“In Iran la democrazia arriverà attraverso le donne”

Il premio Nobel per la pace Shirin Ebadi spiega perché le proteste guidate dalle donne in Iran potrebbero annunciare l’inizio della caduta della Repubblica islamica.

Fonte: english version

Orly Noy – 6 Ottobre 2022

Immagine di copertina: La gente si riunisce a Melbourne per un secondo raduno in una settimana per manifestare solidarietà alle proteste iraniane, 29 settembre 2022. (Matt Hrkac/CC BY 2.0)

Questo articolo è stato pubblicato in collaborazione con Local Call.

Innumerevoli hashtag hanno accompagnato la marea di foto e video usciti dalle manifestazioni in corso in Iran nelle ultime settimane. Il principale tra loro è #mahsa_amini, il nome persiano di una donna curda di 22 anni (il cui nome curdo originale è Jina/Zhina Amini), brutalmente uccisa dalla “polizia morale” del regime dopo essere stata arrestata il 14 settembre per il crimine di ”indossare l’hijab in  modo improprio “, accendendo l’ attuale ondata di protesta.

Particolarmente prominente tra gli altri hashtag è stato “donna, vita, libertà” (“زن, زندگی, آزادی”), uno slogan originariamente sostenuto dai movimenti femministi curdi e che è diventato un mantra popolare delle proteste in tutto l’Iran.

Il legame diretto tra i diritti delle donne e la lotta popolare per la libertà non è nuovo nel discorso pubblico in Iran. Per molti versi, l’atteggiamento nei confronti dei diritti delle donne – e la loro violazione, per la maggior parte – è diventato in gran parte la cartina tornasole della Repubblica islamica sin dal suo inizio, nel 1979. Proprio per questo motivo, la lotta delle donne iraniane è la più determinata e coraggiosa lotta pubblica sotto il regime, attingendo alle radici storiche dei movimenti femminili sorti nel paese molto prima della rivoluzione islamica.

La lotta delle donne ha prodotto figure esemplari che sono diventate icone di impavidità e resistenza. Tra queste l’avvocatessa per i diritti umani e vincitrice del Premio Sacharov per la libertà di pensiero del Parlamento europeo, Nasrin Sotoudeh, che ha scontato lunghi periodi di reclusione (attualmente è ancora in prigione) e che  durante uno dei suoi periodi di incarcerazione ha fatto lo sciopero della fame; Neda Agha-Soltan, la giovane donna uccisa durante le proteste “Green Wave” del 2009, con le foto della sua morte che divennero un simbolo delle proteste; la giornalista e attivista per i diritti umani Narges Mohammadi, il cui libro “White Torture” tratta la politica del regime di isolare nelle carceri le prigioniere politiche, carceri dove lei stessa ha scontato periodi considerevoli.

Tutte queste donne, e molte altre, hanno un enorme debito con una delle pioniere della lotta femminista in Iran dopo l’istituzione della Repubblica Islamica: la vincitrice del Premio Nobel per la Pace 2003, Shirin Ebadi.

Fino alla rivoluzione del 1979, Ebadi, una delle prime donne giudici del Paese, fu presidente del tribunale distrettuale di Teheran. Dopo la rivoluzione, il regime islamico cancellò lo status delle donne come giudici ed Ebadi si è dedicò a scrivere libri sui diritti umani in Iran e a lavorare come avvocato, rappresentando diversi importanti oppositori del regime. Tra i suoi clienti ci sono stati  Nasrin Sotoudeh, lo scrittore Abbas Maroufi e le famiglie delle vittime del regime, come quella del leader del Partito Nazione Dariush Forouhar, assassinato da agenti del regime insieme a sua moglie. Si occupava anche dei diritti delle donne e dei bambini.

Il Premio Nobel per la Pace Shirin Ebadi, avvocato e attivista iraniano per i diritti umani. (Cortesia)

Nel 2003, Ebadi divenne la prima iraniana e la prima donna musulmana a vincere il Premio Nobel per la Pace. Il premio fu successivamente confiscato dal regime iraniano ed Ebadi nel 2009 lasciò l’Iran per Londra, dove vive e lavora per la democratizzazione dell’Iran.

