La nuova mostra evidenzia il ruolo trascurato delle organizzazioni sioniste della diaspora nel rapimento e nell’adozione dei bambini yemeniti di Israele.
Fonte: English version
Di Leeor Ohay – 1 dicembre 2022
Immagine di copertina: Un’esposizione alla mostra di Amram sulla vicenda dei bambini yemeniti a Londra. (Joanne Rosenthal)
“L’assimilazione dei bambini yemeniti inizia prima della nascita”, si leggeva nell’informativa di Hadassah, l’Organizzazione Sionista delle Donne d’America, nel 1935. Scritto da Jessie Sampter, una volontaria americana che lavorava nella Palestina del Mandato Britannico, l’informativa esprimeva le preoccupazioni dell’autore riguardo il tenore di vita degli yemeniti, che ha descritto come “livello arabo-contadino” e per la salute dei bambini “trascurati e sfruttati”. I bambini, scriveva, erano come “piccoli ratti magri e malvestiti”; i volontari di Hadassah e dell’Organizzazione Sionista Internazionale delle Donne (WIZO) si sarebbero quindi avvicinati alle future mamme yemenite per consigliarle su come allevare “bambini paffuti, dagli occhi chiari e capelli bruni”.
L’atteggiamento di Sampter nei confronti delle madri yemenite e dei loro figli non era affatto unico tra le organizzazioni ebraiche della diaspora dominate dagli ashkenaziti durante questo periodo. L’informativa è uno dei tanti documenti attualmente esposti in una mostra unica nel suo genere a Londra che racconta la storia della vicenda dei bambini yemeniti, Mizrahi e balcanici, e, in particolare, il contributo tanto trascurato delle organizzazioni sioniste americane in questa irrisolta tragedia storica.
La mostra, Culle Vuote: I Bambini Scomparsi di Israele (Empty Cradles: Israel’s Disappeared Children) espone i meccanismi alla base dell’allontanamento di circa 2.400 bambini dalle loro famiglie senza consenso durante gli anni di formazione dello Stato, per mano delle autorità mediche e assistenziali israeliane negli ospedali e nei campi di transito per i nuovi immigrati. I loro genitori, che erano ebrei recentemente immigrati principalmente dallo Yemen ma anche dal resto del Medio Oriente, Nord Africa e Balcani, furono informati che il loro bambino era morto, ma non gli fu mai mostrato un corpo, una tomba o un certificato di morte. Le prove degli ultimi anni hanno dimostrato che alcuni di quei bambini dichiarati morti dalle autorità sono stati consegnati ad organizzazioni di donne, che in alcuni casi ne hanno curato l’adozione illegale; molte delle famiglie colpite credono che il loro bambino sia stato mandato all’estero in questo modo.
La mostra è stata curata dal Dottor James Eastwood dell’Università Queen Mary insieme a Raz Weiner e Joanne Rosenthal, in collaborazione con l’Associazione Amram, un’organizzazione israeliana che si batte per dare giustizia alle famiglie e per il riconoscimento delle radici razziste della vicenda. Arriva in un momento in cui Amram deve affrontare la crescente ostilità in Israele per il suo lavoro di patrocinio, e in seguito alla recente riesumazione della tomba di un bambino per il test del DNA, la prima dopo una vittoria in tribunale nel 2018 che consentirà alla minoranza di genitori a cui è stato indicato un luogo di sepoltura per il loro bambino dopo la separazione per cercare di trovare delle risposte.
Colpisce vedere la vicenda raccontata in inglese, in una lingua diversa dall’ebraico che l’ha sminuita, ridicolizzata e relegata allo status di conversazione chiusa tra “familiari” in un proverbiale salotto ebraico-israeliano. La mostra, tuttavia, va oltre la traduzione e pone la vicenda in un contesto storico globale di politiche sociali e sanitarie razziste che hanno portato a casi storici simili come la Generazione Perduta australiana, le Scuole Residenziali canadesi e i bambini della classe operaia britannica che sono stati inviati nelle colonie, tutto in nome della missione di “salvarle” e “civilizzarle” da una percepita “inferiorità” socioculturale. In tal modo, sfata un altro aspetto dell’eccezionalismo israeliano che oscilla tra una razionalizzazione della vicenda come errore amministrativo da un lato e una totale negazione dall’altro.
