunione al ministero degli esteri di Parigi. Motivo: l’organizzazione di una manifestazione non autorizzata in solidarietà con il popolo palestinese.
In questi ultimi anni ci sono state numerose misure simili e dichiarazioni in sostegno di Israele. A febbraio, per bocca del suo primo ministro, Macron ha definito Gerusalemme “capitale eterna del popolo ebraico”. Un’inversione di rotta evidente, anche se Parigi ha tentato di aggiustare il tiro nei giorni seguenti.
A questo vanno aggiunti gli attacchi ripetuti contro il movimento internazionale Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (Bds), e i decreti di scioglimento di associazioni filopalestinesi come il Comité action Palestine (Comitato azione Palestina) e il Collective Palestine vaincra (Collettivo Palestina vincerà). “In seguito però il consiglio di stato ha sospeso lo scioglimento delle due organizzazioni in attesa di pronunciarsi nel merito. Ci sono delle possibilità che lo scioglimento sia annullato”, precisa Bertrand Heilbronn.
Difficile non fare un parallelo tra la repressione dello stato palestinese e i tentennamenti di Parigi, che sembra poco ansiosa di pretendere pubblicamente la liberazione di un suo cittadino. L’esempio più chiaro è il fatto che il governo francese abbia chiesto spiegazioni alle autorità israeliane dopo l’ultimo arresto di Hamouri e abbia ribadito il suo appello affinché possa “condurre una vita normale” a Gerusalemme. Un lessico timido, soprattutto se paragonato alle parole pronunciate qualche settimana più tardi, a metà maggio, in seguito all’arresto di due cittadini francesi in Iran. In quel caso Parigi ha denunciato “un arresto senza fondamento” e ha preteso una “liberazione immediata”. “Il presidente Macron non ha mai citato Hamouri pubblicamente. Ci dicono che con Israele quello che funziona è la diplomazia discreta. Ma negli ultimi anni non ha portato frutti”, dichiara Lefort. “Il fatto di non parlare in pubblico della questione manda il messaggio che non si vuole urtare troppo ‘l’alleato israeliano’, ma anche che questo cittadino non merita di essere nominato dal presidente, non merita che la diplomazia francese faccia un comunicato con parole forti a favore della sua liberazione. Ci sentiamo sempre meno sostenuti dalla Francia”, aggiunge Denise Hamouri.
Per tutti i palestinesi
Nonostante le difficoltà, Elsa Lefort non perde mai di vista l’obiettivo ultimo che condivide con il marito: vivere insieme a Gerusalemme. Le cose non sarebbero state più semplici se Salah Hamouri avesse deciso di andare in esilio? La moglie però scarta immediatamente questa opzione: “Per lui il diritto al ritorno dei rifugiati è sempre stato sacro. E ora si ritrova a essere padre di due piccoli rifugiati. Per lui questa battaglia assume un doppio significato. Questo diritto lui lo vuole per i suoi figli e per tutti i bambini palestinesi”.
Certo, la quotidianità è pesante. Bisogna venire a patti con l’assenza di un padre e le domande di un figlio di sei anni. Bisogna trovare le parole giuste per spiegare cos’è un prigioniero politico e perché una persona, senza aver commesso alcun crimine, può ritrovarsi dietro le sbarre.
Lefort spiega: “Per la nostra famiglia è molto difficile, senza dubbio. Ma allo stesso tempo è in corso un’importante lotta collettiva. Molte persone si trovano nella stessa situazione. I papà palestinesi detenuti sono migliaia. Questa battaglia non la portiamo avanti solo per noi, ma per tutte le famiglie palestinesi”. ◆ fdl