Senza sperarci troppo, ho inviato a Ebadi una richiesta di intervista; un’intervista da un media israeliano non è cosa da poco, anche per gli espatriati iraniani. Con mia sorpresa, ha risposto affermativamente in meno di 24 ore.

Ha condotto la conversazione il 30 settembre, con la voce rauca: “Mi scusi per la voce”, ha detto, “questa è oggi la mia quarta intervista consecutiva”. All’età di 75 anni, Ebadi segue da vicino gli sviluppi in Iran, lavorando il più possibile per sostenere dall’esilio le proteste di massa.

Ed è convinta: questo è l’inizio della fine del regime.

Quando vede le foto e i video che escono dall’Iran in questo momento, cosa prova?

Mi dà un senso di orgoglio che le giovani donne e gli uomini del mio Paese stiano combattendo così coraggiosamente, senza paura, ma anche un senso di dolore. Più di 70 persone sono già state uccise. Proprio oggi [sett. 30], nella città di Zahedan nella provincia orientale del Sistan e del Baluchestan, la polizia ha aperto il fuoco indiscriminatamente sulle persone. I video che arrivano da lì sono molto dolorosi.

Negli ultimi anni abbiamo assistito a diverse ondate di proteste in Iran su varie questioni, dai diritti dei lavoratori al costo della vita. Pensi che le proteste attuali siano fondamentalmente diverse da quelle precedenti?

Sicuramente, in diversi modi. In primo luogo, include tutti gli strati della società, dai giovani agli anziani. In secondo luogo, a differenza delle precedenti proteste che erano più specifiche – cioè, tutti sono scesi in piazza per gridare la cosa particolare che mancava loro – questa protesta è politica e l’opinione pubblica è unita su di un’unica richiesta: il rovesciamento del regime e l’instaurazione di un democrazia laica.

Raduno delle elezioni presidenziali iraniane ad Azadi e piazza Enghelab a Teheran, Iran, 15 giugno 2009. (Arash Ashoorinia/CC BY-NC 2.0)

Terzo, nelle ondate precedenti, le persone si radunavano in un solo posto e la polizia circondava e reprimeva facilmente la protesta. Oggi la gente ha imparato e sta manifestando in ogni città, in molte località disperse. Questo è riuscito a spezzettare le forze della repressione.

Il governo non ha abbastanza forze sul campo, quindi sta corteggiandoi Basij [una milizia volontaria subordinata alla Guardia Rivoluzionaria Islamica], molti dei quali hanno meno di 18 anni. Nelle foto e nei video potete vedere bambini con manganelli in mano, pagati per picchiare i manifestanti. Si tratta di un caso di sfruttamento minorile e ho sporto denuncia presso l’UNICEF, perché come durante la guerra Iran-Iraq (1980-88), il governo iraniano utilizza bambini in situazioni di guerra o di violenza.

Un altro aspetto unico è che i manifestanti si stanno coraggiosamente difendendo. In passato, stavano semplicemente a guardare mentre venivano picchiati o arrestati, mentre la polizia stessa rompeva i finestrini o dava fuoco a qualche scooter e incolpava i manifestanti. Ma questa volta, le persone stanno combattendo, come è loro diritto. Questo diritto è sancito sia dai trattati internazionali sui diritti umani, che dalle leggi iraniane. In alcuni luoghi, abbiamo visto che il potere dimostrato dalle persone era così grande da causare la fuga delle forze armate. Hanno paura di confrontarsi con la gente.

Tutti questi punti indicano che questo è l’inizio della caduta della Repubblica Islamica.

In altre parole, non si tratta di appelli a riformare il regime, ma a smantellarlo?

Esattamente. Perché con la costituzione della Repubblica Islamica, nessuna riforma è una reale possibilità in Iran. Il popolo iraniano lo sa molto bene e lo ha capito da anni ormai. Durante l’ondata di proteste di cinque anni fa [iniziata nel dicembre 2017 nel distretto di Khorasan contro l’aumento dei prezzi, la disoccupazione e le politiche interne dell’allora presidente Rouhani] la gente gridava lo slogan “riformatori, conservatori, la storia è finita”. Da quel momento in poi, quello slogan è diventato permanente nelle voci della gente. Il popolo non si lascerà ingannare dalla definizione di “riformisti” e non ci accontenteremo di meno del rovesciamento del regime.

