Alla Coppa del Mondo in Qatar i giornalisti israeliani sono stati boicottati dai tifosi, in solidarietà con la Palestina. Ma piuttosto che aprirsi a un’autoriflessione, gli israeliani hanno fatto ricorso alla loro solita narrativa di vittimismo, scrive Emad Moussa.
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Emad Moussa – 14 dicembre 2022
Immagine di copertina: l’artista palestinese Mohammed Totah ”32” disegna un logo della Coppa del Mondo FIFA Qatar 2022, sulla spiaggia di Gaza, il 20 novembre 2022. [Getty]
Il Qatar non ha legami ufficiali con Tel Aviv. Ma per soddisfare i requisiti di inclusione della FIFA per ospitare la Coppa del Mondo, Doha ha permesso agli israeliani di entrare nel paese per le partite e ha rilasciato permessi speciali ai giornalisti israeliani. Oltre 3000 israeliani hanno richiesto i biglietti per la Coppa del Mondo, oltre ad altri che probabilmente sono entrati nello stato del Golfo con altri passaporti.
I cittadini israeliani hanno avuto fastidi minimi o nulli a Doha. I giornalisti israeliani, invece, non hanno goduto dello stesso basso profilo, scontrandosi direttamente con il vero sentimento arabo nei confronti dello stato sionista.
Sullo sfondo delle bandiere palestinesi e dello slogan “Palestina libera”, si sono spesso trovati in quello che può essere meglio descritto come un “festival della Palestina”, con la Palestina effettivamente incoronata come “il 33esimo paese del torneo”, secondo un tifoso marocchino.
Uno dei numerosi giornalisti, diventato ora il volto più rappresentativo della fredda accoglienza verso Israele a Doha, Moav Vardi, capo reporter internazionale per Israeli KAN, è stato ripetutamente snobbato mentre cercava di intervistare i fan. “Non sei il benvenuto qui, c’è solo la Palestina, non esiste Israele”, è diventato lo slogan lanciato a Moav e ad altri corrispondenti israeliani.
Sullo sfondo delle bandiere palestinesi e dello slogan “Palestina libera”, si sono spesso trovati in quello che può essere meglio descritto come un “festival della Palestina”, con la Palestina effettivamente incoronata come “il 33esimo paese del torneo”.
La Coppa del Mondo ha dato agli arabi (e non arabi) la rara opportunità di riunirsi ed esprimere la loro solidarietà con la Palestina, liberi dai vincoli e dagli impegni politici dei loro governi.
Ciò è particolarmente vero per i tifosi dei paesi che hanno normalizzato le relazioni con Israele, come il Marocco, i cui tifosi hanno costantemente cantato per la Palestina mentre i membri della loro squadra si sono assicurati che la bandiera palestinese fosse al centro mentre celebravano la loro storica vittoria contro Spagna e Portogallo.
Per i media israeliani il messaggio era forte e chiaro: gli accordi di normalizzazione che erano stati fatti con gli stati arabi non erano altro che accordi con i governi e non rappresentano il polso della gente. Ma questo è stato il limite della valutazione israeliana.
Moav Vardi ha detto alla CNN che “l’odio e il risentimento” non riguardavano solo l’occupazione israeliana dei territori palestinesi, ma “l’esistenza stessa di Israele”. I giornalisti del quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth Raz Shechnik e Oz Mualem hanno concluso che “il Qatar ci ha insegnato che l’odio esiste prima di tutto nella mente dell’uomo della strada”.
"Beyond Qatar, the recent normalisation deals between the Arab regimes and the Israeli regime clearly do not reflect popular sentiment."
@yarahawari on how the World Cup 2022 in Qatar shows that Arab people still stand with Palestine 👇 https://t.co/fK3GC4AxzL— The New Arab (@The_NewArab) 3 dicembre 2022
“Vorrebbero davvero vederci cancellati dalla faccia della terra, e qualsiasi idea di Israele evoca il loro completo disgusto”, hanno commentato.
Entrambi i resoconti sono sintomatici di una tipica visione del mondo israeliana che inizialmente liquida la coscienza politica degli arabi come emotività insensata. In secondo luogo, e cosa più importante, decontestualizza il sentimento arabo anti-israeliano come puro “odio”.
Il messaggio da portare a casa, in altre parole, era che gli arabi ci odiano ancora, evocando il defunto primo ministro Yitzhak Shamir che disse che “il mare è lo stesso mare, e gli arabi sono gli stessi arabi”, un riferimento alla narrazione sionista degli anni ’60 secondo la quale gli “arabi vogliono gettare gli ebrei in mare”.
Ciò che la Coppa del Mondo non ha provocato è stata un’autoriflessione israeliana sul motivo per cui hanno dovuto affrontare un rifiuto così radicale da parte degli arabi. Invece, ha innescato ciò che gli israeliani sanno fare meglio: l’auto-lamento come “vittime perpetue della regione”.
