“Credoinunsolodio”, il testo teatrale che presenta la Palestina come oppressore e Israele come oppresso.
di Grazia Parolari e Lorenzo Poli – 19 dicembre 2022
Immagine di copertina: particolare della locandina dello spettacolo svoltosi a Viareggio il 9.10.11 Dicembre 2022, con immagine di olio su tela di Patrizia Siviero (photo da Fb)
È stato presentato nei giorni scorsi al Vertigo, teatro Enzina Conte di Viareggio, con la regia di Barbara Mugnai, lo spettacolo intitolato “CREDOINUNSOLODIO” titolo a doppia lettura, su testo scritto da Stefano Massini nel 2010 e ambientato durante la Seconda Intifada.
Definito un “capolavoro” da molte testate di critica teatrale, il dramma ha come protagoniste tre donne: Eden Golan, docente di storia ebraica, ebrea moderata impegnata in opere di dialogo e riconciliazione con la parte palestinese. Mina Wilkinson, soldatessa presumibilmente americana, che si fa portatrice delle ragioni dell’Occidente all’interno del conflitto, e infine Shirin Akhras, ventenne studentessa palestinese, decisa a sacrificare la propria vita per la causa del proprio popolo.
Questa la presentazione che, a suo tempo, ne fece il Piccolo Teatro, dove l’opera venne rappresentata nel 2015:
“Tre ritratti di donna, tre culture, tre religioni, tre percorsi di vita. Le loro storie procedono parallele, all’apparenza inconciliabili, eppure destinate fino dall’inizio a un epilogo comune, nel grande labirinto della cosiddetta Terra Santa, in cui il tritolo si infiamma con la facilità dei fuochi d’artificio, e le paure si insinuano nel sangue come iniettate in endovena. Eden Golan, docente di storia ebraica. Mina Wilkinson, più o meno nascostamente in forza a un esercito straniero. E infine Shirin Akhras, ventenne studentessa palestinese. I loro punti di vista si intrecciano e si allontanano, fra improvvisi rischiosissimi incontri e vertiginose contrapposizioni, sfiorando talvolta il brivido inconsulto di una perfetta sintonia. Ma non è consentito combattere dalla stessa parte, sulla scacchiera in cui tutto vive di contrapposizioni. In una drammaturgia condotta su tre binari narrativi senza mai dialogo, la vicenda si nutre di echi e di rimandi, convergenze e antitesi, e dopo un crescendo inarrestabile culmina nel fuoco purificante e maledetto dell’ennesimo sacrificio”.
Certamente quindi uno spettacolo basato su di un testo e una tematica coinvolgente, che pone molti interrogativi, ma che, al di là dei giudizi sulla qualità della sopracitata rappresentazione, che non è oggetto di questo articolo, impone anche una lettura ben più critica.
Per quanto sia molto ben fatto, appassionante ed emozionante, contiene infatti delle gravissime lacune dovute o alla non-conoscenza di base dell’argomento, o a alla consapevole intenzione di volerlo raccontare così come viene rappresentato. Manda infatti messaggi fortemente ideologici e per questo riteniamo che una decostruzione decoloniale possa essere utile.
Come anticipato, lo spettacolo narra la storia di una ragazza palestinese “terrorista suicida”, di un’insegnante israeliana pacifista “di sinistra” e di una soldatessa americana. Lo scenario che si configura è fortemente scontato e stereotipato, con una rappresentazione obsoleta e superata della vicenda: la palestinese sempre vittima della sua società e di sè stessa, l’insegnante israeliana sempre progressista che solidarizzerebbe con i palestinesi se solo non usassero la violenza e la soldatessa americana il cui ruolo è di guardare la vicenda con sguardo “civilizzatore”.
Shirin Akhras, la protagonista palestinese, rimanda l’immagine di una ragazza privilegiata, malconsiderata dal padre, che per frustrazione interiore vuole farsi esplodere. Nel raccontarsi, fa intendere di essere sia vittima degli stereotipi di genere del padre, derivanti da retaggi di una cultura fortemente tradizionalista, sia vittima dello stigma di ragazza palestinese borghese “compromessa” (lasciando intendere il tema del collaborazionismo palestinese dell’ANP).
Ecco quindi che si fa passare lo stereotipo, universalizzato, del palestinese retrogrado che non considera le donne, suggerendo al contempo un paragone con Israele, percepito come avanguardia sul tema della parità di genere e non solo. In aggiunta, non si distingue ciò che è la resistenza palestinese dal collaborazionismo dell’ANP, storicamente sostenuto dalla borghesia palestinese.
Ciò che emerge è una rappresentazione del contesto palestinese connivente a come lo vogliono percepire gli occidentali: o una terra in conflitto dove vige il caos, o una esclusiva lotta politica, ovviando totalmente il frammentato contesto sociale palestinese.
La figura di Eden Golan, professoressa israeliana “di sinistra” che insegna storia ebraica “dal punto di vista ebraico”, è forse la figura più fortemente ossimorica, dal momento che Israele attua da anni la cancellazione culturale del popolo palestinese, a tal punto da riscrivere la storiografia esclusivamente da un punto di vista dell’occupante israeliano con importanti omissioni storiche volte all’assimilazione culturale. L’ “essere di sinistra” è, nel racconto, sganciato dall’attenzione verso gli ultimi, ma bensì legato alla distorsione semiotica che i liberal hanno compiuto negli ultimi vent’anni in tutta Europa, tra cui i sionisti liberali in Israele.
