A fronte dell’apartheid israeliano, i Palestinesi lavorano per la sovranità alimentare

“Con ogni seme che piantiamo, otteniamo più autonomia”

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Reem Abd Ulhamid – 30 ottobre 2022

Immagine di copertina: Contadini palestinesi camminano verso un posto di blocco israeliano prima di  poter entrare nella loro terra, divisa dal muro di separazione israeliano, vicino al villaggio di Bayt Awwa, in Cisgiordania, il 22 ottobre 2022 (Hazem Bader/AFP tramite Getty Images)

“Torniamo alla terra come rifugio ogni volta che c’è una crisi. È naturale, perché è chiaro che la terra è nostra madre”, ha affermato Farid Tamallah, attivista ambientale e fondatore di Souq al-Fallahin, un mercato locale che mette  direttamente in contatto gli agricoltori con i consumatori della Cisgiordania. “Dopo due anni di pandemia globale, la questione della sicurezza alimentare è tornata alla ribalta, riportando i giovani all’agricoltura”.

Tamallah, lui stesso agricoltore e fondatore di Sharaka 2011 (un’associazione comunitaria che organizza Souq al-Fallahin), chiarisce che la pandemia ha esacerbato le già dure condizioni che minacciano la mera sopravvivenza del settore agricolo palestinese.

“È molto importante sostenere i contadini palestinesi nella loro capacità di sopravvivere”, ha detto. “E non è solo per la loro sicurezza alimentare: sopravvivere significa adottare un intero stile di vita in cui gli agricoltori palestinesi diventano difensori della terra. È allora che proteggere la terra diventa importante quanto coltivarla”.

Negli ultimi anni, gli attivisti ambientali palestinesi hanno invitato gli agricoltori ad aderire ai principi agroecologici, definendoli come un movimento sociale che sostiene una serie di pratiche che affrontano i fattori ecologici, socioculturali, economici e politici che modellano i sistemi alimentari, dalla produzione al consumo.

Secondo molti di questi attivisti, i principi dell’agroecologia potrebbero aiutare nel contesto politico particolarmente difficile della Palestina, caratterizzato da condizioni socio-economiche restrittive. Oltre ai cambiamenti climatici — fluttuazioni di temperatura, pioggia e cambio di stagione — gli agricoltori palestinesi sono costantemente a rischio di confisca delle terre, oltre alle restrizioni alla libertà di movimento degli agricoltori palestinesi e al pericolo rappresentato dai coloni che distruggono i raccolti palestinesi.

“L’idea del mercato degli agricoltori di Souq al-Fallahin, che si tiene una volta alla settimana, è contrastare le restrizioni israeliane alla circolazione dei prodotti e la frammentazione della Cisgiordania”, ha spiegato Tamallah. “Lo fa fornendo ai piccoli agricoltori un mercato per vendere i loro prodotti altrimenti sprecati”.

Il mercato, situato nei governatorati di Ramallah e Al-Bireh, dispone di circa 20 tavoli per piccoli agricoltori, per vendere i loro prodotti. Gli agricoltori provengono principalmente da zone rurali situate nell’Area C, sotto il pieno controllo dell’esercito israeliano. Oltre a fungere da punto vendita comune all’interno dell’Area A (l’area sotto controllo amministrativo palestinese), il mercato funge anche da spazio comune in cui gli agricoltori possono interagire e condividere esperienze personali sulla loro lotta, nonché strategie di resilienza e resistenza attraverso pratiche agricole agroecologiche.

“Con ogni seme che piantiamo, otteniamo più autonomia”

Il settore agricolo palestinese soffre di una grave mancanza di fonti. L’area C ospita il 63% dei terreni agricoli in Cisgiordania e rientra nell’esclusivo controllo civile e di sicurezza israeliano. Anche la scarsità d’acqua è un grave problema in quelle aree, poiché Israele controlla l’85% delle fonti d’acqua palestinesi e agli agricoltori è vietato utilizzare quei pozzi.

Le avversità economiche sono state aggravate dal recente aumento dei prezzi dei prodotti agricoli, che ha allontanato dai campi molti agricoltori per cercare lavori meglio retribuiti negli insediamenti illegali israeliani, spesso come lavoratori industriali e edili. L’agricoltura, quindi, ha assistito a un calo del suo contributo al PIL dell’economia palestinese. Secondo l’Ufficio centrale di statistica palestinese (PCBS), il tasso di occupazione nel settore agricolo, della pesca e della silvicoltura è sceso dal 45% nel 2003 al 6,7% nel 2021.

Secondo Tamallah, la contrazione della forza lavoro agricola ha di fatto decimato il settore.

“Il quadro non è del tutto desolante, però”, si affretta ad aggiungere. “Ci sono iniziative eccezionali e stimolanti che danno una speranza. E abbiamo anche una ricca esperienza storica ereditata dai nostri antenati, che erano anche contadini».

