Ripulire la reputazione della monarchia e del regime sionista: due facce della stessa medaglia intrisa di sangue

“Non piangiamo la morte di Elisabetta II, perché per noi la sua morte è il ricordo di un periodo molto tragico in questo paese e nella storia dell’Africa”, ha dichiarato Julius Malema, capo del partito di sinistra Economic Freedom Fighters in Sud Africa. Tuttavia, dalla morte della regina Elisabetta II, l’8 settembre 2022, i media occidentali si sono presi la briga di ripulire il passato della Gran Bretagna.

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19 settembre, 2022, di Benay Blend

“Non piangiamo la morte di Elisabetta II, perché per noi la sua morte è il ricordo di un periodo molto tragico in questo paese e nella storia dell’Africa”, ha dichiarato Julius Malema, capo del partito di sinistra Economic Freedom Fighters in Sud Africa. Tuttavia, dalla morte della regina Elisabetta II, l’8 settembre 2022, i media occidentali si sono presi la briga di ripulire il passato della Gran Bretagna.

 

“L’empatia”, scrive Onyesonwu Chatoyer, “come quasi ogni aspetto della psiche quando siamo disorganizzati e inconsci, può essere armata e manipolata da quello stesso sistema globale genocida”. La propaganda, continua, dipende dalla manipolazione delle nostre emozioni così come dall’uso della nostra empatia come arma”, ed entrambi dipendono dalla cancellazione del “contesto politico e storico al fine di produrre consenso per l’imperialismo”.

Sebbene Chatoyer si concentri sulla “guerra per procura” degli Stati Uniti e della NATO in Ucraina, la sua analisi si è dimostrata vera  per il modo in cui i media hanno incoraggiato l’empatia mondiale per la Regina. Allo stesso tempo, tale analisi è  riuscita  ad isolarla dall’Impero su cui regnava. Per giorni le notizie si sono concentrate sulle interviste con lo chef e   l’apicoltore della regina,  per non parlare di improbabili conversazioni con i suoi cani e cavalli, tutto nell’interesse di deviare dal sanguinoso passato della Gran Bretagna.

Se ci fosse un contesto dato alla monarchia, ciò potrebbe ispirare inquietudine tra i sudditi e ciò a sua volta potrebbe incoraggiare i movimenti di liberazione in tutto il mondo. Mentre i media fanno di tutto per umanizzare la defunta regina, hanno fatto del loro meglio per disumanizzare le vittime palestinesi dell’ultimo assedio di Israele a Gaza. Come osserva Ramzy Baroud, anche i media occidentali più “liberali” non hanno menzionato i nomi dei bambini morti a causa del bombardamento israeliano della striscia. Questo è stato lasciato agli attivisti che hanno condiviso sui social media le singole foto dei morti.

Quando i palestinesi fanno sentire la propria voce, vengono spesso censurati. “Mentre il pregiudizio dei media mainstream nel riferire su Palestina e Israele non è una novità”, scrive Tamara Kharroub, “il fenomeno della censura sui social media rappresenta una preoccupazione crescente e significativa per quanto riguarda i diritti umani e la libertà di espressione”. In effetti, Twitter ha recentemente bandito @StanleyCohenLaw per aver detto la verità come l’ha sempre vista riguardo a Israele.

Anche in Gran Bretagna, i manifestanti anti-monarchia sono stati arrestati e/o scortati lontano dalla folla lungo le strade per un’ultima visione della Regina. Sembra che anche lì la libertà di parola possa arrivare solo fino a un certo punto.

Tuttavia, subito dopo la morte della regina, c’è stato un rinnovato interesse nel discutere la decolonizzazione insieme alla sua coorte: la resistenza. La fine del regno di Elisabetta II, osserva Margaret Kimberly, “mette in rilievo la necessità di una liberazione politica e psicologica”. Chiede ai suoi lettori di diffidare delle narrazioni che si impadroniscono completamente dei media, perché molto probabilmente è qualcosa che “deve essere contrastato e nel miglior modo possibile decolonizzato”.

In effetti, dopo la morte della regina, le vittime delle atrocità della Gran Bretagna negli ultimi 70 anni hanno condiviso le loro opinioni sul motivo per cui si sono rifiutati di compiangerla. “La morte è una perdita. La perdita riguarda anche  un lascito. Con l’eredità  arriva la resa dei conti”, scrive Esther A. Armah, CEO dell’Armah Institute of Emotional Justice. “Dalla resa dei conti possiamo arrivare alla guarigione”, ma ciò non può accadere senza “dire la verità”.

Creando “The 1952 Project” Armah intende esplorare  i concetti di “razza, impero, colonialismo e il suo impatto in tutta l’Africa e nei Caraibi” durante gli anni elisabettiani. In particolare, il progetto esaminerà come le nozioni di “falsa supremazia” e “identità nazionale” promuovano un senso di appartenenza visto dall’esterno e dall’interno .

