Gesù era palestinese: ripoliticizzare il Natale nel mezzo della repressione israeliana

Jeanine Hourani racconta il suo viaggio in Palestina durante il Natale, quando si è trovata di fronte alla cancellazione della storia palestinese cristiana da parte di Israele.  Una storia molto diverso dalla narrazione depoliticizzata della natività a cui era stata abituata crescendo in Australia.

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Jeanine Hourani – 19 dicembre 2022

Immagine di copertina: Non mi è stato insegnato che Betlemme è separata da due delle altre città religiosamente importanti  in Palestina – Gerusalemme e Nazareth – da un muro di cemento alto 9 metri e disseminato di posti di blocco lungo il suo perimetro, scrive Jeanine Hourani. [GETTY]

Nel dicembre 2018, io e la mia famiglia abbiamo visitato la Palestina: era la prima volta che qualcuno dei nostri parenti stretti tornava dopo la Nakba. Siamo stati trattenuti al confine per otto ore e sottoposti a molteplici cicli di interrogatori.

“Perché ora? Perché in questo periodo dell’anno?

“Quali siti avete intenzione di visitare?”

“Andrete in moschea’?”

Abbiamo capito subito quale domanda stessero realmente ponendo: sei cristiano o musulmano? Per noi la domanda era insignificante e non abbiamo abboccato all’amo: alla fine sapevano già di cosa avevano bisogno: sapere che eravamo palestinesi.

Spesso vediamo la lotta palestinese ritratta dai media occidentali come una “guerra di religione”. Sono cresciuta sapendo che non era così. La città da cui proviene la mia Teta, Tarshiha, prima della Nakba era  patria di cristiani, musulmani ed ebrei. Ancora oggi, Tarshiha ospita sia una moschea che una chiesa.

Un nostro amico di famiglia racconta spesso la storia di suo padre (che ho chiamato Jiddo Abu Nasser) che da bambino in Palestina giocava a biglie. Spiega che durante la settimana Ibrahim, Avraham e Abraham giocavano con lui. Venerdì Ibrahim andava in moschea, sabato Avraham andava alla sinagoga e la domenica Abramo andava in chiesa. Lunedì i ragazzi riprendevano a giocare assieme.

Nel dicembre 2018, ho visto scorci della Palestina attraverso le storie con cui sono cresciuta: storie su Tarshiha e su Jiddo Abu Nasser. Abbiamo passato la vigilia di Natale a Betlemme ammirando le luci natalizie che addobbavano le strade, scattato foto davanti al magnifico albero di Natale in Piazza della Mangiatoia, camminato per vicoli tortuosi  seguendo la banda musicale del gruppo giovanile e guardato con affetto, soggezione e invidia la mamma mentre cantava canzoni natalizie arabe che, crescendo in Occidente, non ho avuto l’opportunità di imparare.

‘Il regime israeliano politicizza una nozione inventata di valori ‘giudeo-cristiani’ riducendo il ‘conflitto israelo-palestinese’ a una storica battaglia religiosa che cancella completamente i cristiani palestinesi e contemporaneamente rafforza i tropi islamofobi per legittimare l’esistenza dello stato”

Verso le 18:00, i canti natalizi si sono improvvisamente interrotti e, pochi secondi dopo, abbiamo sentito la chiamata alla preghiera risuonare da una vicina moschea. Al termine della chiamata alla preghiera, sono ripresi i canti natalizi, un bellissimo promemoria del fatto che Betlemme è patria di palestinesi cristiani e musulmani.

Betlemme alla vigilia di Natale era un microcosmo dell’Unità palestinese, una finestra su una Palestina liberata dove i bambini giocano a biglie per strada. Per un fugace momento, il 24 dicembre 2018, ho dimenticato che Betlemme era una città sotto occupazione e forse questo spiega perché la  festività è una tale minaccia per il regime sionista che, abilitato dall’Occidente, ha cooptato le festività natalizie per oscurare la nostra realtà.

Da bambina cresciuta in Australia, la mia scuola materna e la mia scuola elementare mettevano regolarmente in scena rappresentazioni della Natività e l’immagine di Betlemme che rappresentavamo era completamente depoliticizzata. Non mi è stato insegnato che un muro dell’apartheid serpeggia intorno a Betlemme, circondando alcune case da tre dei quattro lati. Non mi è stato insegnato che Betlemme è separata dalle altre due città religiosamente significative della Palestina – Gerusalemme e Nazareth – da un muro di cemento alto nove metri e disseminato di posti di blocco lungo il suo perimetro. Mi è stato insegnato che la Chiesa della Natività ha fornito riparo a Maria e Giuseppe, ma non che ha anche fornito rifugio ai civili palestinesi e ai combattenti della resistenza durante la Seconda Intifada.

Mentre ero in Palestina nell’ottobre di quest’anno, ho incontrato regolarmente pellegrini a Gerusalemme, Betlemme e Nazaret. Li ho sentiti ricevere una versione annacquata e depoliticizzata della realtà della Terra Santa,  raccontata da tour leader certificati e addestrati dallo stato israeliano. Come i miei compagni di scuola elementare, i gruppi di pellegrini erano tenuti completamente all’oscuro della realtà delle atrocità e delle violazioni dei diritti umani del regime sionista. Ho origliato le loro guide turistiche che insabbiavano la presenza di soldati in ogni angolo della Città Vecchia di Gerusalemme e omettevano di menzionare che il motivo per cui Nazareth è così sovrappopolata è perché la vicina città di Saffuriya è stata sottoposta a pulizia etnica nel 1948, spingendo i suoi abitanti a Nazareth in cerca di salvezza.

Per caso, la propaganda approvata dallo stato israeliano è trapelata durante la mia visita del 2018. Mentre attraversavamo il checkpoint da Betlemme a Gerusalemme, soldati israeliani con cappelli di Babbo Natale distribuivano cioccolatini natalizi. Fissai il Babbo Natale di cioccolato, per poi strappare la carta e staccargli a morsi un pezzo di testa. Guardandomi indietro, non sono sicura del motivo per cui decisi di mangiarlo, ma penso che sia stato un tentativo inconscio di riprendere qualcosa, qualsiasi cosa, dal regime che ha preso tutto da me e dalla mia famiglia. Il cioccolato mi riempiva la bocca, ma non riusciva a eliminare il sapore amaro del crepacuore e della rabbia. Fu solo allora che mi resi conto che c’era un nastro intorno al collo di Babbo Natale e, attaccato, un biglietto che diceva:

“Cari pellegrini, lo stato di Israele vi augura un buon Natale e un periodo festivo benedetto”.

La nota ha fornito uno dei tanti esempi lampanti di come il regime israeliano politicizzi una nozione inventata di valori “giudeo-cristiani” riducendo il “conflitto israelo-palestinese” a una storica battaglia religiosa che cancella completamente i cristiani palestinesi e allo stesso tempo rafforza i tropi islamofobi per legittimare l’esistenza dello Stato.

Di fronte a tale violenza, è nostro dovere ricordare al mondo che Gesù era un palestinese, che non possiamo visitare la città da cui proveniva, il luogo in cui è nato o dove è stato crocifisso, senza attraversare un posto di blocco. È nostro dovere trarre ispirazione dal popolo di Betlemme, di Gerusalemme, di Nazaret e della Palestina che rimane unito e saldo nella lotta. È nostro dovere resistere ogni singolo giorno dell’anno.

 

Jeanine Hourani è scrittrice e ricercatrice palestinese attualmente residente a Londra.

 

Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” -Invictapalestina.org