Il nuovo rapporto delle Nazioni Unite che condanna il colonialismo israeliano dà legittimità allo slancio della lotta palestinese per la libertà 

La relazione di Francesca Albanese mette a nudo le violazioni più basilari dei diritti fondamentali del popolo palestinese.

Fonte: English version
Di Richard Falk – 27 ottobre 2022

Immagine di copertina: Un uomo sventola una bandiera palestinese mentre un soldato israeliano osserva durante gli scontri nel villaggio di Deir Sharaf vicino all’ingresso occidentale della città di Nablus nella Cisgiordania occupata il 20 ottobre 2022 (AFP)

Per più di un secolo, il popolo palestinese ha sopportato una serie di prove che hanno violato i suoi diritti individuali e collettivi più elementari.

Fondamentale per questa epica saga di sofferenza è stato il successo del movimento sionista nell’instaurare lo Stato di Israele sulla premessa della supremazia ebraica nel 1948.

Tale successo dipendeva anche dalla perpetrazione di un crimine internazionale, poiché i sionisti cercavano di stabilire non solo uno Stato ebraico ma uno Stato presumibilmente democratico. Questa combinazione di obiettivi poteva essere raggiunta e mantenuta solidamente solo assicurando che Israele avesse una maggioranza demografica ebraica permanente.

Ciò ha richiesto un drastico aggiustamento demografico che comportava un forte aumento della presenza ebraica in Palestina, che all’epoca non era fattibile, o la drastica riduzione della presenza araba.

Questa logica ha indotto l’espulsione forzata di circa 750.000 cittadini arabi della Palestina del Mandato Britannico da quella parte della Palestina storica riservata allo Stato ebraico dal Piano di Spartizione delle Nazioni Unite, a sua volta ampliato territorialmente dall’esito della guerra del 1948.

Una maggioranza ebraica in Israele è stata ulteriormente rafforzata e salvaguardata da una rigida negazione del diritto al ritorno degli arabi espropriati e sfollati dalla Palestina in violazione del diritto internazionale.

Naturalmente, questa non è l’intera storia. C’era una presenza ebraica e un legame biblico con la Palestina che risalgono a migliaia di anni fa, sebbene la minoranza ebraica fosse scesa a meno del 10% nel 1917, quando il Ministro degli Esteri britannico promise sostegno alla creazione di una Patria ebraica attraverso la famigerata Dichiarazione Balfour.

Più rilevante fu l’ascesa dell’antisemitismo europeo negli anni ’30, culminata nell’Olocausto, che fece di un santuario ebraico una condizione di sopravvivenza per una parte significativa degli ebrei nel mondo.

Tale contesto storico ha mobilitato la diaspora ebraica, specialmente negli Stati Uniti, per sostenere il progetto sionista di colonizzare la Palestina e, da allora, per fornire forza geopolitica e massiccia assistenza economica e militare per sostenere la sicurezza e le ambizioni espansionistiche di Israele.

I Relatori Speciali: un’innovazione dell’ONU

A livello internazionale, in particolare all’interno delle Nazioni Unite, c’è stata una costante solidarietà e sostegno per i diritti palestinesi secondo il diritto internazionale, in particolare nell’Assemblea Generale e nella Commissione per i Diritti Umani, che attua le decisioni del Consiglio per i Diritti Umani, composto di 47 governi eletti.

Nel 1993 è stato creato un mandato nazionale riguardante le violazioni dei diritti umani da parte di Israele nei Territori Palestinesi Occupati di Gerusalemme Est, Cisgiordania e Gaza.

Da ciò deriva il mandato del Relatore Speciale.

Un Relatore Speciale viene selezionato da un voto favorevole del Consiglio per i Diritti Umani sulla base di un processo di selezione piuttosto elaborato che include un comitato di diplomatici del governo membro che trasmette al presidente del Consiglio una lista di candidati selezionati, presumibilmente scelti per le loro credenziali di esperti.

Il presidente generalmente segue la raccomandazione, che viene poi presentata al Consiglio per un voto positivo o negativo, con un solo voto contrario sufficiente a respingere un candidato.

La stessa posizione di Relatore Speciale è un’innovazione delle Nazioni Unite, con ogni incaricato che serve due mandati triennali.

Sebbene richieda un considerevole impegno in termini di viaggi e rapporti, è una posizione non retribuita che non è soggetta a disciplina amministrativa come funzionario delle Nazioni Unite. Questa caratteristica è progettata per conferire alla posizione una completa indipendenza politica.

Israele e gli Stati Uniti si sono opposti al mandato da quando era stato proposto e negli ultimi anni Israele ha rifiutato di collaborare.

Negando l’ingresso in Israele o nei Territori Occupati, il governo israeliano nega al Relatore il contatto diretto con le persone e la situazione sul campo e obbliga a fare affidamento sull’informazione pubblica e sugli incontri nei Paesi vicini.

Negli ultimi 15 anni, Israele e i suoi sostenitori hanno smesso di rispondere alla sostanza dei rapporti accuratamente documentati su presunte violazioni e hanno concentrato le loro energie sulle accuse di antisemitismo nei confronti delle Nazioni Unite e sulla relativa diffamazione dei successivi Relatori.

Nonostante questo rifiuto personalmente sgradevole, i rapporti dei Relatori Speciali hanno acquisito influenza e legittimità tra diversi governi, gran parte dei media e attori della società civile tra cui chiese, sindacati e organizzazioni per i diritti umani.