Le pratiche adottate negli approcci all’agricoltura agroecologica sono in linea con i metodi agricoli tradizionali palestinesi, sostiene Tamallah, in quanto quelle pratiche storiche sono sia rispettose dell’ambiente, che in armonia con esso. Ad esempio, i raccolti non irrigati o “ba’li” che dipendono dalle precipitazioni stagionali – i loro nomi derivano dal dio cananeo Ba’al, un dio della tempesta associato alla fertilità risalente al 1500-1300 a.C. – sono più appropriati per il clima semi-arido di gran parte della Cisgiordania.

Vivien Sansour è un’antropologa e fondatrice della Palestine Heirloom Seed Library, che conserva 47 diverse varietà di semi antichi palestinesi. Questi sono semi tradizionali che non sono geneticamente modificati e sono resistenti alla siccità. Non solo fanno bene alla salute dell’agricoltura in una prospettiva globale, ma sono anche necessari per gli agricoltori palestinesi nelle loro circostanze attuali. Sansour crede che “con ogni seme che piantiamo, otteniamo maggiore autonomia”. Per Sansour, gli agricoltori palestinesi fanno molto affidamento sui semi commerciali che devono essere acquistati ogni stagione della semina, mentre i semi tradizionali possono essere conservati e ripiantati. Inoltre, gli agricoltori possono risparmiare costosi fertilizzanti chimici e pesticidi.

L’egemonia dei prodotti israeliani nei mercati della Cisgiordania

“Ero sul punto di rinunciare all’agricoltura. È un lavoro faticoso, faticoso e finanziariamente inutile”, ha spiegato Odai Asfour, insegnante e contadino di Sinjil, un villaggio situato appena a nord di Ramallah. “Ma continuo a farlo”.

Insieme a sua moglie, Odai coltiva piante stagionali sui suoi 5 dunam (0,5 ettari) di terreno agricolo che ha ereditato dai suoi bisnonni.

“Mia moglie ed io coltiviamo cetrioli, fagiolini, pomodori, cavoli e anguria, sempre che il raccolto sopravviva ai cambiamenti climatici e all’aumento delle temperature torride”, afferma Asfour. “Ma queste colture corrono anche un grande rischio di essere distrutte”.

Asfour, come molti agricoltori in Cisgiordania, è stata soggetto a diversi attacchi di coloni israeliani, che sono spesso accompagnati da una scorta dell’esercito israeliano.

“Abbiamo perso quasi la metà dei nostri pomodori solo il mese scorso”, dice, “perché i soldati israeliani hanno deciso di camminare su tutti i nostri pomodori subito dopo che io e mia moglie avevamo finito di piantarli. E ci sono stati altri tre incidenti simili durante tutto l’anno”.

Il PCBS ha documentato un aumento del numero di attacchi dei coloni contro agricoltori palestinesi in Cisgiordania nel 2021, registrando circa 1 600 violazioni contro agricoltori palestinesi. Questi includono lo sradicamento, la distruzione e l’incendio di 19.000 alberi e piante.

Asfour ha scoperto Souq al-Fallahin due anni fa, dopo aver chiesto in giro e aver cercato su Internet. Prima di allora vendeva i suoi raccolti esponendoli sulla strada principale che collega Nablus e Ramallah.

“Poi l’esercito israeliano ci ha proibito di vendere, per motivi di sicurezza”, ha detto Asfour. Sebbene la sua partecipazione al mercato abbia facilitato il contatto con i consumatori una volta alla settimana, permangono una serie di sfide fondamentali, vale a dire l’alto costo di produzione e la concorrenza sleale con i prodotti israeliani più economici.

L’egemonia dei prodotti israeliani nei diversi mercati della Cisgiordania è forse il più grande ostacolo per gli agricoltori palestinesi. “Importano prodotti di seconda categoria, dannosi per la nostra salute”, afferma Asfour. “Almeno i nostri prodotti sono privi di sostanze chimiche”.

Le affermazioni di Asfour sono supportate dalla ricerca scientifica. All’inizio del 2020, l’Applied Research Institute-Jerusalem (ARIJ) ha condotto una serie di test di laboratorio su otto campioni di pomodori e peperoni provenienti dalle parti settentrionali, centrali e meridionali della Cisgiordania. I risultati hanno rivelato che circa il 72% delle verdure vendute ai consumatori palestinesi in tutte e tre le località conteneva alti livelli di residui di pesticidi agricoli, violando gli standard raccomandati per la qualità dei prodotti (chiamati Codex Alimentarius) dell’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (FOA).

“Non esiste un partito ufficiale che sembra interessarsi al deterioramento della situazione degli agricoltori”, afferma Asfour. Quindi pone un’ultima domanda: “Ma che dire di come la nostra salute viene danneggiata?”

 

Reem Abd Ulhamid ha una laurea in comunicazione e studi sui media presso la Birzeit University e un master in comunicazioni globali presso l’Università americana di Parigi. Ha ricoperto numerosi incarichi nei media per oltre sette anni ed è stato ricercatore, editore, produttore e direttore per diverse organizzazioni. Il suo lavoro più recente è incentrato sugli sviluppi nei social media e nel web 2.0.

 

Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” -Invictapalestina.org