Le istituzioni militari e politiche israeliane, tuttavia, sanno fin troppo bene che non sarebbero in grado di sostenere un altro conflitto totale come quello del maggio 2021. La guerra doveva finire semplicemente perché una guerra più grande era impossibile da vincere.
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Di Ramzy Baroud – 15 agosto 2022
Immagine di copertina: La palla di fuoco di un’esplosione si erge su un edificio di Gaza a seguito di un attacco aereo israeliano il 6 agosto 2022. (AFP)
Per anni palestinesi e israeliani hanno lavorato per ridisegnare le linee di battaglia del loro conflitto. La guerra di tre giorni israeliana contro Gaza, iniziata il 5 agosto, è stata una chiara manifestazione di questa realtà.
Durante la sua operazione militare, Israele ha ripetutamente sottolineato il fatto che stava prendendo di mira solo il movimento palestinese della Jihad islamica, non Hamas o chiunque altro.
Uno scenario simile si era verificato a maggio 2019 e di nuovo a novembre dello stesso anno. Gli scontri di maggio sono iniziati quando due soldati israeliani sono stati feriti da un cecchino palestinese alla recinzione che separa la Gaza assediata da Israele. Da anni si svolgevano proteste settimanali di massa vicino al confine, chiedendo la fine dell’assedio israeliano alla Striscia di Gaza. Più di 200 palestinesi disarmati sono stati uccisi dai cecchini israeliani, che sono stati inviati nell’area di confine già nel marzo 2018. L’inaspettata uccisione di due cecchini israeliani è stata un’inversione temporanea delle parti nei sanguinosi eventi in quella zona.
Israele ha accusato la Jihad islamica palestinese per l’attacco. Ha risposto bombardando le posizioni di Hamas in modo che quest’ultimo esercitasse pressioni sulla prima affinché cessasse le sue operazioni vicino alla recinzione. L’obiettivo non dichiarato, tuttavia, era seminare discordia tra i gruppi palestinesi a Gaza, che operano da anni sotto l’egida del comando operativo armato congiunto.
Come l’ultima guerra, anche il conflitto del maggio 2019 è stato breve ma devastante. A novembre è seguita un’altra breve guerra, questa volta coinvolgendo solo la Jihad islamica palestinese. Sebbene Israele non sia riuscito a rompere l’unità palestinese, in Palestina si è svolto un dibattito, soprattutto dopo gli scontri di novembre, sul motivo per cui Hamas non ha svolto una parte più attiva nei combattimenti.
L’opinione comune dell’epoca era che a Israele non doveva essere consentito di imporre il tempo, il luogo e la natura della lotta ai palestinesi, come spesso accadeva, e che è molto più strategico per la resistenza palestinese prendere queste decisioni.
Questa posizione potrebbe essere difendibile se intesa in un contesto storico. Per Israele, mantenere lo status quo a Gaza è politicamente e strategicamente vantaggioso. Inoltre, lo status quo è finanziariamente redditizio, poiché le nuove armi vengono testate sul campo e poi vendute a prezzi esorbitanti, rendendo Israele il decimo esportatore di armi al mondo nei cinque anni fino al 2021.
Le guerre israeliane a Gaza sono anche un’assicurazione politica, poiché riaffermano il sostegno di Washington a Tel Aviv attraverso parole e fatti. “Il mio sostegno alla sicurezza di Israele è di lunga data e incrollabile”, ha affermato questo mese il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden mentre le bombe israeliane piovevano su Gaza, uccidendo 49 palestinesi, 17 dei quali erano bambini. Questa è esattamente la stessa posizione di ogni amministrazione statunitense in ogni guerra israeliana.
Anche l’istitutivo militare israeliano ha abbracciato questa realtà apparentemente immutabile. Le sue occasionali devastanti guerre contro Gaza sono definite come “falciare l’erba”. Scrivendo sul Jerusalem Post nel maggio dello scorso anno, David M. Weinberg dell’Istituto per la Strategia e la Sicurezza di Gerusalemme ha spiegato la strategia israeliana nei termini più disumanizzanti: “Proprio come falciare il prato, questo è un lavoro costante e duro. Se non lo si fa, le erbacce crescono selvaggiamente e i serpenti iniziano a strisciare tra i cespugli”.