La gente si riunisce a Melbourne per un secondo raduno in una settimana per manifestare solidarietà alle proteste iraniane. (Matt Hrkac/CC BY 2.0)

C’è la sensazione che sotto la cenere dell’oppressione in Iran, ci sia la brace costantemente accesa della resistenza, che di tanto in tanto esplode  in superficie. Quella resistenza costante e coraggiosa è guidata dalle donne. Nelle foto che vediamo oggi, le donne si tolgono l’hijab davanti alle telecamere e protestano contro il regime con il volto in mostra. Dà l’impressione che abbiano sconfitto la paura.

È proprio così. Le donne iraniane si sono opposte alla Repubblica Islamica fin dal primo giorno dopo la rivoluzione, perché hanno perso tutti i diritti che avevano precedentemente raggiunto. Questa volta hanno  scacciato completamente la paura e si difendono dalla violenza delle forze oppressive.

Accanto alla resistenza femminista, la questione dell’hijab obbligatorio è sul tavolo dell’opinione pubblica iraniana sin dal primo giorno del regime islamico. Lei è stata tra i primi sostenitori della campagna “Un milione di firme contro l’hijab obbligatorio” nei primi anni 2000. Al giorno d’oggi, con la revoca di questa legge in Arabia Saudita, l’Iran potrebbe essere l’unico paese al mondo che ha ancora una tale legge. Come spiega che l’hijab è diventato una questione così fondamentale per la Repubblica islamica?

Il regime vede l’hijab come la sua bandiera e più di una volta hanno detto che se fanno concessioni sulla questione dell’hijab, allora dovranno concedere alle persone il resto dei loro diritti. Le persone lo capiscono bene, ed è per questo che oggi sia le donne che gli uomini chiedono di cancellare l’hijab obbligatorio. Sanno che se le donne vincessero, sarebbe il primo passo verso la democratizzazione dell’Iran. Non ho dubbi che la democrazia in Iran arriverà attraverso le donne, ed è per questo che stiamo assistendo a una partecipazione di massa a questa protesta.

Come lei ha detto, fino ad oggi questa protesta è costata la vita a più di 70 persone. Secondo lei, fino a che punto è disposto a spingersi il regime con la sua violenza, per reprimere le proteste?

Sfortunatamente, questo regime ha già dimostrato più di una volta quanto sia violento. Ha sempre risposto al popolo con la reclusione e la fucilazione. Ma questa volta il numero dei manifestanti è enorme e il regime non può imprigionare tutti. Si fermerà da qualche parte. Secondo informazioni non ufficiali, molte forze di polizia si sono ribellate o si sono rifiutate di presentarsi al lavoro con scuse diverse. Molti di loro preferirebbero non scontrarsi con la gente, perché sanno che se la gente vince, loro pagheranno personalmente. Il regime non è in una buona situazione.

Manifestanti iraniani sul viale Keshavrz, 20 settembre 2022. (Darafsh/CC BY-SA 4.0)

Vorrei chiederle del giorno dopo la caduta della Repubblica Islamica. Nelle conversazioni con amici iraniani, questi parlano molto del costo del crollo della società iraniana dopo anni di oppressione e istigazioni interne. Dall’altro lato, vediamo nelle strade uomini che protestano accanto alle donne e diversi studenti universitari che annunciano uno sciopero in solidarietà con le donne. La società iraniana si aggrappa alla solidarietà interna per stabilire un nuovo futuro?

Mentre parliamo, il popolo iraniano è unito perché vuole una sola cosa: rovesciare il regime. Cosa accadrà dopo la caduta del regime? Dipende da diversi fattori. Ad esempio, quale sarà il prezzo che il regime esigerà prima della sua caduta e quante persone ucciderà? Quale sarà la situazione economica in Iran? È tutto collegato alla situazione nazionale e internazionale.