Missione civilizzatrice
La mostra mette a nudo gli atteggiamenti paternalistici e razzisti delle organizzazioni della diaspora anglo-ebraica nei confronti degli ebrei yemeniti nella Palestina Britannica e successivamente in Israele. Una ricca esposizione di materiali storici prodotti per un pubblico di lingua inglese da organizzazioni sioniste statunitensi e britanniche che lavorano in Israele mostra come hanno informato i loro membri in patria della missione di “civilizzazione” che stavano intraprendendo con queste comunità.
C’è un filmato tratto da A Tuft of Grass (Un Ciuffo d’Erba), un film del 1951 prodotto dall’associazione delle Donne Pioniere d’America (Pioneer Women of America), che mostra gli assistenti sociali ashkenaziti che istruiscono le donne yemenite sull’igiene e la cura dei bambini. Il narratore descrive i suoi incontri con le madri yemenite, che sono ritratte come impure, indifese e pericolose nella loro semplicità.
C’è una serie di cinque ritratti in un articolo del 1949 intitolato “L’evoluzione di uno yemenita in Israele” per La Nuova Palestina, il giornale dell’Organizzazione Sionista d’America. L’illustrazione è simile alla Marcia del Progresso, solo che i personaggi vengono sostituiti con uomini yemeniti in varie fasi di evoluzione del loro abbigliamento tradizionale e dei riccioli laterali.
Ma forse nessuno è più straziante della campagna di raccolta fondi di WIZO nella Rivista delle Donne Ebree (Jewish Women’s Review) per la Casa del Bambino di Gerusalemme (Jerusalem Baby Home). Descrivendo i bambini ebrei mediorientali come trascurati e abbandonati da madri inadatte, la campagna descrive i bambini yemeniti come “mezzi orfani”. Un testo tratto da una pubblicazione WIZO appesa al muro recita: “è stato deciso fosse meglio portare i bambini in ospedale in questa fase iniziale rispetto a quando le famiglie si fossero sistemate, poiché le madri sono ancora così frastornate dalle loro nuove condizioni che sollevano poche obiezioni”.
Le case per bambini erano una caratteristica comune di molti dei campi di transito che ospitavano immigrati ebrei dallo Yemen e da altri Paesi arabi durante i primi anni dello Stato e il primo passo nell’allontanamento dei bambini dai genitori. I bambini sarebbero stati portati in una casa per bambini con il pretesto che i loro genitori non potevano fornire cure adeguate, a causa della loro salute precaria o di alloggi scadenti: baracche e tende fatiscenti che lo Stato forniva alle famiglie di immigrati. Ma in molti campi, la separazione dei figli dai genitori era una pratica normale, indipendentemente dalla loro condizione.
Una volta sottratto, il bambino veniva spesso trasferito dalla Casa del Bambino a un ospedale senza la conoscenza o il consenso dei genitori. Le famiglie che cercavano il loro bambino hanno incontrato diversi ostacoli: dalle rigide politiche di ricovero ospedaliero al personale ostile che forniva informazioni errate, prima che alla fine venisse loro detto che il loro bambino era morto, anche se erano sani quando i genitori li hanno visti l’ultima volta.
Quando le autorità mediche negli ospedali non erano disposte o propense a restituire i bambini ai loro genitori, si rivolgevano alle organizzazioni femminili. In qualità di principale organizzazione femminile dell’epoca, WIZO avrebbe preso i bambini nella sua vasta rete di case per bambini, prima di sovrintendere spesso al processo di adozione di quei bambini affidati alle sue cure in un momento in cui l’adozione era in gran parte non regolamentata.
