CINEMA. Il film di Firas Khoury – passato alla Festa di Roma – è ambientato in un liceo arabo nei territori occupati
Arianna Scarnecchia sul Manifesto del 19 novembre 2022
«La nuova generazione si esprime artisticamente» dice Firas Khoury, regista di Alam, racconto di formazione ambientato in un liceo arabo nei territori palestinesi occupati, presentato alla Festa del Cinema di Roma. Il protagonista del film Tamer, interpretato da Mahmood Bakri, reticente alla disciplina scolastica e genitoriale, si trasferisce nella vecchia casa del nonno, disabitata dopo la sua morte. Lì lo vediamo indagare e scoprire la propria personalità e l’innamoramento per la compagna di classe Maysaa. Mentre si avvicina la commemorazione della Nakba, ragazzi palestinesi appendono per le strade bandiere nere per il lutto e bandiere palestinesi, strappate poi dall’esercito israeliano che pattuglia la città. Tamer e i suoi amici Rida e Shekel sono inizialmente solo spettatori di questi contrasti. Finché Safwat, uno dei compagni di classe di Tamer, non lo coinvolge in un’operazione per sostituire la bandiera israeliana sopra il tetto della scuola con quella palestinese. «Non possiamo rimanere neutrali verso ciò che ci circonda», dice Safwat. Un docente impartisce una lezione di storia sul 1948 aderente alla versione coloniale, e Safwat si ribella: «a casa di mia nonna vive un artista inglese, e lei non è mai potuta tornare» dice.
CACCIATO dalla classe, è seguito da tutti i suoi compagni. «Io dormivo durante le ore di storia» racconta Bakri «perché non ero interessato ad imparare questa narrazione falsa, ma penso che per altri ragazzi fosse fuorviante ed è pericoloso perché si può perdere la propria identità». Gli attori sono giovani esordienti. «L’arte è una forma di resistenza» racconta Sereen Khass (Maysaa), che con sua sorella gestisce un progetto di moda sostenibile, Syko.
In scena anche tre generazioni, quella del nonno di Tamer, evocata dagli oggetti nella sua casa, musicassette e ninnoli, tra cui una tazza decorata con una falce e martello che, se sollevata, suona l’Internazionale.
Bakri studia cinema a Betlemme e ha recitato in un altro film. Ahmad Zaghmouri (Rida) è tra i creatori dell’etichetta rap Bltnm. «La scena musicale è viva. Tre anni fa organizzavamo molti eventi» dice Zaghmouri «ma il governo ci ha osteggiato, da allora molti di noi sono finiti in prigione, interrogati, picchiati. Noi abbiamo creato un’impresa seria, eravamo in quattro all’inizio e ora siamo in diciotto con salari e tutto in regola».«Il film rappresenta diverse personalità» racconta Khass, «anche quelli che rimangono neutrali resistono. Per noi la resistenza non è una causa, non è una questione politica, è la nostra condizione di vita». Maysaa, il personaggio che Khass interpreta, è forza motrice all’interno del gruppo maschile degli amici di Tamer. «Ho tratto coraggio da lei» dice Khass «rappresenta molte giovani donne in Palestina, che sono in qualche modo vittime di due occupazioni, quella israeliana, e poi la mascolinità tossica. Maysaa le combatte entrambe».
IN SCENA anche tre generazioni, quella del nonno di Tamer, evocata dagli oggetti nella sua casa, musicassette e ninnoli, tra cui una tazza decorata con una falce e martello che, se sollevata, suona l’Internazionale. C’è la generazione dei genitori, protettivi e spaventati di ogni coinvolgimento dei figli in manifestazioni e azioni politiche. Il nonno di Tamer è morto per lo shock quando uno dei figli è stato arrestato dalla polizia israeliana con l’accusa di terrorismo. «il padre di Tamer» dice Zaghmouri «è diventato paranoico e teme che il figlio possa essere coinvolto, che Israele rubi il suo futuro. E questo racconta come i nostri genitori cerchino un compromesso; hanno lottato, ma dagli anni ‘90 hanno affrontato ostacoli sempre maggiori, con la repressione dell’ideologia comunista nella scena globale». E poi ci sono loro, «la generazione che fermerà l’occupazione» recita uno striscione durante una manifestazione cui il gruppo di ragazzi partecipa nel film. «Noi ci sentiamo più connessi con la generazione dei nonni che con quella dei genitori» afferma Zaghmouri.
DOPO il fallimento della sostituzione della bandiera, Safwat dorme a casa di Tamer. Improvvisamente, dalla tazza con la falce e il martello arrivano le note dell’Internazionale. Safwat chiede chi abbia alzato la tazza, ma la domanda non trova risposta, come se il nonno, il marxismo, l’Internazionale fossero degli spiriti evocati dai gesti della generazione dei nipoti. Safwat canta l’inno a Tamer, una versione dell’Internazionale che parla di carne strappata dagli artigli dei predatori, e di terra che appartiene a chi la vive.
È la terra che vediamo alla fine del film. La madre di Tamer ha partorito e alla fine del corridoio illuminato al neon dell’ospedale, cui sono appese ovunque bandiere israeliane, la porta dà sulla terra. «Solo sulla terra» dice Bakri, «questa è la Palestina e dovrebbe essere aperta per noi. È terra per tutti, non dovrebbe avere confini. E poi c’è una nuova vita, significa che saremo per sempre qui, qualunque cosa accada».