Abbiamo anche assistito a un’ondata di proteste in tutto il mondo in solidarietà con le donne iraniane. Come vede il ruolo della comunità internazionale? Il mondo ha bisogno di essere coinvolto? Se si, come?

L’Occidente ha dichiarato sostegno al popolo iraniano, ma non vogliamo parole, vogliamo azioni. Azioni come l’espulsione di ambasciatori iraniani in segno di protesta contro la violenta oppressione del regime, il declassamento dei rapporti diplomatici dalle ambasciate ai consolati o il ritiro dei loro inviati dall’Iran.

E gli iraniani che vivono all’estero? Hanno anch’essi un ruolo nella lotta popolare?

Certamente! Dopotutto, anche noi siamo iraniani: abbiamo lasciato l’Iran per diversi motivi, ma siamo tutti figli e figlie della patria iraniana. Per fortuna, gli iraniani all’estero hanno lavorato in modo eccezionale ed efficace. Li vediamo nelle proteste in tutto il mondo, in Australia, Indonesia, Corea, Europa, Stati Uniti e Canada. Il vantaggio di queste proteste è che stanno attirando l’attenzione dei cittadini di diversi paesi, nel senso che capiscono che sta succedendo qualcosa e vanno a informarsi. Anche i media locali riferiscono delle proteste e aiutano a diffondere le notizie dall’Iran nel mondo.

C’è un’altra cosa che gli iraniani che vivono all’estero possono fare: tradurre le notizie e i video che escono dall’Iran nella loro  lingua locale e inviarli ai media e alle stazioni televisive. Diffonderli sul posto di lavoro, agli amici, ai vicini: in questo modo faranno conoscere al mondo le atrocità contro il popolo iraniano.

Manifestazione di solidarietà con i manifestanti iraniani a Ottawa, Canada, 25 settembre 2022. (Taymaz Valley/CC BY 2.0)

Che prezzo sta pagando per la sua lunga battaglia? Ci sono state minacce contro la sua vita più di una volta e sua sorella è stata detenuta in Iran per fare pressione su di lei. Si sente  ancora in pericolo?

Sì, le minacce non finiscono mai. C’è un documentario sulla mia vita che è stato proiettato quest’anno alla Mostra del Cinema di Venezia, intitolato “Until We Are Free”. Il regista, il festival e io abbiamo ricevuto minacce che ci avvisavano di non proiettare il film. Ovviamente non ci siamo fermati. Non li temiamo, nonostante il film abbia fatto perdere la testa ai funzionari del regime.

La mia ultima domanda non è collegata all’Iran ma alla nostra realtà qui in Israele-Palestina. Diversi anni fa,  sostenne l’appello degli studenti dell’Università della California che chiedevano  di ritirare  gli investimenti nei territori palestinesi occupati. Fu una mossa senza precedenti, dato il generale estraniamento degli attivisti iraniani per i diritti umani e degli oppositori del regime riguardo all’oppressione dei palestinesi. Può spiegarlo?

La verità è che in Iran succede sempre qualcosa ogni giorno e purtroppo non c’è un buon flusso di informazioni nel paese. Noi iraniani siamo così presi dai nostri problemi da dimenticarci di ciò che sta accadendo nel mondo. Ma sono un attivista per i diritti umani e mi oppongo alle violazioni dei diritti umani in tutto il mondo. Proprio come sono spaventata e colpita dall’Olocausto e dai crimini commessi a molte persone a causa della loro identità, per le stesse identiche ragioni sono spaventata e rattristata dal fatto che persone innocenti stiano perdendo le loro case e diventino profughi. Non è legato all’identità o alla nazionalità religiosa, perché i diritti umani sono una questione internazionale e dobbiamo rispettarli in ogni angolo del mondo.

 

Orly Noy è un editore di Local Call, un’attivista politica e una traduttrice di poesia e prosa persiana. È membro del consiglio di amministrazione di B’Tselem e attivista del partito politico Balad. La sua scrittura affronta le linee che si intersecano e definiscono la sua identità di Mizrahi, donna di sinistra, donna, migrante temporanea che vive all’interno di una perpetua migrazione, e il dialogo costante tra loro.

Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senziento sono moralmente uguali” – Invictapalestina.org