Rifiutando di essere dimenticati
I materiali d’archivio tradotti degli anni ’50 mostrano la corrispondenza tra le autorità che descrive letti d’ospedale riempiti inutilmente di bambini sani e genitori che cercano i loro figli. Una lettera del Ministero della Salute israeliano, datata aprile 1950, descrive come i bambini non venivano restituiti alle loro famiglie e che le persone cercavano di adottarli. Un altro, dell’Organizzazione Medica Hadassah, afferma che la questione riguarda gli assistenti sociali e le organizzazioni femminili: “È inconcepibile che i bambini guariti continuino a occupare i letti, semplicemente perché i loro genitori non possono essere rintracciati”.
Ma trovare i genitori non è mai stata una vera preoccupazione per le autorità. Non c’è niente di più chiaro della testimonianza dell’ex capo infermiera del campo di transito di Ein Shemer, Sonia Millstein, che ha dichiarato alla Commissione Kedmi del 1995, una delle numerose commissioni d’inchiesta istituite per raccogliere le testimonianze delle famiglie colpite e degli operatori sanitari coinvolti nella vicenda, che i genitori non avrebbero mai potuto trovare il loro bambino. “Io, come madre europea che sa seguire suo figlio, sarei andata a cercare, a chiedere e avrei scoperto dov’era mio figlio. Ma le madri yemenite nel loro stato mentale primitivo, dico primitivo, erano scioccate, malnutrite e avevano molti figli e afflizioni, e non potevano farlo”.
L’estratto dalla trascrizione della dichiarazione di Millstein alla commissione, disposto sul muro, espone non solo la mentalità razzista e paternalista che ha guidato l’incontro tra le autorità israeliane e le famiglie di immigrati mediorientali e nordafricani, ma indica anche che i responsabili erano pienamente consapevole della vulnerabilità dei genitori, consapevoli e riluttanti ad aiutare.
Nelle parole del procuratore Nahamani, che stava interrogando Millstein, “i bambini erano destinati a non essere identificati”, qualcosa che Millstein ammette “era la realtà”. La citazione si conclude con l’agghiacciante rifiuto di Millstein di rispondere quando le viene chiesto se riunire le famiglie con il loro bambino sia mai stata una preoccupazione per lei: “Non voglio rispondere a questa domanda”.
Il vero numero di bambini consegnati alla WIZO rimane sconosciuto, i fascicoli rilevanti sono stati secretati fino al 2071 dal giudice Kedmi che ha guidato la Commissione del 1995. Lo Stato, come la Commissione Kedmi, sostiene che la maggior parte dei bambini è morta in custodia e altri dispersi. E mentre il vero numero potrebbe non essere mai conosciuto, l’effetto che ha avuto sulle famiglie è evidente.
Al centro della mostra, inanellata nel suo piccolo cerchio, c’è una panchina che invita a sedersi e guardare le testimonianze delle famiglie colpite proiettate su uno schermo, a ciclo continuo. Madri e padri anziani siedono nei loro salotti, ansimando mentre raccontano in straziante dettaglio il giorno in cui il loro bambino è stato strappato dalle loro braccia per sempre. Una madre racconta di come fosse troppo spaventata per portare gli altri suoi figli all’asilo, temendo che anche loro sarebbero stati rapiti; un’altra spiega con voce rotta come non abbia mai smesso di pregare per rivedere suo figlio.
Le loro voci seguono i visitatori per tutta la mostra, sempre in sottofondo, come se rifiutassero di essere dimenticate o cancellate. Seduto sulla panchina, ripenso a come ho appreso per la prima volta della vicenda, quando mio nonno, seduto nel nostro soggiorno, mi ha raccontato di sfuggita come suo nipote è stato rapito dall’ospedale. È giusto che al centro di questa mostra ci siano le testimonianze personali delle persone colpite, perché al centro di questa tragica vicenda c’è una storia di famiglie dilaniate dal razzismo, di salotti resi un po’ più silenziosi.
Al termine della mostra c’è un appello a fornire ulteriori informazioni da parte dell’Associazione Amram. L’invito alle persone a farsi avanti ricorda che questo episodio oscuro è tutt’altro che finito e qualcuno là fuori potrebbe sapere qualcosa: che c’è ancora una possibilità per i fratelli, se non per i loro genitori anziani, di essere finalmente riuniti.
Leeor Ohayon è uno scrittore e dottorando di Londra con sede a Norwich.
Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org