Il comportamento non richiede un contesto sui motivi dell’ostilità araba; interpreta solo l’atteggiamento arabo in un modo che conferma l’immagine di un Israele come sempre trattato ingiustamente e degli israeliani come sempre vittime innocenti.
Dopotutto, secondo la logica, gli arabi ci hanno sempre odiato per il solo motivo di esistere. La loro animosità è solo l’ultimo episodio nel continuum di sofferenza che ha caratterizzato la storia ebraica negli ultimi due millenni.
Per questo particolare motivo, gli apologeti di Israele hanno a lungo sostenuto che per fare “concessioni” lo stato israeliano doveva sentirsi al sicuro, e per sentirsi al sicuro doveva sentirsi accettato nella regione. Le misure di sicurezza estreme e il militarismo contro i suoi vicini dovrebbero essere compresi e giustificati di conseguenza, come azioni necessarie per sopravvivere.
Questa almeno è la teoria che è alla base dei trattati di pace con Egitto e Giordania e che dal 2020, con la firma degli Accordi di Abramo con quattro stati arabi, è stata accentuata e resa popolare.
“Criticare Israele, quindi, raramente porta all’autoesame o alla revisione delle sue politiche. Al contrario, conferma la nozione di eccezionalismo israeliano”
Tuttavia, l’esperienza mostra che l’immagine di sé come eterna vittima e la belligeranza di Israele non sono mai state del tutto reattive al presunto rifiuto arabo. Invece, sono più probabilmente un riflesso della necessità del sionismo di un conflitto continuo per giustificare la sua esistenza e i suoi obiettivi. In quanto tale, è una mentalità, probabilmente una forma di nevrosi – secondo Henry Kissinger.
Criticare Israele, quindi, raramente porta a un autoesame o a una revisione delle sue politiche. Al contrario, conferma la nozione dell’eccezionalismo israeliano e degli ebrei israeliani come una “minoranza assediata” che si oppone a enormi avversità. La superiorità militare qui è irrilevante.
Si pensi al fatto che i sionisti, prima e dopo lo Stato, hanno costruito insediamenti e postazioni dell’esercito in mezzo alle comunità palestinesi, su terre confiscate. Eppure sono stati in grado di preservare, e persino rafforzare, una mentalità da ghetto ben radicata, producendo le condizioni e la sensazione di essere circondati da nemici ostili.
La “tensione” con la popolazione indigena palestinese è stata vista e risolta solo in termini di rifiuto palestinese della presenza ebraica e negazione dei cosiddetti “diritti storici ebraici”. Non perché quegli ebrei abbiano occupato e confiscato la loro terra.
Quello che è successo in Qatar, in altre parole, si è inserito in uno schema già consolidato nel modo di pensare israeliano. Ha portato gli israeliani nel fin troppo familiare territorio dell’auto-lamentazione, facendoli domandare “perché ci respingono?”
Non importava che, mentre ciò accadeva, l’esercito israeliano fosse impegnato a uccidere e maltrattare i palestinesi in tutta la Cisgiordania occupata, così come a bombardare Gaza e la Siria. Tra l’auto-percezione di essere vittime dell’ostilità araba e altre atrocità, la legge di causalità era assente dalla narrazione di quasi tutti i principali media israeliani.
Se l’atteggiamento nei confronti degli israeliani a Doha fosse stato più accogliente, avrebbe avuto un impatto minimo sulle politiche di Israele in Palestina. Questo almeno a giudicare dal fatto che la normalizzazione araba con Tel Aviv ha solo incoraggiato le cattive pratiche di quest’ultima, garantendogli ancora più impunità.
La normalizzazione senza giustizia per i palestinesi è stata per anni l’obiettivo di Israele, uno schema accuratamente elaborato per legittimare l’occupazione e la sua narrazione storica.
“Se l’atteggiamento nei confronti degli israeliani a Doha fosse stato più accogliente, avrebbe avuto un impatto minimo sulle politiche di Israele in Palestina”
Accettare incondizionatamente Israele nella regione – senza una piena giustizia per i palestinesi e lo smantellamento dell’ideologia razzista sionista – non porterà a un cambiamento nell’atteggiamento di Israele.
Lo rafforzerà piuttosto. Solo la pressione politica, il boicottaggio e la resistenza lo faranno.
È, tuttavia, molto improbabile che l’esperienza israeliana della Coppa del Mondo porti a un serio esame di coscienza. Il colpo politico è stato significativo e il risultato probabile saranno politiche più aggressive nei territori e altri milioni spesi nelle campagne di hasbara (propaganda) per salvare ciò che resta della narrativa sionista, non senza l’aiuto di alcuni regimi arabi.
Il dottor Emad Moussa è un ricercatore e scrittore specializzato in politica e psicologia politica di Palestina/Israele.
Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” – Invictapalestina.org