In questo contesto, la nuova Relatrice Speciale, una giurista accademica italiana ed esperta di diritti umani molto apprezzata, Francesca Albanese, ha recentemente pubblicato il suo primo rapporto, che dovrebbe essere presentato a breve all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York.

Si tratta di un documento notevole che descrive e documenta in modo completo le violazioni più basilari dei diritti fondamentali del popolo palestinese.

Contro il corso della storia

Essa presta opportunamente un’attenzione primaria al diritto inalienabile all’autodeterminazione, che ha gettato le basi per le lotte anticoloniali che hanno condiviso con la Guerra Fredda il fulcro della scena mondiale nei tre decenni successivi alla fine della Seconda Guerra Mondiale.

Albanese nota l’estrema ironia che il sionismo sia riuscito ad andare contro il corso della storia stabilendo lo Stato colonialista di Israele proprio nel momento in cui il colonialismo europeo stava crollando altrove.

Il suo rapporto ha ottenuto un’attenzione immediata sia per il suo spirito di fiera indipendenza che per l’alta qualità della sua analisi. Una tale esemplare prestazione ha anche provocato commenti ostili sotto forma di provocazioni e accuse diffamatorie di una presentazione di prove deliberatamente distorta.

Semmai il contrario. Qualsiasi lettura obiettiva del rapporto albanese concluderebbe che l’autore fa di tutto per avere accesso alla narrativa di Israele e per presentare al lettore la consueta difesa di Israele del suo comportamento.

Pur accettando l’emergente convergenza della società civile sul riconoscere Israele come praticante dell’Apartheid, la Relatrice espone un argomento del tutto originale sul perché l’eliminazione dell’Apartheid non sarebbe di per sé sufficiente a porre fine al calvario del popolo palestinese.

Riassumendo brevemente, la maggior parte dell’esposizione dell’Apartheid è territorialmente limitata ai Territori Occupati o a un’entità allargata che include Israele vero e proprio (spesso noto come “dal Fiume al Mare”), escludendo così i profughi nei Territori Occupati e nei Paesi vicini, e gli esiliati involontari in tutto il mondo che vivono fuori dai confini della Palestina contro la loro volontà.

Smantellamento dell’occupazione colonialista

Oltre a ciò, senza soddisfare i diritti fondamentali dei palestinesi non vi è alcuna garanzia che Israele non sarebbe in grado di mantenere il dominio anche dopo lo smantellamento dell’Apartheid.

Per Albanese è indispensabile riconoscere che giustizia per il popolo palestinese non sarà fatta finché il suo diritto all’autodeterminazione non sarà pienamente attuato. Analizza questo diritto palestinese facendo riferimento a due dimensioni principali: la libera scelta del modello di governo politico e la sovranità permanente sulle risorse naturali.

In sostanza, secondo Albanese, il diritto all’autodeterminazione è il diritto di un popolo “di esistere come indipendente sia demograficamente (come popolo) che territorialmente (all’interno di una determinata regione) e di perseguire il proprio sviluppo culturale, economico e sociale attraverso quello che il territorio e le risorse ad esso associate offrono”.

Nelle sezioni più prescrittive della sua relazione, Albanese mette al lavoro le sue capacità analitiche per aprire un percorso per i palestinesi. Non esenta l’ONU dal mancato rispetto del diritto internazionale in relazione alle lotte per la giustizia e lo stato di diritto in Palestina e insiste sul fatto che dovrebbe fare di meglio.

Accusa le Nazioni Unite di aver “sistematicamente fallito nel ritenere Israele responsabile”, consentendo così l’imposizione da parte di Israele del colonialismo dei coloni di fronte alla flagrante e ripetuta violazione del diritto umanitario internazionale.

Per inciso, sostiene anche che il rifiuto provocatorio di Israele di ottemperare ad una serie di risoluzioni dell’Assemblea Generale che lo invitano a difendere i diritti dei palestinesi, inclusi i diritti all’autodeterminazione, il “diritto palestinese legittimo di resistenza”, ha minato la legalità di Israele come potenza occupante.

Porre fine al l’Apartheid non basta

Il messaggio clamoroso di questo rapporto storicamente significativo è il suo appello a una soluzione basata sul “rispetto della storia e del diritto internazionale”, da attuare mediante il ritiro immediato dai Territori Palestinesi Occupati e il risarcimento per i decenni di abusi inflitti al popolo palestinese.

Albanese è da elogiare per la chiarezza e l’onestà di questo rapporto all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, ma sarebbe ingenuo supporre che esso porterà di per sé la tanto agognata liberazione al popolo palestinese.

Ciò che porta è un’autorevole legittimazione della resistenza palestinese all’occupazione e una convincente critica alla debolezza delle Nazioni Unite quando si tratta dell’attuazione dei diritti fondamentali.

L’ONU rimane importante nei domini simbolici delle guerre di legittimità, che hanno controllato gli eventuali esiti politici delle principali guerre anticoloniali.

Questo contributo coincide con l’impotenza delle Nazioni Unite a raggiungere risultati sostanziali ogniqualvolta i dettami della giustizia si scontrano, come qui, con gli interessi strategici vitali di un attore geopolitico dominante.

Per lo meno, questo rapporto coraggioso dovrebbe servire da campanello d’allarme per il Sud del mondo e ricordare che il movimento anticoloniale deve ancora affrontare una sfida formidabile.

Richard Falk è uno studioso di diritto internazionale e relazioni internazionali che ha insegnato per quarant’anni all’Università di Princeton. Nel 2008 è stato anche nominato dalle Nazioni Unite per un mandato di sei anni come Relatore Speciale sui diritti umani dei palestinesi.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalesina.org