Il fatto che l’autore voglia specificare che insegna storia ebraica “dal punto di vista ebraico”, significa tralasciare uno dei più grandi problemi creati dalla propaganda israeliana: ridisegnare una nuova geografia coloniale che escluda i palestinesi; appropriazione culturale delle tradizioni palestinesi spacciandole per israeliane; ricostruzione di un paesaggio diverso da quello che storicamente era tipico dell’architettura araba. Tutto a favore della Nazione Ebraica e tutto a svantaggio dei palestinesi come “popolo senza cultura”.
“Essere di sinistra”, a tal proposito, significa avere uno sguardo pluriversale del/sul mondo rivolto agli ultimi e non con uno sguardo omologato, astratto e indifferente alle contraddizioni della realtà. Inoltre, durante tutto lo spettacolo è presente lo stereotipo del “palestinese terrorista” che, personalmente, pensavamo fosse altamente superato anche in ambito militante.
Ancora: si parla di Hamas come male assoluto e di Israele come bersaglio costante di Hamas, quando quotidianamente avvengono violenze e soprusi nei confronti dei palestinesi da parte di gruppi integralisti ebraici e di coloni, senza parlare della repressione militare dell’IOF nei confronti delle comunità gazawi, beduine e cisgiordane palestinesi. Per l’ennesima volta i resistenti sono stati dipinti come “terroristi”.
Abbiamo notato, inoltre, la presenza di uno sguardo cieco che si prefigge di guardare il conflitto arabo-israeliano tralasciando, volutamente?, alcuni punti importanti:
– decontestualizzazione dei rapporti di forza geopolitici
– mancata descrizione della capacità tecnico-militare di Israele rispetto alla Palestina
– mancata parola sull’occupazione sionista e sugli insediamenti illegali
– mancata contestualizzazione del dualismo politico tra Al-Fatah e Hamas in Palestina
In quanto a Mina Wilkinson, la soldatessa americana, svolge un ruolo abbastanza discutibile, in quanto, dalle sue parole, sembra voler attribuire agli USA il ruolo di paciere, annoiato dal “bisticcio” tra israeliani e palestinesi e dal dover svolgere il ruolo di intermediario tra i “due litiganti”, questo a fronte di una realtà ben lontana da tale raffigurazione e molto più complessa.
Nella più totale assenza di decolonialità, lo spettacolo crea anche categorie moralistiche tra palestinesi (per così dire) “accettabili”, ovvero il “palestinese laico” sostenitore della lotta nonviolenta, vittima dei soprusi di Hamas e che quindi “è giusto difendere”; e il palestinese “non-accettabile”, ovvero colui che è “tradizionalista, violento e terrorista”. Non si scorge per nulla una riflessione che descriva la condizione/classe sociale, ma piuttosto la loro condizione morale (come se fossero inesistenti il fondamentalismo religioso ebraico e la potente estrema destra nazionalista ebraica). Ciò fa sì che, a nostro parere, nello spettacolo risalti maggiormente una rappresentazione perbenista occidentale della lotta palestinese (quella che ci piace sentire e raccontare) accompagnata da una mozione degli affetti atta a coinvolgere lo spettatore, piuttosto che una dimensione politica.
Risulterebbe interessante anche analizzare più approfonditamente alcune affermazioni presenti nel testo, che riportano Israele come vittima di questa situazione, sposando con ciò il costante vittimismo di cui gli israeliani si ammantano perennemente. Per esempio, quando la professoressa israeliana, in preda a disperazione afferma:
“Cerco sicurezza” (come se in Israele la sicurezza non fosse un dogma);
“Che senso ha comportarsi in questo modo se noi per le soluzioni usiamo la testa e loro il tritolo” o “Non sarò più al sicuro finchè uno di loro si farà esplodere” (come se il carnefice fosse il popolo palestinese, mentre gli israeliani fossero un esercito di nonviolenti);
“Come è possibile tutto questo se condividiamo gli stessi profeti e la stessa terra” (affermazione che vuole sia oscurare l’origine europea askenazita dell’80% della popolazione israeliana e sia dare per scontato che la terra è di tutti due i popoli, omettendo il fatto che uno abbia colonizzato l’altro).
Non è da meno anche la soldatessa americana quando, nel monologo che la vede protagonista mentre mangia popcorn, sostiene, con tono peraltro sarcastico, che “Israele permette il matrimonio omosessuale”: notizia falsa, poichè ad oggi i 15 tribunali religiosi israeliani e il Gran Rabbinato non permettono nè le unioni civili omosessuali, nè tantomeno il matrimonio eterossesuale civile, ma solo quest’ultimo, e con rito religioso.
In conclusione si potrebbe affermare che è uno spettacolo stupendo con attori impeccabili, che ribalta completamente la dialettica e che, con toni umani e pacifici, fa amare l’oppressore ed odiare l’oppresso. Guarda infatti alla questione palestinesi con gli occhi dell’oppressore, e con uno sguardo colonialista vuole indurre alla compassione del “palestinese buono e nonviolento”, portando tutte le argomentazioni a favore di Israele e risultando un perfetto costrutto propagandistico volto ad alimentare la retorica “Israele vittima eterna”. La propaganda d’altronde agisce sugli immaginari ideali delle persone ed una volta conquistati, si è fatto centro.
Dopo questo spettacolo, molto ben rappresentato e certamente emozionante, ma fortemente scarno di contenuti e di attenzioni (involontariamente o intenzionalmente), si potrebbe iniziare a dubitare anche della buona fede di Stefano Massini, che pur negli ultimi anni si è presentato al pubblico con una dialettica dirompente e senza paura di esporsi.
Lo spettacolo, nella rappresentazione di “Caffè ristretto”, con la regia di Nicola Marra De Scisciolo, é visibile al seguente link