Mentre la stampa continua nella sua missione di nascondere il passato della Gran Bretagna, gli Economic Freedom Fighters(n.d.t. partito politico di sinistra) del Sud Africa accusano Elisabetta II di aver regnato  per 70 anni come “capo di un’istituzione costruita, sostenuta e che vive di una brutale eredità” del potere globale.

Mentre la loro dichiarazione occulta il saccheggio britannico di Africa, Australia, India e Caraibi, Ilan Pappé si concentra sulle “peccaminose”  politiche  britanniche nei confronti della Palestina e sulla crescita della lobby filo-israeliana in Gran Bretagna. Mentre la lobby ha rinunciato a cercare di mascherare i peccati di Israele, poiché “moralmente Israele ha molto poco da vendere”, si concentra invece sul “mettere a tacere il dibattito, intimidire individui e istituzioni e domare la politica e i media tradizionali”.

Pappé spiega che gli spettatori di tutto il mondo potrebbero vedere la regina come un “esempio di moderazione, sensibilità e buon senso”, ma coloro che sono stati direttamente colpiti dalla colonizzazione, o hanno subito discriminazioni nella stessa Gran Bretagna, hanno una “visione molto più complessa”. Sebbene la regina non abbia fatto politica nel vuoto, Pappé scrive che “simbolicamente, qualsiasi decisione presa era dopo tutto la decisione del governo di Sua Maestà, nel bene e nel male”. Pertanto, conclude che la fine della sua era si rivela un momento maturo per una  “riflessione e una  sintesi”, cosa che stanno facendo anche molti in tutto il mondo.

È anche un buon momento per rinnovare la resistenza alle politiche dannose che rimarranno a lungo dopo la dipartita della regina. Per Margaret Kimberly, quel processo inizia con l’educazione politica: “Quando apprendiamo nuove informazioni e disimpariamo le falsità, inizia il processo di decolonizzazione”. Dare un taglio alla manipolazione dei media con la verità “libera  [le nostre menti] dal credere nella propaganda di stato”, scrive, ed è un processo che lei stessa sta facendo.

40 anni dopo Sabra e Shatila, i massacri che “hanno tolto la vita a migliaia di palestinesi e libanesi, al culmine dell’alleanza criminale tra imperialismo statunitense, sionismo e forze ultra reazionarie arabe”, non esiste occultamento accettabile di quei crimini. In questo anniversario, Samidoun: Palestine Prisoner Solidarity Network ha pubblicato un rinnovato appello alla resilienza e alla resistenza.

Se la fine dell’era elisabettiana nel Commonwealth britannico offre un momento per rivedere il passato al fine di pianificare un futuro diverso, i resoconti dei testimoni oculari di Sabra e Shatila “descrivono una realtà che richiede una riflessione profonda”, scrive Ramzy Baroud, “non solo tra palestinesi, arabi e soprattutto israeliani, ma anche l’umanità nel suo insieme”.

Nel suo discorso “Closures and Continuities (25 ottobre 2013)”, Angela Davis ha parlato dell’importanza delle “continuità temporali”, dei  fili continui nel movimento di libertà che intrecciano un momento all’altro. Davis ha anche parlato di “continuità orizzontali, legami con un’intera gamma di movimenti e lotte oggi” (Angela Y. Davis, Freedom is a Constant Struggle: Ferguson, Palestine, and the Foundations of a Movement, 2016, p. 75). In particolare, ha attirato l’attenzione sulla lotta palestinese per la liberazione. Lì ha visto somiglianze tra l’apartheid nel sud americano e le pratiche di apartheid dello stato sionista di Israele, punti in comune che collegavano entrambe le lotte.

Baroud ribadisce questo punto quando definisce l’anniversario di Sabra e Shatila come  un momento di resa dei conti per l’umanità nel suo insieme. “Sebbene i massacri israeliani abbiano lo scopo di porre fine alla Resistenza Palestinese, inconsapevolmente”, conclude Baroud, “la alimentano. Mentre Israele continua ad agire impunemente, anche i palestinesi continuano a resistere. Questa non è solo la lezione di Sabra e Shatila, ma anche la più grande lezione dell’occupazione israeliana della Palestina”.

Insieme alle lezioni apprese dalla resistenza all’impero britannico, (n.d.t. la resistenza palestinese)rappresenta un esempio di quelle continuità temporali ed orizzontali che Davis ha previsto  molti anni prima.

– Benay Blend ha conseguito il dottorato in studi americani presso l’Università del New Mexico. I suoi lavori accademici includono Douglas Vakoch e Sam Mickey, Eds. (2017), “‘Né la patria né l’esilio sono parole’: ‘Conoscenza situata’ nelle opere di scrittori palestinesi e nativi americani”. Ha contribuito con questo articolo a The Palestine Chronicle.

traduzione di Nicole Santini