L’istitutivo politico di Tel Aviv ha imparato ad adattarsi e a beneficiare dell’ordinaria violenza. Nel 2015, l’allora Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha riassunto la posizione del suo Paese in una frase breve ma piena di significato: “Mi è stato chiesto se vivremo per sempre di spada (di sopraffazione), sì”.
Ironia della sorte, nel maggio 2021, i palestinesi sono stati quelli che hanno scatenato la “spada”. Invece di mantenere la battaglia colpo per colpo a Gaza confinata in quel piccolo spazio geopolitico, la resistenza ha preso l’insolita decisione di colpire Israele in risposta agli eventi accaduti in un piccolo quartiere palestinese a Gerusalemme Est. In poche ore, Tel Aviv ha perso la coesione politica e il suo controllo sulla narrativa della guerra. Sembrava che ogni centimetro della Palestina e di Israele diventasse improvvisamente parte di una battaglia più ampia, il cui esito non era più determinato solo da Israele.
I palestinesi chiamano quegli eventi “la Spada di Gerusalemme”. Il nome è stato coniato a Gaza.
Da allora, Israele ha cercato un nuovo conflitto che lo aiuterà a riprendere l’iniziativa. Ad esempio, l’ex Primo Ministro Naftali Bennett ha tentato di provocare una lotta del genere a maggio, ma ha fallito. Pensava che procedendo con la provocatoria Marcia della Bandiera a Gerusalemme Est, sarebbe stato in grado di trascinare Gaza in un’altra guerra. Tuttavia, invece della guerra, i palestinesi hanno risposto con proteste di massa e mobilitazione popolare.
L’ultima guerra di agosto è stato un altro tentativo simile, questa volta del nuovo Primo Ministro Yair Lapid. Tuttavia, tutto ciò che il leader israeliano militarmente inesperto poteva ottenere era ciò che gli analisti militari israeliani chiamavano una “vittoria tattica”.
Non è stata certo una vittoria. Per rivendicare qualsiasi tipo di vittoria, Israele ha semplicemente ridefinito i suoi obiettivi. Invece di “distruggere l’infrastruttura terroristica di Hamas”, come spesso è l’obiettivo dichiarato, ha istigato uno scontro con la Jihad Islamica Palestinese, uccidendo due dei suoi comandanti militari.
I tipici resoconti dei media israeliani sulla guerra sono leggermente cambiati, come se Hamas e altri gruppi palestinesi non fossero mai stati nemici di Israele. Tutto riguardava la Jihad Islamica Palestinese. “La lotta con il gruppo terroristico alla fine dovrebbe riprendere”, ha scritto la scorsa settimana il Times of Israel, citando fonti militari israeliane. Nessun riferimento è stato fatto ad altri “gruppi terroristici”.
A differenza delle guerre precedenti, Israele aveva un disperato bisogno che i combattimenti finissero molto rapidamente, poiché Lapid desiderava conquistare una presunta vittoria tattica che sarà sicuramente fortemente valorizzata prima delle elezioni generali di novembre.
Le istituzioni militari e politiche israeliane, tuttavia, sanno fin troppo bene che non sarebbero in grado di sostenere un altro conflitto totale come quello del maggio 2021. La guerra doveva finire semplicemente perché una guerra più grande era impossibile da vincere.
Poche ore dopo la dichiarazione di una tregua mediata, l’esercito israeliano ha ucciso tre combattenti appartenenti al movimento di governo Fatah a Nablus, in Cisgiordania. Lapid intendeva inviare un altro messaggio di forza, anche se in realtà ha confermato che le linee di battaglia sono state permanentemente ridisegnate.
La resistenza a Gaza ha commentato l’uccisione dei combattenti di Nablus dichiarando che il conflitto con Israele era entrato in una nuova fase. Infatti è così.
Ramzy Baroud è un giornalista e redattore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri. Il suo ultimo libro, curato insieme a Ilan Pappé, è “La Nostra Visione per la Liberazione: Leader Palestinesi Coinvolti e Intellettuali Parlano”. Il Dr. Baroud è un ricercatore senior non residente presso il Centro per l’Islam e gli Affari Globali (CIGA), Università Zaim di Istanbul (IZU).
Traduzone di Beniamino Rocchetto -Invictapalestina.org